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CALENDA, TTIP E LA DIFFERENZA TRA GOVERNO E GOVERNANCE. Di Claudio Giovannico

Il ministro Carlo Calenda, 43 anni.

Poco dopo essersi insediato nella carica di Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda ha deciso di esordire sul tema del TTIP attraverso una frase piuttosto ambigua e dalle prospettive tutt’altro che rassicuranti. Nello specifico, il neo-Ministro, avrebbe affermato che i Parlamenti nazionali non dovrebbero affatto interferire nel processo di adozione del TTIP. Questo emergerebbe anche da un documento presentato dallo stesso Calenda a nome del governo italiano, secondo cui l’Italia è favorevole a tagliare fuori il suo Parlamento e quelli di tutti gli Stati dell’Unione dal processo di ratifica.
Per chi ancora non conoscesse il significato che sta dietro alla suddetta sigla del TTIP è bene ricordare, per completezza d’informazione, che si tratta dell’acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, tradotto in italiano con la semplificata espressione di accordo commerciale transatlantico. Tuttavia, per dimensioni e riflessi geopolitici il TTIP non può considerarsi alla stregua di un qualsiasi altro comune accordo commerciale tra Stati. Difatti, prevede quali parti negozianti due delle economie più grandi dell’intero pianeta, quella statunitense e quella europea, ed è perciò destinato, nel caso venisse stipulato, a stravolgere le regole del commercio internazionale e gli equilibri della politica globale.
Non è necessario, dunque, avere una laurea in economia internazionale o in scienze politiche per comprendere la rilevanza di tale accordo ed immaginarne gli effetti dirompenti di profondo cambiamento sulla vita dei cittadini coinvolti.
Pertanto, il buon senso imporrebbe che i negoziati venissero condotti, da parte di chi governa, in osservanza del principio della prudenza, tenendo sempre in considerazione il primario interesse dei cittadini, al fine di non cedere nulla sul terreno delle tutele e delle garanzie sociali.
Ma allora per quale motivo il Ministro Calenda vorrebbe che i Parlamenti nazionali non “interferissero” nella firma di un accordo che potrebbe rivoluzionare i modelli economici e sociali attuali?
Sul punto è bene fare, innanzitutto, una precisazione di carattere tecnico. Il diritto europeo prevede che in materia di politica commerciale internazionale spetti all’Unione Europea la competenza nel condurre le relative trattative, la quale opera per mezzo della figura istituzionale della Commissione Ue. Allo stesso tempo, sempre il diritto europeo prevede che la stipula di trattati commerciali internazionali possa concludersi solo attraverso l’approvazione del Parlamento europeo e dei singoli Parlamenti nazionali.
Ed è proprio questo il punto sui cui il “nostro” Ministro dello Sviluppo economico vorrebbe porre mano, auspicando una modifica della governance in materia di politica commerciale comune, al fine di “snellire” il relativo processo decisionale. Ossia, Calenda vorrebbe che si eliminasse in tale ambito l’ultimo residuo di sovranità nazionale, espressa tramite il controllo democratico dei Parlamenti nazionali; il tutto in nome della semplificazione, della “credibilità” internazionale e delle opportunità (ulteriore liberalizzazione dei mercati e dei capitali e completamento del processo di globalizzazione), da non farsi scappare a causa delle pretese dei singoli Stati nazionali. Tuttavia, queste “pretese” altro non sono invece che legittimi interessi che ogni singolo cittadino ha diritto di avere, non fosse altro nel conoscere di che “vita dovrà vivere”, appellandosi all’unica tutela (scarsa) che il sistema gli concede, quella cioè di far decidere ai propri organi rappresentativi cosa sia meglio per lui.
Evidentemente al Ministro Calenda questo appare un ostacolo, inutile retaggio di una vecchia politica, da rimuovere perché non in grado di seguire (o meglio servire) le logiche della globalizzazione e dei mercati.
Sarebbe bene, invece, che Calenda si ricordasse quale ruolo svolge; quello di esponente di un Governo di uno Stato nazionale e non certo quello di amministratore delegato di una multinazionale o di una società di lobbying. Ma forse ancor prima il “nostro caro” ministro dovrebbe rammentare, ammesso che lo sappia, cosa significhi “governare”, andando a recuperare l’insegnamento aristotelico, sempre attuale, di buon governo e di bene comune. Governo, dunque, non governance, che è tutt’altra cosa, e bene comune che è bene della, e per la, comunità che si è chiamati a governare.

Claudio Giovannico

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