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IL DOPPIO BINARIO DELL'ITALIA NELLA NATO. DA UN LATO DETERRENZA E DA UN ALTRO COOPERAZIONE. INTERVISTA A LUCIO MARTINO, ESPERTO DI RELAZIONI INTERNAZIONALI. A cura di Gennaro Grimolizzi.

Lucio Martino è uno studioso di Relazioni internazionali e problematiche militari e strategiche. In questo intervista a Domus Europa fa un bilancio del vertice Nato svoltosi nelle scorse settimane a Varsavia, senza tralasciare il sempre maggior peso della Russia sulla scena politica europea e mondiale.

A cura di Gennaro Grimolizzi

Professore, serve ancora la Nato? Nel recente vertice Nato di Varsavia la Russia ha dominato la scena. Le preoccupazioni di Polonia e repubbliche baltiche e la loro esigenza di rafforzare i confini sono giustificate?

In breve, la risposta è che la NATO serve ancora. Fin dai suoi primi giorni, la NATO non è mai stata un qualcosa semplicemente volto alla difesa dei paesi da una diretta minaccia militare. La NATO ha subito istituzionalizzato in se stessa l’essenza della relazione tra l’America settentrionale e l’Europa occidentale oltre che ad assicurare la ricostruzione di paesi come la Germania escludendo il rischio che le condizioni che hanno portato a due conflitti mondiali potessero mai riproporsi. Come spiegato dal primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, il britannico Lord Ismay, la NATO serve a tenere “the Russians out, the American in, and the Germans down“. La fine della Guerra Fredda ha poi aperto una fase evolutiva multidimensionale che ha permesso alla NATO di trasformarsi da un’alleanza difensiva focalizzata alla protezione dell’Europa occidentale ad un’organizzazione che oltre a difendere i confini europei contribuisce alla sicurezza globale. In una fase storica nella quale gli Stati Uniti sono sempre più rivolti a Occidente, verso quell’Asia del Pacifico intorno alla quale gravita l’intera nuova impostazione strategica dell’amministrazione Obama, la NATO continua a costituire e garantire l’essenza stessa di quel legame che unisce le più grandi e democrazie mondiali.

Nel recente vertice Nato di Varsavia la Russia ha dominato la scena. Le preoccupazioni di Polonia e repubbliche baltiche e la loro esigenza di rafforzare i confini sono giustificate?

In un momento nel quale questioni quali l’Ucraina e, più in particolare, l’annessione russa della Crimea, rischiano di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia, le preoccupazioni di Polonia e Repubbliche Baltiche sono il prodotto dell’emergere all’interno dell’Alleanza Atlantica di punti di vista molto divergenti sulla portata della minaccia rappresentata dalla Federazione Russa e sul modo con il quale affrontare le sfide alla sicurezza provenienti dall’Africa Settentrionale e dal Medio Oriente. Una parte degli Alleati è riluttante ad approvare un maggior ruolo per la NATO per quanto attiene questioni come terrorismo e flussi migratori, tutte cose sulle quali l’Unione Europea svolge già un ruolo di primo piano. Questo in una situazione nella quale sono in molti a credere che, posti gli attuali vincoli di bilancio, l’Alleanza Atlantica non si può permettere di affrontare contemporaneamente la Federazione Russa e le minacce alla sicurezza tipiche delle coste meridionali e orientali del Mediterraneo.

Non sarebbe più opportuno avere un atteggiamento inclusivo e di dialogo verso la Russia? Putin sta avendo un ruolo determinante nel contrastare lo Stato islamico in Siria…

Come dicevo, all’interno della NATO si sono da qualche tempo consolidati due diversi approcci. Paesi quali l’Italia, la Francia e la Germania sembrano sempre meno favorevoli al perdurare del regime sanzionatorio internazionalmente disposto nei confronti della Federazione Russa. Nell’insieme, l’Italia sembra orientata in favore di una politica dal doppio binario, una politica che integri deterrenza e cooperazione. D’altra parte, altri paesi, tra cui le tre Repubbliche Baltiche, la Polonia e la Romania, sostengono l’opportunità di una maggiore presenza militare NATO in Europa. Ad oggi, se è vero che l’Alleanza Atlantica ha resistito alle istanze di quanti vorrebbero una normalizzazione dei rapporti con la Federazione Russa, è altrettanto vero che ha anche resistito le richieste di quanti vorrebbero fossero stanziate in modo permanente truppe in quei paesi dell’Europa orientale che hanno aderito all’alleanza dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Del resto, la possibilità che la Federazione Russa decida un giorno di destabilizzare le Repubbliche Baltiche facendo leva sulle relative minoranze russe apre scenari così drammatici da non poter essere trascurata. Non è poi da sottovalutare la diversa importanza data, da una parte e l’altra dell’Atlantico, al peso strategico della crisi ucraina in confronto all’affermazione, limitata ad alcune ben precise regioni mediorientali, dell’autoproclamato Stato Islamico. In questo quadro, credo che ogni eventuale approccio da riservare alla Federazione Russa non possa, comunque, non essere subordinato alla necessità di salvaguardare l’unità delle istituzioni transatlantiche ed Europee, come dimostrato ampliamente dai contenuti espressi dal comunicato finale del recente summit di Varsavia.

Con la Brexit l’Europa è cambiata e si è aperta una nuova fase. Avremo a breve altre uscite dalla UE?

Non credo. Per il Regno Unito la strada da percorrere per lasciare l’Unione Europea è ancora lunga è può prendere direzioni molto diverse. Sebbene l’euro-scetticismo sia in ascesa in tutto il vecchio continente, e nonostante siano ormai prossime le elezioni presidenziali francesi, per adesso non ci sono le condizioni per una reazione a catena. Per se, il referendum britannico non costituisce una minaccia esistenziale per l’Unione Europea, tanto più che non ha valore vincolante. Sotto questo punto di vista, il referendum con il quale nel 2005 la Francia ha bloccato la Costituzione Europea, ha inciso e continua a incidere in misura di gran lunga maggiore. In realtà, l’Europa è cambiata e sta cambiando meno di quanto sembri perché il referendum britannico del 23 giugno è espressione di un approccio nei confronti della questione europea da sempre altalenante. Oggi più che mai è il caso di ricordare le origini e le ragioni dell’atteggiamento del Regno Unito nei confronti delle iniziative politiche che hanno condotto all’unità europea. Tutti i principali paesi del continente sono stati, in un modo o nell’altro, sconfitti e occupati dallo straniero. Nel secondo dopoguerra, l’Europa agli occhi dei Britannici era poco di più di un’associazione di vinti. Nei paesi continentali l’idea nazionale era alquanto screditata, mentre nel Regno Unito le vicende belliche ne avevano sublimato la forza. Fin dai primi giorni della Guerra Fredda, i Britannici hanno percepito la pressione sovietica in maniera meno intensa. La situazione politica interna ha poi sempre creato dinamiche che allontanano il Regno Unito dal Continente. Il Partito Laburista, vale a dire la forza politica tradizionalmente più internazionalista, è molto più vicino alle formazioni socialdemocratiche scandinave che a delle sinistre continentali prevalentemente cattoliche. Infine, la preoccupazione maggiore, in tema di politica estera, è sempre stata la difesa di quanto resta dell’impero, anche attraverso la difesa della Sterlina. In questo quadro non si dovrebbe dimenticare come l’ingresso britannico nelle istituzioni europee, al tempo del governo Heath, si deve all’eccezionalità di un voto a maggioranza ottenuto in modo tutt’altro che “bipartizan”, e questo nonostante l’importanza di una tale decisione. Tantomeno si dovrebbe dimenticare come in circostanze molto simili a quelle attuali, quarant’anni fa si sia già svolto nel Regno Unito un’analoga consultazione popolare sull’Europa. Tornando al presente, il problema principale è che il fronte del Brexit è tutt’altro che compatto, cosa che renderà ancora più difficile l’elaborazione dei principi, per non dire dei particolari, di quella che dovrà essere la nuova relazione britannica con l’Unione Europea. Con tutta probabilità assisteremo al tentativo di riorganizzare i rapporti in modo simile con quanto avviene con la Norvegia. L’accesso al mercato unico sarebbe garantito in cambio del diritto dei cittadini europei di vivere e lavorare nel Regno Unito e di una qualche imposizione fiscale.

Le elezioni negli Stati Uniti del prossimo autunno avranno esiti clamorosi? Se dovesse vincere Trump, l’Atlantico sarà sempre più lontano dall’Europa?

La duplice battaglia che ha contraddistinto le elezioni primarie di quest’anno si distingue già per un esito clamoroso. La maggioranza degli Americani che ha preso parte a questa lunga stagione elettorale si è schierata in favore dei candidati che percepiva come il più lontano possibile dalla politica consolidata. A questo punto, sembra estremamente probabile che le elezioni presidenziali del prossimo novembre si risolvano in uno scontro dall’elevato grado di polarizzazione destinato a condurre l’uno o l’altro dei due principali contendenti a una vittoria di stretta misura. Saranno gli “swing states“, vale a dire quella decina di stati non attribuibili in quota democratica oppure repubblicana, come Florida, Ohio e Pennsylvania, a decidere le elezioni. Per il momento i democratici sembrano in grande vantaggio, ma l’apparente facile cammino di Clinton verso la Casa Bianca non è privo di insidie. Quest’ultima dovrà recuperare gli elettori di Sanders dentro e intorno al partito democratico, un qualcosa molto più difficile di quello che sembra perché per mesi Sanders ha evidenziato oltre ogni dubbio come Clinton fa parte del sistema e, quindi, come sia lontana dalla sua rivoluzionaria visione politica. In ogni caso, il prossimo inquilino della Casa Bianca non potrà non tenere conto del fatto che la politica consolidata statunitense è stata messa duramente in discussione in due grandi aree tematiche: l’economia e la politica estera. Le primarie 2016 hanno manifestato la necessità di porre fine a un declino economico che dura ormai quasi quarant’anni riversando la contrazione della classe media americana. Per quanto riguarda la politica estera, la maggior parte degli elettori si è espressa a favore di candidati che hanno duramente criticato gli interventi militari tipici dell’ultimo quindicennio. L’impressione è che molto dovrà cambiare per quanto riguarda i trattati internazionali di libero scambio e gli interventi militari decisi in base a ragioni geopolitiche. Altrimenti, se non si risponderà alle richieste dell’elettorato, con tutta probabilità la prossima tornata elettorale, nel 2020, si contraddistinguerà per una rivolta antisistemica ancora più forte di quella di quest’anno. Sanders e Trump sono la risposta democratica della gente comune nei confronti di un sistema che ritiene indegno. L’Atlantico si allarga oppure si restringe in base al grado di prevedibilità delle politiche messe in atto dai principali Paesi che afferiscono  alle sue coste. Da ultimo, i principi che hanno ispirato le politiche dei principali Paesi europei si sono distinti per un livello di continuità superiore a quello tipico delle amministrazioni statunitensi del dopo Guerra Fredda. Nelle presenti circostanze, indipendentemente dal risultato elettorale di novembre, non ci sono ragioni per credere che questo stato di cose possa cambiare, tanto più che anche un’eventuale nuova amministrazione Clinton sembra destinata a perseguire in politica estera obiettivi anche molto diversi da quelli perseguiti negli ultimi tempi dall’amministrazione Obama. In altre parole, comunque andranno le cose, nel prossimo futuro il rapporto transatlantico non dovrebbe essere esente da problemi.

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