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TRA “CATTOLICESIMO TRIDENTINO” ED “ESOTERISMO CRISTIANO”. IL CASO DI CRISTINA CAMPO. di Marco Toti*

C’era una volta, come nessuna altra volta

Cristina Campo (1923-1977)

Il tema dei rapporti tra Cristianesimo – nella fattispecie cattolicesimo – ed “esoterismo”, oltre a quello della “resistenza tradizionalista” alle innovazioni ispirate dal Concilio Vaticano II (ecumenismo e rapporti con le altre religioni, in specie con il Giudaismo, libertà religiosa, liturgia, etc.), storicamente contestualizzabile, al suo principio, nell’ambito di quell’autentico turning point che furono gli anni ’60, costituisce una questione abbastanza dibattuta ed altrettanto problematica, sulla quale non si è ancora giunti ad una conclusione che sia unanimemente condivisa. Tutto ciò rimanda anche ad un significativo capitolo di “storia intellettuale” europea, certamente minoritario rispetto agli orientamenti mainstream, ma non marginale né privo di significative – talora cruciali – ricadute sul piano degli equilibri culturali e spirituali di Occidente.
Tra gli altri, alcuni intellettuali credenti – spesso “convertiti”, ovvero timorosamente “sulla soglia” della Chiesa – si sono distinti nell’ambito della complessa temperie storico-culturale di questo arco temporale, che data, orientativamente, dall’inizio degli anni ’60 – quando, dopo il boom degli anni ’50, e forse come suo necessario “contraccolpo”, si andava chiaramente profilando, all’orizzonte della società occidentale, una autentica “crisi” strutturale – alla prima metà degli anni ’70; è questo – lo notiamo en passant – un lasso diacronico indubbiamente degno di particolare attenzione, in specie per quanto concerne la nascita e lo sviluppo di gruppi afferenti al composito e “sommerso” arcipelago della cultura italiana “non conforme” (di segno, per così dire, “spiritualista”). Al fine di proporre alcuni punti di riferimento cronologici, forniamo come “coordinate” tre eventi: la chiusura del Concilio Vaticano II (8/12/1965), la doppia proclamazione della Institutio generalis della “nuova messa” da parte di Paolo VI (aprile 1969 e marzo 1970) e la consacrazione dei seminaristi ad Ecône da parte di Mons. M. Lefebvre (avvenuta nel 1975, e a cui seguì la sospensione a divinis dell’arcivescovo francese). Inizieremo con l’analizzare compendiosamente alcuni aspetti dei rapporti – intellettuali e/o personali – tra Cristina Campo (Bologna, 1923-Roma, 1977), sublime e sfuggente figura di scrittrice, poetessa e traduttrice, e l’ambiente battagliero, certamente ristretto ma non ininfluente sul piano storico-religioso – allora forse più compatto di oggi, anche a motivo della necessità di costituire un fronte comune contro le innovazioni conciliari e, in particolare, la riforma liturgica: ma anche, forse, per l’inessenzialità delle componenti “politiciste” del cattolicesimo integrale di allora –, dei “tradizionalisti” cattolici; vari riferimenti saranno inoltre dedicati agli influssi di un’altra forma di “tradizionalismo” – quello che per comodità definiremo “guénoniano” – sul pensiero della Campo stessa (influenza molto probabilmente mediata da E. Zolla e dal suo “circolo”). Mentre, nel primo caso, le relazioni tra la scrittrice e quelli che successivamente saranno impropriamente definiti “lefebvriani” o “sedevacantisti” (nelle loro varie espressioni) sono abbondantemente documentate (noti sono, ad esempio, gli strettissimi contatti tra la Campo e, tra gli altri, Monsignor M. Lefebvre e Padre M.L. Guérard des Lauriers), meno concrete – ma non prive di fondamento, sebbene spesso fondate su discrete “allusioni” – sono le “convergenze” tra quest’ultima e i cdd. “perennialisti” (a parte, ovviamente, il caso dell’appena menzionato Zolla, che, comunque, costituisce un capitolo a parte anche rispetto agli ambienti “guénoniani”). La Campo, infatti, seppure in modo non sistematico, appare convergere verso una tendenza intellettuale che, in forme elitarie ma discretamente pervasive (anche in ambiente accademico), costituisce un parto relativamente recente (oltre che unico nella sua specificità) della storia intellettuale di Occidente: un “tradizionalismo interno” che accoglie l’idea della “unità trascendente delle religioni”, paradossalmente integrando (o forse “sovrapponendo”) al cattolicesimo tridentino una prospettiva “universalista” che considera le altre tradizioni come espressioni formalmente diverse ma sostanzialmente “equivalenti” al Cristianesimo.

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È stato asserito che Cristina morì, letteralmente, di agonia per la Messa antica. Nelle parole del padre domenicano Guérard des Lauriers, futuro estensore, alla fine degli anni ’70, della famosa “Tesi di Cassiciacum” – che distingue tra “materia” e “forma” del papato, ossia tra elezione alla sede romana e volontà di operare il “bene della Chiesa” -, il “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, firmato dai cardinali A. Bacci e A. Ottaviani (non da Monsignor Lefebvre) su sollecitazione della stessa Campo, e presentato a Paolo VI il 20 (o 21) ottobre 1969 da Ottaviani (con una lettera di accompagnamento), costituì un “intervento il cui onore deve essere attribuito a colei che ne concepì il progetto, ne portò il peso e ne morì d’agonia”. Il testo in oggetto fu messo a punto dalla Campo, cardiopatica dalla nascita, a partire da note scritte in francese e da lei vergato direttamente in italiano (sotto dettatura di Guérard des Lauriers) tra l’aprile ed il maggio del 1969 (soprattutto di notte); quindi, esso fu lungamente e scrupolosamente vagliato da Ottaviani, e da questi firmato il 13 settembre (alla firma di Ottaviani seguirà quella del card. Bacci il 28 dello stesso mese). Lo storico documento fu poi tradotto in francese dalla Campo e da Guérard des Lauriers, su domanda di Mons. Lefebvre; ovviamente, parallelamente a ciò, senza quartiere fu anche la lotta della Campo contro la “nuova messa”, che ella ebbe a definire perentoriamente come “l’orrore”. Ad ogni modo, in “Una immensa vittoria”, la Campo scrisse significativamente: “Per la prima volta – se non erriamo – nella storia della Chiesa, la Santa Sede ha corretto, a meno di un anno dalla sua apparizione, un documento pontificio ufficiale. Si tratta del sinistro paragrafo 7 della Institutio generalis che apre il nuovo messale di Paolo VI, pubblicato nell’aprile 1969. Questo paragrafo, nella edizione del marzo 1970, è radicalmente trasformato. Poiché esso contiene la definizione stessa della messa, non sarà difficile misurare l’importanza della trasformazione. Vittoria grandissima dei Cardinali Ottaviani e Bacci e della Fondazione ‘Lumen Gentium’, le cui critiche al nuovo messale si sono mostrate così pienamente giustificate, contro il parere di tutti quei cattolici per i quali l’obbedienza è divenuta una droga e che sostenevano l’illegittimità delle osservazioni dei Cardinali”. Subito dopo, la Campo procede a comparare “le due definizioni”; in effetti, si può facilmente rilevare che nella versione del 1970 fu aggiunto sia che il sacerdote “rappresenta il Cristo”, “realmente presente nell’assemblea riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola sostanzialmente e in maniera ininterrotta sotto le specie eucaristiche”, sia il carattere sacrificale della Messa, “nella quale si perpetua il sacrificio della Croce” (l’A. sottolineava significativamente entrambe le aggiunte, neppure implicite nella prima versione): ciò che induce la Campo a qualificare la “differenza dei due testi” come “una differenza di religione”. Anche se sulla definizione originale, nonostante il suo “emendamento” (!), rimase costruito il messale paolino, “la vittoria dei Cardinali sul paragrafo 7” dimostrava la liceità e l’utilità della critica “là dove fede e tradizione siano in gioco”, oltre che, quindi, della “richiesta di correzione dei testi che diano adito a tali critiche”.
Ai fini di una accurata ricostruzione della vita della Campo, v’è da dire che le frequentazioni “religiose” della letterata bolognese – sebbene di ben altro segno rispetto alle successive amicizie “tradizionaliste”, posteriori di circa un decennio – risalgono alla metà degli anni ’50: a questo periodo, infatti, rimanda la conoscenza di P. D.M. Turoldo e di P. G. Vannucci (tutt’altro che ascrivibili al fronte dei “tradizionalisti”). Subito dopo il suo trasferimento a Roma, nel 1957, ella fece pure la conoscenza di Zolla, tramite la poetessa M.L. Spaziani, che stava per sposare l’intellettuale torinese; i due convissero poi, in forma “mai completa”, dal 1959 alla morte di Cristina, con un sensibile deterioramento del loro rapporto negli ultimi anni.
La fervida attività di difesa della Messa romana da parte della Campo – ciò che peraltro, come si vedrà, costituì l’elemento di “rottura” con lo stesso Zolla – si ebbe, in primis, tra il 1965 ed il 1970: la scrittrice fu infatti fondatrice non ufficiale di “Una Voce-Italia”, l’organizzazione sorta per la salvaguardia del rito romano antico (e del canto gregoriano ad esso connesso), la cui prima “incarnazione” si ebbe nel 1964, a Parigi; tale organizzazione si costituì giuridicamente il 7 giugno 1966. I primi numeri di “Una Voce-Italia” furono quasi interamente scritti o curati da Cristina stessa. È proprio nel 1965, dopo i decessi dei due genitori, avvenuti nel volgere di circa un anno, che la Campo iniziò significativamente a criticare S. Weil; inoltre, il suo rapporto con Zolla entrò in crisi, proprio a motivo della difesa della Messa romana (strettamente connessa alla conversione della Campo). Secondo Zolla, si trattava di una “battaglia persa”: la Chiesa cattolica, apocalitticamente, “era morta” proprio nel 1969, con la introduzione della “nuova messa”: ciò che, peraltro, interruppe l’avvicinamento di Zolla, abbastanza verosimile, al cattolicesimo. La frequentazione di prelati ed esponenti “tradizionalisti” da parte della Campo si fa ovviamente fitta, anche per ragioni “logistiche”, proprio in questo torno di tempo. I medesimi prelati, a loro volta, contribuirono all’allontanamento di Cristina da Zolla, certamente già ben avviato nel maggio del 1969: ciò conferma da un lato la battaglia che fu connessa alla difesa della Messa cattolica costituì una sorta di “approfondimento” della conversione della Campo, dall’altro che la difesa dell’intera tradizione cattolica fu la ragione che segnò un punto di non ritorno nell’ambito delle relazioni sentimentali con Zolla e “intellettuali” con la Weil. Peraltro, la risposta alla “Lettera a un religioso” della Weil, scritta su suggerimento della stessa Campo da Guérard des Lauriers, costituì un ulteriore passo della Campo verso l’”ortodossia” cattolica: la Weil, infatti, apprezzava la liturgia, la mistica cattolica ed il Nuovo Testamento, ma non l’orientamento dottrinale di segno “tridentino” (tomista) della Chiesa, ed aveva a suo tempo formulato dubbi inerenti ad alcuni dogmi cattolici. Ad ogni buon conto, ciò che è certo è che la Campo morì cattolica, a differenza della Weil, mentre Zolla, negli ultimi anni della sua vita e dopo una produzione di grande valore letterario e significativo in relazione alle religioni comparate, si interessò addirittura di “realtà virtuale”, mettendone in luce il supposto carattere “mistico”. Secondo alcuni, tuttavia, il progressivo “approfondimento” della fede cattolica da parte della Campo costituì un “percorso incompiuto” (anche se sincero, e per molti versi ammirevole); inoltre, il rapporto con Zolla, non si sarebbe mai del tutto interrotto. Certamente, gli anni successivi al 1970 costituirono per Cristina un periodo di crisi, sia dal punto di vista personale che da quello “sacramentale”: Guérard des Lauriers lasciava Roma nel 1970, mentre il suo confessore, P. B. Lenzetti, era nel frattempo deceduto; la Campo, nel frattempo, cominciava a frequentare i riti russo-cattolici del “Russicum”. In questo torno di tempo, “l’ultimo servizio alla causa tridentina fu la pubblicazione – per le edizioni Rusconi – del libro di Mons. Lefebvre, Un Vescovo parla, proprio del 1974”. Se l’interesse per la liturgia romana e bizantina, insieme a quello per la poesia – tra le quali è facile notare gli stretti legami, messi sottilmente in luce dalla stessa Campo –, fu il più significativo della vita della Campo, e, per gli ultimi 15 anni circa della sua vita, quasi “totalizzante”, è chiaro che “l’interlocutore privilegiato di C. fu – almeno per la liturgia stessa – Mons. Lefebvre, nel quale ella vide l’intemerato custode dell’ortodossia”.
Oltre alla citata lettera presentata a Paolo VI, l’attività della Campo in difesa della Messa romana partorì altri due importanti documenti. Reso pubblico nel 1966, il primo manifesto, voluto dalla Campo e firmato, tra gli altri, da R. Amerio, J.L. Borges, G. de Chirico, A. del Noce, C.T. Dreyer, J. Maritain, E. Montale (pochi mesi dopo eletto vicepresidente di “Una Voce-Italia”), S. Quasimodo, M. Zambrano, E. Zolla, fu sommamente significativo in quanto influenzò il papa nella decisione di preservare il latino nella liturgia romana officiata nei conventi (cfr. la Lettera Apostolica di Paolo VI Sacrificium laudis, dello stesso anno). Il secondo manifesto, anche questo attribuibile alla Campo e pubblicato nel 1971 dal Times e poco dopo, in traduzione italiana, ancora da “Una Voce Notiziario”, fu firmato, tra gli altri, da R. Amerio, A. Del Noce, E. Paratore, J. L. Borges, M. Luzi, E. Montale, M. Zambrano, A. Christie, J. Green, ed ebbe un altro importante effetto: l’”indulto”, concesso da Paolo VI il 5-11-1971, in relazione all’uso della Messa tridentina in Inghilterra e Galles.

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Dopo aver compendiosamente esposto gli innegabili meriti della Campo, sono tuttavia da renderne note alcune “contraddizioni”, probabilmente inevitabili nelle condizioni complesse della modernità “intellettuale”: ciò che evidenzia, da un lato, i conflitti di chi si appassiona alla conformità del rito con la tradizione della Chiesa – che però, almeno in questo caso, non è certo possibile ridurre a mero estetismo –, e dall’altro mette in luce certe aporie interne allo stesso cattolicesimo (certamente postconciliare, senza dimenticare certe “semplificazioni”, probabilmente necessarie, di quello preconciliare: ciò che potrebbe indurre a formulare la ipotesi di un Vaticano II e di un postconcilio “reazioni” all’”enfasi definitoria”, peraltro storicamente e dottrinalmente motivata, del cattolicesimo tridentino). In questo senso, la Campo è certamente accostabile a due altri importanti personaggi, di cui sono noti la profondità ma anche certi “squilibri” determinati per l’appunto da una ricerca forse “ossessiva”, paradossalmente quasi “cartesiana”, della verità: R.P. Coomaraswamy (1929-2006), figlio di Ananda Kentish e convinto sedevacantista “totale” statunitense di origini indù (oltre che chirurgo, psichiatra e, in tarda età, sacerdote), e la celebre S. Weil (1909-1943), già citata (che però, a differenza della Campo e di Coomaraswamy, non si convertì al cattolicesimo). Ci pare molto significativo, ad esempio, che le critiche della Campo e di Coomaraswamy jr furono dirette in buona misura contro il novus ordo, mentre furono molto più elusive in riferimento ad altri classici targets tipici degli ambienti cattolici “tradizionalisti” (ad esempio, l’ecumenismo e la libertà religiosa, su cui superficialmente, e talvolta anche de facto, vi è una paradossale convergenza tra “perennialisti” guénoniani e “modernisti”); tuttavia, se la Campo e soprattutto Coomaraswamy “osano” (soprattutto il secondo, anche in virtù dell’importante eredità paterna) forse troppo in materia di “unità trascendente delle religioni”, vi è anche da dire che alcuni ambienti “sedeprivazionisti” (vicini alle tesi di Guérard des Lauriers) – presso i quali, pur in una parziale “convergenza” sulla pars destruens, essi non godono, generalmente, di buona fama – sembrerebbero in certa misura “ossificare” la tradizione cattolica, riducendola talora a formule interpretate in senso restrittivo; se certe “reazioni” furono probabilmente una risposta eccessiva ad un problema reale, e si continuano, in forma diversa, nel settarismo fondato su di una reinterpretazione in qualche modo “sclerotizzata” (e “semplificatoria”) della tradizione, irrigidita su moduli pur certamente autorevoli, ma letti in termini iperesclusivistici, v’è pure da riconoscere che alcuni problemi sostanziali interni al cattolicesimo postconciliare permangono.
Per tornare alle “aporie” della Campo, è evidente che l’amicizia (comune con Zolla, che fu addirittura, per almeno un decennio, discepolo del rabbino Heschel) e le sue “convergenze intellettuali” con il rabbino A.J. Heschel, colto studioso della filosofia ebraica medievale, della kabbalah e dello chassidismo – che la stessa Campo presentò in traduzione italiana per Rusconi nel 1970, dunque parallelamente alla battaglia per la Messa romana! – non costituisce un atteggiamento usuale per un cattolico “tradizionale”: a maggior ragione se l’A. in oggetto, definito dalla Campo “come ogni mistico […] homo liturgicus”, fu uno degli ispiratori di uno dei documenti più avversati in ambito cattolico-tradizionale, Nostra Aetate. Deduce da ciò F. Ricossa: “Quindi anche nel 1970 C. [Cristina Campo] non difendeva tanto la Tradizione ma le tradizioni, non l’Ortodossia ma, ma il ‘Sacro’, non tanto la Messa ma il ‘Rito’…”.
Lo stesso interesse per l’alchimia, variamente documentato, non è certo comune presso gli ambienti “tradizionalisti”; ad integrazione di quanto appena detto, nello stesso periodo la Campo scrive l’”Introduzione” alla traduzione italiana di Chögyam Trungpa, “Nato in Tibet”, nella quale si evidenziano “aperture” caratterizzanti il pensiero – certo non sistematico – della Campo in materia di “convergenze” tra diverse religioni (in questo caso tra Cristianesimo e Buddhismo tibetano). A volte, queste aperture sono esplicite: la Campo afferma infatti, nella stessa introduzione, che “l’ortodossia può parlare all’ortodossia” (riferendosi rispettivamente all’ortodossia cattolica ed a quella buddhista tibetana); e tuttavia, al di fuori del piano “spirituale” in senso stretto, la Campo paragona le riforme conciliari alla occupazione cinese del Tibet (cui si potrebbe aggiungere lo sterminio degli indiani d’America). In ultima analisi, secondo Cristina la “tenaglia” che stupra la “tradizione” è resa operante dall’azione convergente del braccio “liberale” e di quello “socialista”, se vogliamo usufruire di un’immagine che ben compendia gli esiti della dottrina e della prassi neomoderniste.
Marco Toti

* Domus Europa ringrazia il sito http://www.simmetria.org

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