“Morire per il Donbass” non è una opzione contemplata dal popolo russo[1] o dal Presidente Valdimir Putin, interprete accondiscendente della volontà dei suoi concittadini. Questo lascia chiaramente intuire come i cittadini russi, soldati compresi, possano negativamente valutare l’opzione di “morire per Assad”. Sacrificarsi per Assad non è morire per la Siria, un Paese già clinicamente morto su cui si stanno accanendo avvoltoi e sciacalli come i Daesh, Al-Nusra e FSA (l’esercito “di liberazione” siriano). “Morire per Assad” vuol dire, invece, morire per i propri interessi nazionali, unica ragione per cui i soldati russi sono tenuti a combattere[2]. Sicuramente, ci sarebbe da sviluppare un discorso su cosa si intenda per “interesse nazionale” perché, ad esempio, gli Stati Uniti percepiscono come tutela del proprio interesse nazionale anche l’invasione di un Paese a quasi diecimila chilometri di distanza dalla propria capitale senza che vi siano “eque e proporzionate” ragioni per giustificare un intervento del genere. La Russia intende in maniera sostanzialmente differente questo concetto astratto e per rendersene conto basta consultare alcune sue leggi interne[3] o certi trattati internazionali[4]: la “tutela dell’interesse nazionale” si traduce soprattutto nella difesa dei propri confini interni e, poi, di una fascia variabilmente estesa di territorio attiguo a quello della Federazione Russa[5].
Dunque, la domanda da porsi in via preliminare è: l’integrità territoriale della Siria e il ripristino delle condizioni ante-2011 è considerabile un obiettivo di “interesse nazionale” del Cremlino?
A oggi, non ci sono le condizioni per ottenere una vittoria militare sul campo: con gli armamenti, le tecnologie e le tattiche di guerra odierne, la vittoria contro gruppi para-statali come i Daesh non è più conseguibile. Lo si è visto recentemente in Afghanistan e Iraq. Non essendo conseguibile una vittoria di questo genere, le probabilità che si possano sconfiggere i guerriglieri che oggi dividono la Siria e l’Iraq è molto flebile; solo un vero tandem Russia-Stati Uniti, seguito da potenze regionali e internazionali potrebbe fermare e debellare la guerriglia jihadista, ma non basta un coordinamento militare, serve anche un coordinamento finanziario, politico strategico a 360 gradi. È più probabile che il conflitto si congeli e che i confini nella regione vengano ridisegnati. Quindi, il ripristino delle condizioni ante-2011 potrebbe essere un obbiettivo nel lungo periodo per la Russia ma solo se nel breve periodo si arriva ad un accordo strategico con gli USA e con le potenze regionali[6]. Pare più verosimile, dato il dispiegamento delle forze russe[7], che Putin voglia salvare quel che rimane del regime di Assad sulla parte ovest del Paese nella fascia che va da Aleppo ad Homs fino alla costa dove vi sono le due celebri basi di Tartous (portuale) e Latakia (aerea) utilizzate dalla Russia. Nel frattempo le truppe di Assad si occuperebbero di resistere nel distretto di Damasco, aiutate prevalentemente da miliziani di Hezbollah e pasdaran iraniani (secondo alcune fonti, già presenti sul territorio con uniformi di Hezbollah). Tuttavia, lo scenario potrebbe cambiare nel medio termine, in quanto il vice ministro degli Esteri siriano, Walid Muallem, ha detto che il governo di Damasco prenderà in considerazione la richiesta di truppe russe per il combattimento congiunto con quelle di Assad. Il ministero degli Affari Esteri russo ha detto che eventualmente prenderà in considerazione la proposta, ma al momento l’obiettivo primario è quello di “rompere” le vie di comunicazione dei Daesh e colpirne i punti nevralgici principali attraverso operazioni militari “ad alta precisione” in modo da ridurne il potenziale militare. L’obiettivo di consolidare il potere del governo di Assad a est è confermato anche dall’ultimo discorso di Putin in sede CSTO a metà settembre in cui ha dichiarato “Naturalmente è indispensabile pensare ai cambiamenti politici in Siria. E sappiamo che il Presidente Assad è pronto a coinvolgere il segmento moderato dell’opposizione, le forze di opposizione sane, in questi processi della gestione dello Stato. Ma la necessità di unire le forze nella lotta al terrorismo certamente è al di sopra di tutto oggi. Senza questo, è impossibile risolvere gli altri problemi urgenti e crescenti, tra cui il problema dei profughi cui assistiamo oggi”[8].
La Russia, dunque, non sta cercando di sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di “poliziotto del mondo” (anche perché non ne ha le potenzialità) ma punta a coinvolgere tutti gli attori in gioco per coordinare le operazioni antiterrorismo fondamentali non solo per la conservazione degli interessi russi nel Mediterraneo ma anche per quelli in Asia centrale (dove il fenomeno del terrorismo sulla scia della crescita dei Daesh è in autmento[9]) e quelli in patria dove il fenomeno del terrorismo potrebbe creare instabilità. Seppure la Russia non ha una forza militare (impiegabile) con potenzialità globali e neanche “euroasiatiche”, attraverso delicate operazioni diplomatiche può mettere in moto una serie di fattori che potrebbero costringere i Paesi dell’area NATO a cooperare per controllare e fermare il fenomeno Daesh. Questo non sarà certamente una ricostituzione dell’asse Russia-NATO che si stava creando agli albori del nuovo millennio e poi bruscamente rotto in occasione dell’invasione dell’Iraq nel 2003, ma potrebbe diventare un modo per la Russia di vedere bilanciati i suoi interessi tanto in Medio Oriente quanto in Ucraina.
Putin non vuole morire per la Siria e la sua freddezza di calcolo lo tiene lontano da rischi spinti (anzi, mascherati) dal messianismo etico e dal tifo politico dei suoi simpatizzanti in patria e fuori. L’ipotesi di una ricostruzione della Siria così come era prima della guerra civile è di difficile realizzazione, a differenza della più probabile revisione dei confini così come descritta precedentemente. L’aumento delle truppe sul territorio siriano è funzionale ad accelerare il processo di consolidamento di Assad a est e limitare ulteriori danni in questo territorio cercando nel frattempo di piegare l’unico vero nemico della Russia: il terrorismo internazionale (in quanto diretta e concreta minaccia alla sua sicurezza nazionale). Putin sa che il raggiungimento di questo obiettivo passa dal dialogo con tutte le forze politiche internazionali, in cui un ruolo fondamentale lo svolgono le organizzazioni sovranazionali come l’OSCE, la SCO e il CSTO.
Marcello Ciola
[1] I russi diverse volte, attraverso i sondaggi, si sono espressi in maniera contraria a un diretto intervento militare in Ucraina. Liga Novosti, 67% россиян не поддерживают ввод войск РФ в Украину – опрос [67% rossiyan ne podderzhivayut vvod voysk RF v Ukrainu – opros; trad.: il 67% dei russi non sostiene l’ingresso delle truppe della Federazione Russa in Ucraina – Sondaggio], 4 febbraio 2015. http://news.liga.net/news/society/4980517-67_rossiyan_ne_podderzhivayut_vvod_voysk_rf_v_ukrainu_opros.htm.
[2] Il giuramento del soldato russo ad un certo punto recita: […] Io giuro di adempiere con onore ai miei doveri militari, di difendere con coraggio la libertà, l’indipendenza e l’ordine costituzionale della Russia, il popolo e la Patria.
[3] Ad esempio, la legge sulla difesa “N61-F3” dice che è fondamentale difendere il territorio russo da aggressioni esterne e svolgere i compiti siglati dai trattati internazionali. Sez. 4 art. 10 c. 2, fonte http://flot.com/today/laws1-1.html. Nella sua Costituzione si indica il Presidente come attore fondamentale per difendere la sovranità nazionale russa intesa come difesa dell’integrità territoriale e della propria indipendenza. Titolo IV, art. 80 c. 2.
[4] All’interno dei trattati di difesa e sicurezza della SCO e del CSTO e di tutti i documenti prodotti a seguito dei meeting internazionali svolti nella loro cornice, è possibile interpretare quello che la cultura politica russa intende per “integrità nazionale”, “sovranità nazionale”, “sicurezza nazionale”.
[5] Anche in questo caso, intendere la “integrità territoriale” così come è intesa da culture politiche differenti dalla nostra necessita di un dibattito molto più approfondito che non è il caso di affrontare in questa sede.
[6] Iran, Turchia, Paesi della penisola araba, Israele, Hezbollah e Egitto.
[7] Trattasi per lo più di mezzi e personale già presenti sul suolo siriano che comprendono forze aeree e armamenti ad alta tecnologia, oltre che personale militare altamente qualificato e specializzato in grado di supplire alle carenze tecnologiche, logistiche e di formazione del personale militare siriano (o, meglio, di quel che ne rimane). Da settembre, con due viaggi via mare e due via area, questo ammontare di uomini e mezzi si sta moltiplicando ma non corrisponde a una “reazione” di Mosca alle provocazioni statunitensi come alcuni cronisti sottolineavano quando i primi Mig-21 furono consegnati alla Siria ad agosto: questi furono infatti consegnati nel rispetto di trattati stipulati tra Damasco e Mosca molti anni fa. Uomini e mezzi successivamente giunti corrispondono a un rinnovato impegno a sostenere Damasco ma senza che vi sia l’intenzione di replicare una operazione Iraqi Freedom in salsa russa.
[8] Discorso di Putin al Consiglio di Sicurezza della CSTO, traduzione a cura di Marco Lattanzio, 16 settembre 2015. https://aurorasito.wordpress.com/2015/09/16/discorso-di-putin-al-consiglio-di-sicurezza-della-csto/.
[9] Sul tema, una lettura consigliata è II Nodo di Gordio, Masters of Terror, anno IV n. 7.