Recentemente, ho già avuto modo di parlare su Domus Europa della riforma in atto del sistema bancario, in riferimento al bail-in, il nuovo metodo di salvataggio delle crisi bancarie, da poco recepito dall’ordinamento italiano e che entrerà in vigore a partire dall’inizio del prossimo anno. Brevemente, e per dover di chiarezza, è bene ricordare di cosa si tratta. Col termine bail-in si tende a indicare un sistema di risanamento del debito, cui pervenire per mezzo di un ricorso alle risorse interne all’ente stesso che si trova in difficoltà. Nello specifico caso del bail-in bancario, così come prescritto dalle norme europee, il salvataggio viene finanziato attingendo alle quote di soci-azionisti, obbligazionisti subordinati (anche detti junior) e correntisti i cui conti in banca superino i 100mila euro.
Tale innovativo sistema di ristrutturazione del debito si pone in contrasto con il più “tradizionale” bail-out, sino ad oggi usato (e abusato) per fronteggiare le situazioni di insolvenza degli istituti di credito. In questo caso, le banche vicino al dissesto venivano risanate facendo ricorso a fonti di finanziamento esterne, principalmente interventi dello Stato consistenti nell’erogazione di soldi pubblici.
All’interno di tale quadro di riferimento si viene a porre la misura con cui il Governo ha recentemente provveduto a “salvare” dal fallimento quattro banche italiane, da tempo poste sotto regime di amministrazione straordinaria: Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e CariChieti. Più specificatamente, con il decreto c.d. “Salva-Banche”, dello scorso 22 novembre, il “Governo-Renzi”, oltre a recepire la direttiva europea prescrivente il bail-in, ha disposto il salvataggio delle suddette quattro banche per mezzo delle nuove regole europee, senza tuttavia ricorrere completamente al bail-in (dato che le relative disposizioni entrano in vigore solo il primo gennaio prossimo), facendole in sostanza “il verso” e ponendosi a metà strada col bail-out, il cui ricorso sarebbe, altrimenti, risultato impraticabile in quanto considerato “aiuto di Stato” dalla normativa europea.
Nel dettaglio il provvedimento in questione consiste nella creazione di quattro “banche-ponte” che andranno a sostituire le vecchie banche in fallimento, ora poste in regime di liquidazione coatta amministrativa. Accade, dunque, che la “parte buona” (conti correnti, depositi e obbligazioni ordinarie) viene separata dagli asset “cattivi” e dalle attività in sofferenza di dubbio realizzo, le quali confluiscono all’interno di un’unica “bad bank”.
Come dicevamo non viene fatto un vero e proprio ricorso al bail-in. Sebbene, l’onere del salvataggio venga posto in capo ad azionisti e titolari delle obbligazioni subordinate, non vengono tirati in ballo i detentori di depositi superiori a 100mila euro. Tuttavia, il carico finanziario di tale operazione ricade in prevalenza sul complesso del sistema bancario italiano. Difatti, il Fondo di risoluzione cioè lo strumento messo in campo dal Governo e dal sistema bancario per il salvataggio (previsto dalle norme europee e amministrato da Bankitalia), nell’operazione di ricostituzione del capitale delle quattro banche-ponte, viene finanziato in buona parte da 3 grandi banche (Intesa SanPaolo, Unicredit, UbiBanca), e nella restante parte dall’intero sistema creditizio italiano.
La gestione del risanamento delle quattro banche è compito, dunque, del Fondo di risoluzione ai fini del loro ricollocamento successivo sul mercato come “good bank”, mentre la “bad bank” sarà impegnata nel recupero dei crediti deteriorati (bad loan). Si tratta di 8,5 miliardi di euro di prestiti effettuati dalle banche che difficilmente saranno restituiti dai loro debitori. La responsabilità di questa situazione va rintracciata nella gestione azzardata dei prestiti da parte dei vertici delle banche. Dopo essere stati certificati i crediti deteriorati saranno venduti a società specializzate nel recupero dei non performing loans e il ricavato dovrebbe servire a ripagare il Fondo di risoluzione.
Sebbene, sia il Governo che la Banca d’Italia abbiano affermato che questo salvataggio non costi nulla allo Stato, essendo interamente a carico del sistema bancario italiano, oltre che di azionisti e obbligazionisti subordinati delle banche in difficoltà, le cose non stanno in effetti così. Nel malaugurato caso in cui la valorizzazione degli asset conferiti alla “bad bank” non dovesse coprire il prestito, a pagare saranno, quantomeno indirettamente, i contribuenti italiani e non, quindi, esclusivamente il sistema bancario, attraverso il ricorso alla garanzia di Cassa Depositi e Prestiti, così come prevista all’interno del Decreto, mettendo in atto a tutti gli effetti una forma di bail-out.
Questo pasticcio all’italiana, ha finito col provocare la nascita di un esercito piccoli risparmiatori che lunedì 23 novembre andando in banca non hanno trovato più i propri risparmi. Sembrerebbe che il Governo stia valutando un intervento, che andrebbe a coprire parte delle perdite subite da tutti quei risparmiatori e sottoscrittori di bond subordinati. Laddove dovesse provvedere lo Stato in tal senso, tale operazione potrebbe far nascere sospetti per aiuti di Stato in quel di Bruxelles. Inoltre, vi è il rischio concreto che tale “Fondo di Solidarietà” possa essere chiamato in causa anche nei futuri nuovi fallimenti che finirebbero in bail-in. Non bisogna dimenticare, infatti, che sono nove le banche che attualmente si trovano in amministrazione controllata e che quindi sono candidate ad un probabile bail-in.
È evidente che a una simile situazione non si sia giunti dal giorno alla notte. Il sistema creditizio presenta eccessive asimmetrie informative, sulle quali da sempre si basano le attività speculative ai danni dei risparmiatori. Pare ovvio che non si tratti solo di un problema di educazione alla finanza. Non si può pretendere che ogni singolo risparmiatore conosca a menadito lo stato di salute di un istituto, quando, spesso, neanche gli organismi pubblici deputati al controllo ne sono al corrente.
Il problema si pone, dunque, a monte. Esso sta nella difficoltà di individui e piccole imprese nel riuscire a rimborsare alla banca i prestiti ricevuti, a causa della crisi economica. Tale situazione va ben oltre il quadro del sistema bancario, sebbene lo comprenda, e non sembra proprio si possa magicamente risolvere attraverso l’applicazione del bail-in al posto del bail-out.
L’UNIONE EUROPEA: AGONIA DI UNA COLONIA. Di Guido Salerno Aletta.
L’Europa non si è mai sottratta alla presa statunitense: a partire dal 2010, la crisi del debito è servita alla finanza USA per ribaltare sull’altra