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I SEPOLCRI IMBIANCATI DELL’AUTONOMIA. Di Francesco Mario Agnoli

I governi che hanno retto l’Italia dalla nascita della Repubblica ad oggi si possono distinguere e classificare in base a una pluralità di criteri. Ad esempio, a seconda che si siano accontentati di gestire la quotidianità o, al massimo, di fronteggiare al meglio evenienze inattese, o che abbiano invece cercato di lasciare un segno importante e duraturo della loro attività, in particolare attraverso consistenti modifiche dell’assetto costituzionale (il che, ovviamente, non implica di necessità un giudizio positivo sulle riforme effettuate). L’attuale governo Meloni si propone di collocarsi fra questi ultimi soprattutto attraverso l’introduzione dell’istituto del “premierato”, che direttamente o indirettamente incide sui compiti, le prerogative, le funzioni, i poteri di tutti o quasi gli organi dello Stato. Ma anche con la concreta realizzazione del nuovo impianto del rapporto Stato-Regioni previsto, sotto la designazione di “autonomia differenziata”, dalle modifiche apportate nel 2001 al titolo V della parte II della Costituzione dalla legge costituzionale pubblicata nella G.U. del 12 marzo 2001 dopo essere stata approvata in seconda seduta con la maggioranza assoluta dei voti, inferiore però ai 2/3 dei componenti, alla Camera il 28 febbraio e al Senato il successivo 8 marzo. La riforma rimasta finora inattuata nonostante la conferma popolare ricevuta, il 7 ottobre 2001, dall’esito del referendum costituzionale (64,2% di voti favorevoli in riferimento tuttavia ad una modesta partecipazione – 34,1%, – degli aventi diritto) prevede la possibilità per le regioni di ottenere dallo Stato il trasferimento a proprio favore di funzioni e relative risorse come conseguenza di una diversa ripartizione delle materie cosiddette “concorrenti” di cui all’art. 116 Cost. Il governo Meloni e la sua maggioranza di centro-destra, evidentemente convinte della positività della riforma, hanno inteso offrire alle Regioni a statuto ordinario che intendono avvalersene l’effettiva possibilità di accedere alle forme di autonomia differenziata previste. A tal fine è stata varata, il 26 giugno 2024, la legge n. 86 (ordinaria, dal momento che a preparare

il terreno con le necessarie modifiche costituzionali avevano già provveduto, come appena visto, nel 2001 il governo Amato e la sua maggioranza di centro-sinistra).

Non tutto però sta andando liscio, come, del resto era facile prevedere, trattandosi di una materia alquanto incandescente nonostante le apparenze, che mostrerebbero come gradita all’intero arco dei partiti politici una riforma approvata dal centro-sinistra e messa in esecuzione dal centro-destra. Difatti, se nel 2001 due richieste di referendum costituzionale vennero depositate già il giorno dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, non minori, anzi un vero e proprio bailamme, le reazioni suscitate, nonostante il suo minor grado nella scala gerarchica della legislazione, dalla legge “Calderoli- Zaia” (se così vogliamo definirla dal nome dei suoi più determinati sostenitori), accolta da immediate proposte e iniziative di referendum abrogativi (“ordinari” data la natura non costituzionale della legge). Per di più si prospettano anche ricorsi alla Corte costituzionale, che secondo alcuni avrebbero, rispetto al referendum, il vantaggio di non limitarsi a togliere di mezzo, col loro esito ritenuto scontato, la “86”, ma di bloccare per sempre o quasi la possibilità di dare attuazione all’istituto dell’autonomia differenziata.

Politica e stampa amano le semplificazioni e lo slogan scelto dagli avversari dell’autonomia differenziata è che questa “spacca il paese” per la contrapposizione che comporta fra le regioni del Nord, che si suppongono favorevoli, e quelle del Centro-Sud, contrarie. Slogan di successo se è stato essere recepito anche dal ministro Calderoli, che, capovolgendolo, attribuisce però la “spaccatura” invece che alla legge all’eventuale referendum, colpevole di contrapporre con la richiesta del voto i cittadini del nord a quelli del sud.

Aspetti emotivi a parte, sui quali evidentemente si intende puntare per l’esito referendario, l’argomento “spaccatura”, che starebbe a significare un gravissimo se non addirittura definitivo vulnus all’unità del paese, non solo è contraddetto sul consenso espresso, sia pure in tempi diversi, da tutti i

partiti, ma nemmeno è supportato né dai precedenti storici e da argomenti deducibili dal contesto costituzionale. Vediamo.

E’ principio sancito già dal testo originario (quello del 1948) della Costituzione repubblicana che in Italia non tutte le regioni sono uguali, dal momento che fin dalla nascita della Repubblica vi coesistono ragioni a statuto ordinario e ragioni a statuto speciale, come espressamente previsto dall’art. 116 della Costituzione. Una differenza, con tutte le conseguenze in tema di autonomia e di rapporti con il governo centrale e lo Stato, evidentemente fin d’allora ritenuta perfettamente compatibile con l’unità e indivisibilità delle Repubblica dal momento che l’art. 5 (che comunque già di per sé auspica il più ampio decentramento amministrativo e l’adeguamento della legislazione “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”) è stato approvato nello stesso tempo e nello stesso testo che all’art. 116 attribuisce a Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta “condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali”. Senza dubbio si trattò di un momento storico particolare per un’Italia, uscita sconfitta dal conflitto bellico, costretta ad una resa sena condizioni, e minacciata da tendenze centrifughe a volte agevolate dall’esterno. si è data la propria Costituzione. Ma proprio per questo è significativo  che per mantenere l’unità del paese si sia fatto ricorso, per alcune regioni ritenute più a rischio. a queste particolari condizioni di autonomia e, soprattutto, che si sia così conseguito lo scopo. Senza dimenticare che all’epoca il contesto appariva tutt’altro che favorevole a simili concessioni dal momento che lo stesso riconoscimento costituzionale dell’istituto regionale era oggetto di forti opposizioni, presenti anche in Assemblea costituente, da parte dei non pochi contrari alla “regionalizzazione” del paese, sempre in nome della sua pericolosità per l’unità del paese (lo stesso argomento utilizzato nel 1860 per fare della nascente Italia sabauda uno Stato fortemente centralizzato, respingendo le proposte, più o meno federalistiche, del Minghetti).

Oggi la situazione è profondamente cambiata e non vi è più ragione di temere tentazioni centrifughe (forse con qualche riserva per il caso, molto particolare anche per la  voce  in capitolo concessa a Vienna, dell’Alto Adige-Sudtirolo). Tuttavia le regioni in questione hanno conservato le loro “condizioni particolari di autonomia”, non intendono rinunciarvi né vi sono iniziative serie (qualche mugugno sì) per riallinearle alle consorelle a statuto  ordinario.  Evidentemente  sono  riuscite utili per chi ne usufruisce  senza  però  danneggiare  né l’economia nazionale né quella delle altre regioni  né  essere causa di “spaccatura”.

Quello dell’Italia spaccata in due è soltanto uno slogan, ma se le motivazioni delle proposte referendarie e dei ricorsi alla Corte costituzionale si limitassero al generico pericolo di “spaccatura” presentato come inerente al principio stesso dell’autonomia differenziata, la Corte non potrebbe né ammettere il referendum abrogativo né dichiarare l’incostituzionalità della legge. E’ ovvio che non sarà così e che, in sede costituzionale, la “86” verrà criticata non per il suo intento di realizzare l’autonomia differenziata, ma per come l’ha fatto, cioè nelle sue singole disposizioni. A queste condizioni è più che verosimile l’ammissibilità (quale ne sarà poi l’esito) del referendum abrogativo, ma, se si seguirà anche la via del ricorso alla Corte, questa potrà accertare e dichiarare l’incostituzionalità di questa o di quella parte della legge, ma non toccare il principio che ammette la possibilità dell’autonomia differenziata, perché ormai costituzionalizzato.

Prima di chiudere un’osservazione extra ordinem sul singolare caso della Regione Sardegna, che, pur essendo a statuto speciale, ha assunto una posizione fortemente negativa, ponendosi quasi alla guida dei contrari, sull’autonomia differenziata. Coerenza politica esigerebbe che a questa così forte presa di posizione si accompagnasse la rinuncia (del resto di semplice, formale correttezza, perché la  sua attuazione esigerebbe una improbabile legge costituzionale dai lunghissimi tempi) alla propria condizione di Regione a statuto speciale, che comporta forme particolari di autonomia significativamente maggiori, quindi tanto più “spaccanti”, di

quelle previste dalla legge “Calderoli-Zaia”. In mancanza, solo un’arrogante pretesa di non condividere nemmeno una parte dei propri privilegi con la plebe delle Regioni a statuto ordinario.

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