Publio Cornelio Tacito, storico dell’antica Roma, assunse un atteggiamento disincantato e realista di fronte all’emergere di un potere cesaristico sulle macerie della “virtù” repubblicana, venuta meno per il diffondersi dell’empietà tra i romani, e finì per accettare come irreversibile tale esito per lo Stato romano del suo tempo. Senza dubbio Tacito parteggiava per l’aristocrazia senatoria che si vedeva contendere il potere dall’autorità imperiale, la quale, dal canto suo, cercava di legittimarsi mediante un più vasto consenso popolare. Tito Flavio Domiziano, ad esempio, non fu quel “tiranno” descritto da Tacito, che con lui aveva conti familiari in sospeso avendo Domiziano perseguitato politicamente suo suocero, il grande generale Agricola. O perlomeno non fu solo questo, perché Domiziano fu anche un riformatore che migliorò le condizioni economiche dei sudditi, abbellì Roma con molti lavori pubblici, si appoggiò sulla popolazione urbana, sui piccoli coltivatori e sull’esercito. La dinastia Flavia, cui Domiziano apparteneva, proveniva dal ceto medio-basso ed era sempre stata guardata con sospetto dall’aristocrazia. Domiziano tornò apertamente alla politica popolare dei Giulio-Claudi e per contrastare il potere patrizio rafforzò la propria autorità imperiale fino a far sfociare il “cesarismo” nella prassi, di importazione orientale ed estranea alla tradizione romana (che sarà poi fonte di tanti problemi per i cristiani), della “deificazione” dell’imperatore. Il problema era che l’aristocrazia senatoria, pur gelosa delle proprie prerogative, non era però capace di decisione, come i tempi richiedevano, per governare un impero sempre più vasto.
Ma era esattamente questo che preoccupava Tacito ossia l’accrescimento di un potere assoluto e senza controbilanciamenti.
Noi, sotto certi profili, viviamo in un’epoca simile a quella di Tacito nella quale, per mancanza di nuove forme politiche a fronte della scomparsa dello Stato nazionale, sorge all’orizzonte un nuovo inedito e dissacrante cesarismo, un nuovo leviatano con dieci teste coronate. Perché, ed è questo il punto più delicato che ci accomuna a Tacito, in ballo è niente più e niente meno che la Politicità dell’essere umano – e l’uomo è per natura essere politico – indissolubilmente legata alla dimensione comunitaria e dunque, ci si lasci dire, aristotelica (e tomista) della Politica medesima. Una dimensione antropologicamente del tutto naturale che però, storicamente, ha sempre avuto bisogno di una legittimazione comunque “sacrale” di un tipo o di un altro, sin dai tempi, appunto, dello Stagirita. La stessa democrazia infatti non si è mai data senza un’etica fosse anche solo civile e, quindi, si è spesso presentata come religione civile.
La secolarizzazione della Politica ha aperto la strada all’egemonia dell’economia e nel postmoderno alla dittatura della finanza transnazionale. Una dittatura non più cesaristica, come quella dei tempi di Tacito o, per restare più vicini a noi, come quella dei regimi autoritari di massa del XX secolo – una dittatura quella esaminata da Tacito e quella conosciuta nel secolo scorso che comunque poteva ancora reclamare per sé una propria “sacralità politica” – ma una dittatura fondata sul potere dissolvente di una tecno-finanza che ha travolto la Politica e con essa anche la democrazia che senza dimensione politica, ovvero comunitaria, non vive. Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini lo hanno ben spiegato in un loro recente saggio laddove descrivono il passaggio dall’età della convivenza tra democrazia e capitalismo, che è coincisa con il periodo del secondo dopoguerra fino al 1989 ovvero con l’ultima coda della modernità solida, all’età del capitalismo finanziario inaugurata dall’emancipazione del potere finanziario dal controllo degli Stati reso possibile dagli accordi inter-statuali, come era ad esempio quello di Bretton Woods (1).
Dopo il 1989 è iniziata la post-modernità, che Zygmunt Bauman definirebbe “modernità liquida”, caratterizza dall’inevitabile rottura del legame tra democrazia e capitalismo. Legame che aveva assicurato un controllo sociale sul capitale. Mentre gli Stati nazionali venivano inghiottiti dalla globalizzazione, la stessa democrazia, ancor più e prima dello stesso capitale industriale a sua volta egemonizzato dalla finanza, veniva sottomessa alla volontà “autocratica” del capitale finanziario. Il rapporto tra democrazia e capitale si è capovolto a favore del secondo e questo è accaduto per il venir meno del concetto stesso di Politica e dunque di Comunità politica (2).
Queste osservazioni, però, ci consentono di indicare anche l’unica possibilità che l’umanità del XXI secolo ha di evitare un futuro orwelliano sotto una dittatura finanziaria che per essere soft, priva cioè strutture di potere pesanti come ad esempio i partiti unici, non per questo è meno pericolosa. Bisogna reimbrigliare il capitale finanziario e porlo nuovamente al servizio della Comunità politica.
Questo richiederà certamente una governance più ampia del singolo Stato nazionale e dunque un accordo paritetico tra Stati assimilabili per storia e cultura. Un recupero “condiviso”, dunque, della sovranità monetaria e del controllo sulla finanza per sua natura autoreferenziale e apolide. Ma imboccare questa strada, l’unica via di uscita, significa anche – sia ben chiaro! – tornare necessariamente a restituire alla politica, per restituire alla democrazia, una legittimazione che non sia solo astratta e formale ma soprattutto radicata nella cultura e nell’identità storica dei popoli che di essa vivono.
In un certo senso diventa inevitabile risalire la china della secolarizzazione che ha portato la Politica a perdere ogni fondamento a suo modo “sacrale” ossia etico e politico. Senza farsi intimorire da un eventuale “cesarismo politico” che voglia opporsi al “cesarismo finanziario”. Forse la Federazione Russa, con Putin, sta provando la via qui indicata: non si può restituire ai popoli la sovranità nazionale e democratica senza contemporaneamente mettere in discussione il formalismo liberale sul e nel quale ha prosperato e prospera la dittatura della tecno-finanza. Perché se aver tolto lo scettro all’imperatore deve poi assumere il significato di consegnarlo all’“aristocrazia capitalistico-finanziaria” (che non è certo quella senatoria di Tacito), allora il popolo, illuso dai banchieri con promesse di sovranità, risulta, a conti fatti, la vittima storica di quest’operazione.
Tuttavia non si potrà risubordinare la finanza al Politico volgendo lo sguardo al passato, se non altro perché non è possibile invertire il corso del tempo. Il tentativo dovrà essere fatto guardando al futuro ossia oltrepassando la stessa postmodernità liquida nella speranza che, alla fine del tunnel, si possa ritrovare nuovamente, in una forma inedita ed attualmente non immaginabile, quella dimensione comunitaria della Politica che l’antichità classica, l’età cristiana e l’epoca umanistica ci hanno insegnato a chiamare “Res Publica”, “Polis” o “Civitas”. Senza mai dimenticare che, agostinianamente, la Civitas hominum resta perennemente sospesa tra Civitas Dei e civitas diaboli e che spetta a noi modellarla, per quanto umanamente possibile nel tempo storico, sulla prima e non sulla seconda.
Luigi Copertino
NOTE
1. G. Ruffolo – S. Sylos Labini “Il film della crisi. La mutazione del capitalismo”, Einaudi, 2012.
2. Raghuram G. Rajan “Terremoti finanziari”, Einaudi, 2012. Raghuram Rajan è stato uno dei pochi economisti al mondo ad avvertire la comunità internazionale della crisi imminente prima che si manifestasse, in un momento anzi in cui il paradigma dominante era al suo culmine. Egli ha mostrato, già in tempi non sospetti, come l’ordine finanziario globale fosse scorretto. Dunque, non un ordine ma un dis-ordine che aveva generato, a causa del venir meno dei controlli sui capitali, un sistema in cui gli incentivi al rischio erano incredibilmente fuori misura rispetto ai pericoli che tale rischio poneva. L’accesso disuguale sia all’educazione sia alla tutela della salute negli Stati Uniti ha creato il clima favorevole all’espandersi di una finanza incontrollata e quindi alla crisi scoppiata nel 2008. Le scelte economiche della Germania, dominus nell’Unione Europea, hanno poi contribuito ad innescare, in Europa, il potenziale micidiale della deflagrazione finanziaria.