Riguardo ai vari spunti di riflessione che possiamo trarre dalle correnti celebrazioni del Centenario sulla Grande Guerra, i più interessanti sembrano rivolgersi alla responsabilità della massoneria e sul ruolo ricoperto dalle logge al fine di provocare il conflitto; di queste alcune interpretazioni vi vedono annesso il tentativo di abbattimento dell’ultimo baluardo della tradizione cattolica, l’Impero della casa d’Asburgo, dopo il duro colpo inferto alla Chiesa con la presa di Roma da parte del neonato Regno d’Italia (1870) e all’epoca tutt’altro che sanato. Attraverso quest’ottica interpretativa vediamo nella Grande Guerra un altro snodo cruciale dello scontro tra il mondo della “Tradizione” e quello della “Modernità”, che ne vedrà con l’epilogo il crollo definitivo dell’Impero austro-ungarico.
Un altro mondo “tradizionale” uscì travolto dal conflitto. Un mondo diverso, con differenti radici rispetto a quelle europee ma spesso intrecciatesi nel corso dei tempi: il “grande malato”, l’Impero ottomano. Un cosmo tradizionale, ricco di storia e di cultura, dove dietro la porta del dār āl-Islām – letteralmente “la casa dell’Islam” – si sono celati cosmi identitari differenti dai quali sono scaturiti affascinanti intrecci. Un mondo all’epoca in crisi, schiacciato dalle pressioni della “Modernità”, assediato dagli Stati nazione che lentamente lo erodevano con l’opportunistico pretesto di difendere le minoranze culturali e religiose, ottenendone il risultato opposto con l’insinuarsi di una nuova forma di nazionalismo “ottomano”, sia nel movimento dei “Giovani Turchi”, moderni nel pretendere un radicale rovesciamento dei valori della tradizione ottomana, che nei conservatori, i quali ebbero in comune un non troppo velato astio verso le piccole comunità non musulmane. Comunità che per secoli non furono considerate delle semplici minoranze ma isole identitarie, facenti parte integrante della “Sublime Porta”, forse poste su di un piano giuridico impari rispetto all’elemento musulmano, ma protette e tutelate.
E ciò ch rappresentò un’affascinante integrazione fra identità, sì diverse ma comunque convissute per lo più in armonia nel corso più di mezzo millennio, si tradusse negli orrori delle persecuzioni e del genocidio degli armeni, che ancora oggi qualcuno nega in nome di un nazionalismo che non ha più senso di esistere. E al dramma armeno se ne affiancò un altro, altrettanto disastroso sui piani umanitario e culturale, sebbene meno noto: quello delle comunità greche della Anatolia e del Ponto.
Eredi delle antiche polis greche delle coste orientali dell’Egeo e del Mar Nero, questi nuclei di “grecità” erano latori di un immenso patrimonio culturale, frutto di millenarie interazioni con mondi diversi, da quello persiano a quello romano, passando per la cristianità bizantina sino alla dominazione ottomana. Esempio affascinante fu quello dei greci del Ponto, o pontici, che a causa del crollo del mondo bizantino, isolati dal resto delle altre comunità greche, avevano sviluppato una lingua propria, oggi di difficile comprensione per gli stessi greci. Un’eredità stroncata non solo dalla “reazione” ottomana, sia di chi voleva preservare la tradizione musulmana sia di chi voleva aprire le porte alla modernità, ma anche da chi della “grecità” si era fatto campione e difensore.
La radice dell’astio greco – turco, al di là della convivenza durante l’età ottomana, ha origini antiche, ma non toccò mai l’apice raggiunto in tutto il XIX° secolo sino alla fine del primo conflitto mondiale, il cui inasprimento si dovette anche al divampare del nazionalismo greco, poggiante sull’idea di ricostruire la Megali Hellas, la “Grande Grecia”, un sogno che si rifaceva alla volontà di unificare politicamente tutte le comunità che si rispecchiavano culturalmente in quella parte di mondo erede dell’antica Grecia e dell’Impero bizantino. Un’idea che germinò e si rafforzò con l’indipendenza e la nascita del Regno di Grecia, ottenuta ai danni dell’Impero ottomano (1821-1830), fra i più noti moti ottocenteschi, al pari della “Primavera dei popoli” (1848) e del Risorgimento italiano, ma caratterizzato da un’interessante connubio tra la “romantica” idea di nazione e la millenaria identità religiosa ortodossa, contrapponendosi di fatto a tutto ciò che era “ottomano” e rivendicando a sé i nuclei di “grecità” orientali.
Scesa confusamente in campo al fianco dell’Intesa nel 1916, la Grecia era risultata tra le forze vincenti a conclusione del conflitto mondiale, strappando la Tracia orientale ai bulgari e avanzando pretese sui territori costieri dell’Egeo orientale, ove risiedevano il grosso delle comunità di cultura greca. Con l’occupazione di Smirne del 1919 si avventurò altresì in una seguente e catastrofica guerra (1919-1922) contro l’ormai defunto Impero ottomano, il quale aveva trovato nell’astro nascente di Mustafà Kemal “Ataturk” una guida in grado non solo di risollevare un popolo sconfitto e disorientato, ma anche di vincere questa nuova guerra che si credeva perduta in partenza, rovesciando quanto deciso alla Pace di Parigi – Trattato dei Sèvres, 1920 – e imponendo il trattato di Losanna (1923) che sancì la nascita della Repubblica turca come noi oggi conosciamo.
La guerra greco – turca non segnò solo la fine del sogno della “Grande Grecia”; significò la compromissione, se non la fine, della millenaria storia dell’Ellade orientale. Fanno accapponare la pelle i racconti delle persecuzioni inflitte alle vere vittime di quel piccolo ma terrificante conflitto, appena accennato nei manuali di scuola. Antipatie mai sopite, mutatesi in odio, divamparono in vendetta. Dapprima furono i greci a perseguitare l’etnia turca sui territori occupati, poi, a sorti rovesciate, fu il turno dei greci anatolici e pontici, che subirono una persecuzione di tale intensità e proporzione da spingere taluni a utilizzare il termine di “genocidio greco”, al momento riconosciuto solo dai diretti interessati, da Cipro e da qualche Stato degli U.s.a. e assolutamente negato dalla controparte turca, al pari di quello armeno. Simbolo di queste atrocità fu la distruzione di Smirne, da secoli ottomana ma da sempre ellenica, cuore di quell’affascinante convivenza accennata nelle righe soprastanti; contesa, rivendicata e occupata, abbandonata e perduta, la città fu incendiata e sommersa nel sangue di quelle comunità che da tempo immemore lì risiedevano. Fu altresì l’ora dello sterminio dei pontici, eredi degli antichi bizantini di Trebisonda che per ultima cedette alla conquista ottomana nel XV° secolo.
Atrocità germinate dalla ideologie nazionaliste, che a Losanna trovarono l’odioso epilogo con gli accordi tra Atene ed Istanbul per lo “scambio di popolazioni”, un esodo che portò centinaia di migliaia di uomini e donne culturalmente greci e di fede cristiana a lasciare l’Anatolia e il Ponto per i lidi greci e, viceversa, migliaia di persone di cultura e fede musulmana – non solo turchi – a seguire la rotta inversa, colpendo inesorabilmente anche quei nuclei di cultura ottomana che erano sopravissuti nel regno di Grecia, ricchi storia e cultura, diversi sì dalle radici europee, ma tuttavia preziose per la storia dell’umanità. E un Mare, l’Egeo, che un tempo s’identificava quale il ponte naturale tra due mondi, l’Europa e l’Asia, ricco di scambi culturali, vide le proprie onde gonfiarsi nella peggiore delle tempeste, diventando una barriera ideale di confine e divisione che ancora oggi si avverte, laddove la storia ha insegnato a convivere ma l’uomo ha voluto dimenticare, oscurando una delle più preziose eredità per le generazioni future.
Nicolò dal Grande