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LA GRANDE GUERRA. STORIA E CONTROVERSIE.

ALLE ORIGINI DEL CONFLITTO. INTERVISTA A FRANCO CARDINI. a cura di Luigi Pedrone

Professore, ne “La Scintilla” (Ed. Mondadori,2014), Lei descrive l’humus in cui è maturata la Grande Guerra.  Quali furono le premesse del conflitto e che parte ebbe l’Italia, in quel processo che avrebbe portato alla disgregazione  della vecchia Europa ?

Fanti italiani in trincea.

“Il titolo del libro da me scritto con l’Amico e Collega Sergio Valzania è molto provocatorio (e si tratta di una scelta editoriale): ovviamente, l’Italia non “provocò” la Grande Guerra. Tuttavia il suo comportamento unilaterale, indisciplinato e poco leale noi confronti degli altri membri della Triplice Alleanza (l’Austrungheria  aveva prima commesso una scorrettezza simile, annettendosi la Bosnia e l’Erzegovina sulla quale aveva solo un mandato amministrativo) furono tra quei gesti che, deteriorando il panorama politico-diplomatico del continente, prepararono il terreno alla tragedia dell’estate del ’14.”

L’ultimatum  alla Serbia, dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando, fu una legittima ed equilibrata reazione dell’Austria o le condizioni poste da Vienna a Belgrado miravano a suscitare nella Serbia un atteggiamento di chiusura, che avrebbe quindi fornito il casus belli ?

“Qui si entra nel campo delle valutazioni soggettive e degli indizi, che consentono ipotesi ma che non sono prove documentarie, le sole a permettere la formulazione di vere e  proprie tesi. Ritengo che quel che sappiamo della diplomazia austrungarica e delle tensioni esistenti in quel momento nella duplice monarchia asburgica autorizzino a ritenere che gli alti comandi dell’esercito e una parte minoritaria dei politici di quella compagine esigessero una piena vittoria appunto diplomatica, un trofeo da “portare a casa” per ragioni di politica interna, e che qualcuno di loro, specie personaggi come Conrad, volesse al massimo lo scoppio di una nuova guerra balcanica nella quale, con l’appoggio tedesco e magari anche turco e bulgaro, la Serbia avrebbe avuto una dura lezione e lo czar non avrebbe osato intervenire. In ciò, i calcoli erano sbagliati: si sarebbe dovuto tener maggior conto che attorno a Nicola II spiravano analoghi venti di guerra e che tra le potenze occidentali, sia pur meno interessate all’equilibrio balcanico, almeno la Francia aveva dato segni di volontà d’ingerenza e di tutela del governo serbo molto precisi. Il che non significa che le principali responsabilità dell’europeizzazione-mondializzazione del conflitto debbano essere assegnate all’Austria-Ungheria. Il vero casus belli non locale ma generale fu la mobilitazione della Russia,  equivalente nella pratica a una dichiarazione di guerra all’Austrungheria alla quale, nella lettera e nello spirito del trattato della Triplice Alleanza, la Germania non poteva non rispondere; ma ciò – configurandosi come un attacco tedesco alla Russia, mentre la mobilitazione era semmai un attacco della Russia, ma alla sola Austrungheria) feceva necessariamente scattare il meccanismo difensivo della Triplice Intesa: per quanto in un primio momento l’Inghilterra rimanesse a guardare (fino alla violazione tedesca della neutralità belga).”

Il Kaiser Francesco Giuseppe non era propenso ad iniziare un conflitto che, come a ragione temeva, si sarebbe potuto concludere con la sconfitta e la dissoluzione dell’Impero asburgico. Poi però  dichiarò  guerra alla Serbia. Perché ?

“Si sentì spinto dal suo Stato Maggiore e premuto da molti autorevoli membri del suo governo nonché da un montante

Guglielmo II di Germania (1854-1941).

sdegno dell’opinione pubblica già piuttosto frustrata per l’evidente diminuzione del prestigio dell’Austrungheria nel contesto europeo di fronte al prepotente affermarsi del Secondo Reich  che dopo la disgraziata guerra del 1866 aveva nell’opinione dei popoli germanici quasi del tutto soppiantato la monarchia asburgica come principale e più autorevole punto di riferimento politico e culturale.”

La Germania viene generalmente considerata la principale responsabile dei due conflitti mondiali. L’affermazione è condivisibile o è una lettura che, volutamente o meno, lascia grandi ombre sulla corresponsabilità di altre Potenze ?

“Un piccolo ma importante libro di Luciano Canfora, dedicato al 1914, ripropone l’argomento con un’impostazione, che io condivido in grandissima parte, molto più favorevole e “assolutoria” nei confronti della Germania. Canfora è stato accusato da qualcuno di “filoguglielminismo”: è soggettivamente probabile, ma le sue ragioni storiche restano robuste. La Germania aveva ormai già da tempo “vinto la pace”: era la prima potenza continentale in termini politici, economici, industriali, finanziari, culturali: non aveva alcun interesse a scatenare un conflitto. Vero è tuttavia che il “navalismo” della Marina da Guerra, sostenuto da importanti settori della cantieristica e del mondo economico e produttivo tedesco, rischiava di mettere in forse l’egemonia britannica sui mari e di compromettere quell’equilibrio tra un’Inghilterra “Leviathan” padrona degli Oceani e una Germania “Behemoth” leader nella massa continentale eurasiatica, realtà questa che peraltro la Russia czarista e la sua alleata privilegiata, la repubblica francese, non davano mostra di voler accettare. Da qui, direi, una prevalente responsabilità appunto russa e francese nella dilatazione europea e mondiale (il conflitto coinvolse le colonie e  il Giappone) di un conflitto che prima dell’intervento francese avrebbe potuto restare balcanico o, al massimo, euro-orientale. Ciò vale per la prima guerra mondiale. Per la seconda, credo sia un dato obiettivo innegabile che la pur arrogante e avventuristica aggressione tedesca alla Polonia per la questione di Danzica non avesse come scopo diretto e immediato la deflagrazione di un conflitto generale. Hitler commise un’imprudenza gravissima, anzi un vero e proprio imperdonabile e intollerabile errore  politico-diplomatico, sottovalutando il fatto che i patti di Monaco erano ormai un punto fermo il superamento e la correzione del quale a ulteriore vantaggio del Terzo Reich  le democrazie liberali erano ben decise a non consentire. Che poi la Germania intendesse nel tempo cancellare quelle che a suo (in buona parte condivisibile) avviso erano le ingiustizie delle paci di Versailles, e che in tale senso si avviasse a sua volta a prepararsi a un nuovo conflitto generale che magari avrebbe provocato direttamente da lì a poco, è probabile per quanto non sia  provato. Ma nel ’39 Hitler voleva ripetere il colpo di mano della Cecoslovacchia, non innescare una guerra europea. Se non altro, non si sentiva pronto: lo prova il fatto che la Germania non avesse, a differenza di Francia e Inghilterra, una flotta di bombardieri, bensì solo di caccia. Uno che si fornisce solo di caccia non vuole attaccare, ha paura di essere attaccato. Che poi Francia e Inghilterra abbiano dichiarato guerra alla Germania per tutelare la Polonia, non regge: se ciò fosse vero, avrebbero dovuto attaccare anche l’Unione Sovietica che si era spartita con la Germania il territorio polacco: e non lo fecero. A livello di Realpolitik, è comprensibile che lo abbiano evitato: ma sul piano etico ciò annulla tutte le virtuose pretese che le due potenze accamparono per giustificare le loro responsabilità nella deflagrazione della guerra mondiale.”

 
BENEDETTO XV. UN ITALIANO IN GUERRA PER LA PACE. INTERVISTA A F.M. AGNOLI. a cura di Luigi Pedrone

Beato Benedetto XV, Papa dal 1914 al 1922.

Dott. Agnoli, nel corso della guerra italo-turca del 1911-12, nota come Guerra di Libia, Papa San Pio X aveva espresso ai suoi collaboratori il timore che a quella guerra sarebbe seguito un”Guerrone” peggiore, una guerra totale. Questa apprensione del Papa era  condivisa dal cattolicesimo italiano e in che misura?

“Che San Pio X avesse ragione è fuor di dubbio. La storia lo ha dimostrato con l’evidenza dei fatti e, proprio per questo, oggi non mancano gli storici che attribuiscono all’Italia, nonostante abbia esitato a lungo a prendervi parte, una rilevate responsabilità nello scoppio della Grande Guerra, che in quella di Libia troverebbe non un semplice antefatto, o una sorta di prova generale, ma una vera e propri concausa.

Più difficile dire se e quanto questa apprensione del  Papa fosse condivisa nel mondo cattolico italiano. A parte una generica avversione di principio dei cattolici alla guerra tutto inclina però  a rispondere “molto poco” perfino se  si restringe il riferimento ai soli “ambienti ecclesiastici”. Com’è noto, non pochi  vescovi e non pochi parroci interpretarono, approvandola, la guerra di Libia come una guerra di civilizzazione non priva di risvolti religiosi, una sorta di  crociata non tanto contro i musulmani in genere, ma specificamente contro “il Turco”, una nuova pietra miliare, dopo Lepanto e  Vienna, in una guerra secolare. Una posizione abbastanza diffusa da indurre il Pontefice  non solo a intervenire anche con richiami personali nei confronti di alcuni prelati e vescovi più spinti nel sostegno alla “guerra coloniale”, ma  a fare pubblicare  sull’Osservatore Romano  del 21 ottobre 1911 una Nota di biasimo  nella quale si affermava  essere “lontanissimo da ogni cattolico italiano il pensiero che l’impresa tripolitana possa coprire una guerra a base religiosa”.  Purtroppo non era vero e, difatti, in quello stesso 21 ottobre (può trattarsi di una coincidenza casuale, ma il contrasto resta significativo), il vescovo di Rimini, Vincenzo Scozzoli, auspicò pubblicamente la vittoria delle armi italiane, perché “via di civiltà cristiana in mezzo alle popolazioni di Tripoli e Cirenaica tenute schiave dal fanatismo mussulmano”.

   E’ possibile che in quel momento il vescovo riminese non avesse ancora letto l’Osservatore, ma comunque l’avvertimento pontificio non ebbe successo. I presuli favorevoli alla guerra abbassarono i toni, ma non mutarono la sostanza dei loro interventi, del resto conformi alle attese di quella parte del mondo cattolico che aspirava al definitivo superamento del non expedit e vedeva nella guerra italo-turca, per altro sostenuta da un largo consenso non solo governativo e parlamentare (a favore della guerra era il futuro neutralista Giovanni Giolitti) ma popolare, l’occasione per il proprio  inserimento  anche politico nel contesto nazionale. Non per nulla sono gli anni nei quali si sta preparando il Patto Gentiloni  con l’alleanza, in chiave antisocialista, ma non solo,  fra cattolici e  liberali-conservatori.

   Tuttavia quando si parla di mondo cattolico e delle opinioni politiche dei cattolici occorre, per  intendersi, rapportarsi alla situazione dell’epoca (il che vale anche, più in generale, per ogni riferimento alla cosiddetta “opinione pubblica”).

Nel primo quindicennio del secolo XX  si ha che fare con una realtà profondamente diversa, per tanti aspetti, ma in modo particolarmente rilevante per l’informazione e quanto ne consegue, dall’attuale. All’epoca si era ben lontani  anche solo dall’immaginare  un mondo trasformato, dal punto di vista della diffusione delle notizie e delle idee, in “villaggio globale”. L’unico strumento d’informazione collettiva era  la stampa, che in un mondo di illetterati raggiungeva solo una piccola parte  della popolazione. Non solo le notizie mondiali, ma anche quelle nazionali soprattutto nel mondo contadino (e tale era allora la massima parte dell’Italia) interessavano, fatte le debite eccezioni, unicamente le classi dirigenti e la borghesia intellettuale ed impiegatizia. Per tutti gli altri aveva  predominanza assoluta la piccola realtà locale. Ovviamente l’eco dei grandi avvenimenti, le guerre, la morte dei sovrani (nel 1900 l’uccisione di Umberto I) giungeva prima o poi alle orecchie di tutti, ma il coinvolgimento personale restava  minimo e la valutazione dei fatti era quasi sempre lasciata ad altri, o a chi aveva riferito la notizia altrimenti ignota, accompagnandola col proprio giudizio, o a persone di cui si riconosceva l’autorità e in cui si aveva fiducia. E’ solo nel corso della prima guerra mondiale 1914-1918 che la situazione comincia a cambiare, perché l’enormità dell’avvenimento fa sì che tutti vi si sentano direttamente coinvolti. Per un abitante  della Sicilia e delle altre regioni meridionali l’Isonzo e l’Altopiano sono lontani come l’America, ma a condurli alle porte di casa provvede il fatto che non vi è famiglia che non vi abbia un proprio componente o almeno un amico direttamente e spesso dolorosamente coinvolto.

Tornando alla guerra di Libia e alle reazioni del mondo cattolico, è, quindi, inevitabile  distinguere fra i cattolici   e cattolici a seconda del ceto di appartenenza e del luogo di residenza (grandi città,  piccoli centri di campagna). Per tutti i cattolici che hanno solo una conoscenza riflessa di fatti che non li coinvolgono direttamente risulta decisiva la parola del proprio parroco. Se questo si adegua all’insegnamento di Papa Sarto (San Pio X), anche il fedele che non manca alla Messa domenicale sarà contrario alla guerra tanto più che vi è contrario anche il capopolo socialista o l’organizzatore sindacale che può avere avuto occasione di ascoltare in piazza o durante una sosta all’osteria. All’opposto favorevole se il parroco, o per propria scelta o sulle orme del vescovo locale, è fra gli  appartenenti al clero che la considera guerra di religione, di civiltà e, in alcuni casi (fra i preti e i religiosi favorevoli alla guerra non vi sono solo  fautori di un avvicinamento al mondo “liberale”, ma anche “tradizionalisti” fermi al “non expedit” e contrari a qualunque collaborazione con l’usurpatore governo sabaudo), l’apprezzano come occasione di apertura e partecipazione alla politica nazionale.”

Che posizione ufficiale assunsero quindi le Gerarchie della Chiesa Italiana verso la Grande Guerra?

“Va detto subito che fortunatamente non vi furono vescovi e forse nemmeno ecclesiastici di più modesto rango (quanto meno non in numero significativo) disposti a recepire le tesi aberranti in voga fra gli intellettuali dell’epoca (quelle della guerra “sola igiene del mondo”). Tuttavia, come in altri campi accade anche ai nostri giorni, non tutti seppero resistere appieno alle pulsioni e alle pressioni dell’opinione pubblica, della politica e della ragion di  Stato e, pur senza espressamente rinnegarli, cercarono di adeguare i principi enunciati dal vescovo di Roma alle esigenze del pensiero dominante, allora totalmente contrassegnato dall’ideologia nazionalista.

Ovviamente la posizione ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche non si contrappose mai apertamente a quella assunta da 

AA. VV., GRANDE GUERRA: LE RADICI E GLI SCONFITTI, ed. Il Cerchio, 2015.

Benedetto XV: no alla guerra “inutile strage”, sì alla pace, Questo nel regno un po’ astratto dei principi. Notevoli invece le differenze al momento di declinarli  nei fatti, a cominciare dallo stesso concetto di guerra, dal momento che la dottrina cattolica ritiene lecita la guerra giusta. All’ingrosso dovrebbe trattarsi della  guerra difensiva, ma non è difficile convincere i popoli (e autoconvincersi) di essere oggetto  di un’aggressione straniera. Così in Austria e in Ungheria fu più che agevole qualificare per tale l’assassinio dell’erede ai due troni Francesco Ferdinando d’Asburgo. Nell’Italia dei bizantinismi  monsignor Orazio Mazzella, vescovo di Rossano, non esitò a definire  la guerra italiana justum bellum, in quanto rivolta contro l’ingiusta  pretesa austriaca di tenere sotto la propria sovranità territori e popolazioni naturalmente italiani.   Poco prima (sempre a conflitto già in corso) sull’opposto fronte il vescovo di Spira (in seguito cardinale) Michael Faulhaber a proposito della posizione del suo paese si era detto convinto “che nell’etica  di guerra questa campagna costituirà per noi un esempio classico di guerra giusta”.

Va comunque riconosciuto che si trattò di affermazioni a conflitto  in corso, quando un malinteso amor di patria faceva ardere di un fuoco ritenuto sacro l’animo di molti cittadini dei paesi coinvolti, e che la situazione  delle gerarchie ecclesiastiche, anche nei rapporti con le rispettive comunità, risultava particolarmente difficile in un mondo nel quale, a dispetto dall’assoluta imparzialità dei suoi interventi a favore di una pace senza vinti né vincitori (l’unica che avrebbe salvato l’Europa), lo stesso Benedetto XV si trovò ripetutamente sotto attacco: qui come Papa tedesco o Papa boche, là come franzoesische Papst. In Italia gli si attribuì  addirittura la disfatta di Caporetto  e gli si mutò il nome in Maledetto XV.

Comunque finché fu possibile sperare di evitare la guerra le gerarchie ecclesiastiche furono pressoché unanimi (anche se con diverso impegno) a favore della pace in tutta Europa e,   a causa del suo non immediato coinvolgimento, in maniera più evidente in Italia, dove  i vescovi sostennero il mantenimento della neutralità,  del resto in accordo (a differenza che in altri paesi) con la stragrande maggioranza del popolo e  dei suoi rappresentanti in parlamento.

Dopo l’ingresso in guerra, anche la situazione italiana si omologò a quella dei  belligeranti. I Vescovi continuarono a dichiararsi a favore della pace; ma, come per la guerra, si pose il problema di quale pace. Per tutti quella “giusta”. Solo che  non pochi  presuli, sacerdoti e religiosi ritenevano “giusta”  unicamente una “pace vittoriosa”,  e  un numero ancora maggiore comunque una pace non troppo lontana dalle pretese del proprio governo nazionale.

 Ovviamente vi furono differenze fra paese e paese in conseguenza anche del peso e del ruolo del ruolo della comunità cattolica e delle vicende storiche (in particolare nei paesi anglosassoni, afflitti da un tradizionale e radicato antipapismo, e in Italia, dove era ancora aperta la “questione romana”, si trattava di dimostrare che i cattolici erano non meno buoni “patrioti”  degli altri), ma un po’ dappertutto le gerarchie ecclesiastiche finirono  per trovare una via mediana, comune, sia pure con accentuazioni ora in un senso ora nell’altro, a tutte e fondata (in parte) sull’insegnamento dello stesso Benedetto XV. Il Papa difatti, pur battendosi strenuamente e fino all’ultimo per fare cessare l’inutile strage, non trascurò mai di ricordare che è dovere di ogni cristiano l’osservanza delle leggi dello Stato e l’obbedienza agli ordini dell’autorità, in quanto secondo la teologia cattolica ogni autorità viene da Dio.  Anche in Italia (per questo aspetto il paese più difficile, perché molti cattolici dubitavano della legittimità del governo sabaudo-liberale) i Vescovi, ora con entusiasmo ora con riluttanza, furono concordi nell’esortare i fedeli all’obbedienza.

Padre Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università cattolica, allora cappellano militare,  riassunse, se non l’insegnamento di Benedetto XV, il comune denominatore dell’interpretazione datane dai vescovi italiani, nella formula “obbedire e tacere”.”

Talune voci cattoliche, sia nel clero che tra i laici, avvertirono il conflitto come “guerra giusta”. Come si conciliavano queste posizioni  con la denuncia della “inutile strage” da parte di Papa Benedetto XV?

Non si conciliavano in quanto inconciliabili per il semplice motivo che la guerra non era giusta. Per nessuno dei belligeranti, tanto meno per l’Italia, che fino all’ultimo ebbe la scelta di una neutralità, diciamo così, “vittoriosa” in quanto avrebbe comportato perfino vantaggi territoriali. Il sofisma del vescovo di Rossano  per giustificare la partecipazione  al conflitto presupponeva giusti per definizione due assiomi   della religione nazionalistica: l’unificazione politica di tutte le genti di lingua italiana e i confini naturali. Uno più falso dell’altro. Se esatti avrebbero ugualmente giustificato la guerra  alla Francia per la Corsica e Nizza e alla Svizzera per il Ticino e i Grigioni italiani. Come si è detto, il compromesso fu trovato e fondato non sui labili criteri della guerra giusta, ma sul principio dell’obbedienza dovuta all’autorità perché ogni autorità viene da  Dio. Come ha scritto un autore che si è occupato a fondo dell’argomento: “dopo l’entrata   in guerra, anche in Italia come negli altri  paesi belligeranti l’obbedienza all’autorità costituita, dovuta perché ogni autorità viene da Dio,  rappresentò la chiave di volta per un atteggiamento che li (i cattolici) rendesse patrioti senza dover rinunciare all’ideale religioso della pace e al devoto consenso per l’insegnamento e l’opera del Pontefice”.”

Lo Stato italiano cercò l’appoggio delle gerarchie cattoliche  alla guerra (o perlomeno la loro neutralità) considerato che il cattolicesimo era la religione professata dalla maggioranza degli italiani?

“L’atteggiamento del governo, espressione di una classe politica che detestava cattolicesimo e cattolici, ma al tempo stesso consapevole di non poter sopravvivere alla sconfitta (in realtà non sopravvisse nemmeno alla vittoria), fu  di necessità ambiguo. Da un lato, i prefetti furono incaricati di tenere sotto controllo (discreto nella forma, ma occhiuto nella sostanza) non solo i vescovi, ma i parroci e perfino i laici più ferventi, impegnati ed influenti. Dall’altro, nella consapevolezza di non potersi permettere non un nemico, ma nemmeno una fronda interna, si tentò di smussare tutte le ragioni di attrito, si diffusero ed esaltarono le idee e le opinioni dei religiosi “patrioti”, si glorificarono le buone signore dell’associazionismo cattolico, che preparavano capi di vestiario e pacchi per i “soldatini” al fronte. Si cercò in ogni modo di identificare agli occhi dei soldati la causa della patria italiana con quella della fede cattolica. A questo scopo riuscì utilissima  la presenza in trincea dei cappellani militari. Questi esistevano già, col nome di “elemosinieri” nel vecchio esercito sabaudo, ma erano stati soppressi dopo la guerra del 1866. A ricostituirli, al fine di promuovere nella truppa,  grazie ai benefici influssi della religione, coesione morale e spirito di disciplina, provvide, proprio in vista della partecipazione dell’Italia al conflitto, il generale Cadorna con circolare del 12 aprile 1915 poi confermata e completata (quanto all’organizzazione) con decreto luogotenenziale del successivo 27 giugno.

Probabilmente oltre le loro intenzioni (certamente non era questa la motivazione per cui avevano chiesto o accettato l’incarico)  i cappellani militari contribuirono molto se non all’identificazione, alla parziale sovrapposizione tra fede e patria auspicata dal governo,  efficacemente raffigurata e favorita, oltre che dalla attribuzione di un grado militare, che li faceva a tutti gli effetti ufficiali del regio esercito, dalla stessa loro divisa d’ordinanza: la normale talare e il tradizionale cappello pastorale (all’epoca non usava il clergyman) con l’aggiunta di simboli  nazionali e militari:  stellette, gradi, mostrine, contromostrine e in non pochi casi il nastrino delle decorazioni.”

Che conclusioni si possono trarre sulla partecipazione dei cattolici italiani alla guerra?

“A parte la minima partecipazione agli entusiasmi e ai furori bellici della primavera 1915, nella  massima parte dei casi la posizione dei cattolici italiani fu identica a quella  di tutti i loro connazionali: di malavoglia obbedirono alle cartoline precetto, partirono, uccisero  e furono uccisi.”

Francesco Mario Agnoli

*Per approfondimenti vedasi AA.VV., GRANDE GUERRA: LE RADICI E GLI SCONFITTI, ed. Il Cerchio, 2015.

UN RECENTE CAMPO D’INDAGINE: PROFUGHI, INTERNATI E OCCUPATI DELLA GRANDE GUERRA. di Nicolò Dal Grande*

Profughi friulani in fuga dopo la rotta italiana di Caporetto (1917).

Nell’anno 2015 corrente ricorre l’anniversario del primo centenario dall’entrata italiana nella Grande Guerra, fra i più devastanti conflitti della storia dell’umanità, lungo il cui arco di tempo persero la vita più di venti milioni di persone, fra soldati e civili. La storiografia italiana ha dedicato grande spazio allo studio del primo conflitto mondiale, con interpretazioni orientate dai periodi e dalle congiunture storico-politiche alternatesi nell’arco di tempo trascorso dallo scoppio del conflitto al giorno d’oggi, ma solo recentemente la storiografia ha iniziato ad approfondire tematiche esterne all’ambito militare; particolare attenzione si sta ponendo sugli aspetti appartenenti alla sfera civile, duramente colpita negli anni del conflitto. Vittime di guerra, profughi e deportati; un aspetto da tempo approfondito in ambienti accademici esteri, in modo particolare in quello francese e belga, ma che solo negli ultimi anni è stato materia d’indagine in Italia.

Ciò che colpisce nello studio del primo conflitto mondiale, per ciò che concerne le zone di guerra, è l’enorme mole di persone che, per diverse ragioni legate alla guerra in corso, scelsero – o furono costrette – ad abbandonare la propria regione di residenza.
In tempo di guerra, si è verificata spesso la necessità di provvedere allo sgombero di una fascia territoriale per necessità belliche, sia per la sicurezza della popolazione civile stessa che per ragioni di strategia militare: sicurezza e tattica dunque. All’opposto, la scelta volontaria di abbandonare la propria terra da parte di una persona non combattente, è dovuta principalmente a un fattore: la paura.
La paura è il fattore dominante in una fuga di massa. Una paura naturale ma, sovente, condizionata dalla rappresentazione che si ha del nemico. In questo contesto un ruolo di primo piano è sempre stato esercitato dalla propaganda, la quale, durante gli anni del primo conflitto mondiale, venne esercitata ai massimi livelli in due direzioni; l’una volta all’esaltazione della propria patria di appartenenza e all’eroismo di chi la difendeva, al fine di condurla alla vittoria e alla realizzazione della propria “missione storica”; l’altra volta alla “demonizzazione” del nemico, distruttore e spietato, fautore di stragi, stupri e di ogni forma di violenza ai danni della popolazione.
L’esecrazione della figura del “nemico” fu una caratteristica peculiare nella propaganda di guerra; radio, giornali e manifesti, fondanti su prove vere o presunte, fornirono descrizioni minuziose delle atrocità commesse dall’esercito avversario; l’effetto nell’immaginario collettivo fu tale da generare un panico “latente”, pronto a manifestarsi in caso di un pericolo reale.

La Grande Guerra fu in effetti teatro di atroci efferatezze inflitte alle popolazioni civili, sulla scia di una conduzione del conflitto che violò ampiamente le convenzioni internazionali. La giustificazione delle condotte volte a colpire la popolazione nemica trovava pretesto nella convinzione, da parte delle autorità militari e governative dei rispettivi contendenti, che nessun successo in battaglia sarebbe stato decisivo se l’avversario fosse ancora in grado di produrre i mezzi necessari per il prosieguo dell’attività bellica.

Questo fu alla base di un progressivo aumento di pressione nei confronti della popolazione civile. Sul piano del cosiddetto “fronte

Manifesto di propaganda anti tedesca.

interno”, si assistette – come detto – attraverso un uso estremamente politicizzato della propaganda di guerra, anche per contrastare la propaganda interna contraria alla guerra, particolarmente attiva nel caso italiano, e a un coinvolgimento emotivo su tutti i livelli della società, sia nel pubblico che nel privato, cui si sommavano le ristrettezze economiche e alimentari cui furono sottoposte. Ma è sul piano del fronte vero e proprio che le popolazioni, soprattutto quelle prossime alle linee delle trincee che percorrevano l’Europa, subirono il coinvolgimento maggiore, riducendo a mero significato etimologico la differenza tra “civile” e “combattente”.
Durante il primo anno di guerra, quando ancora le operazioni militari erano lungi dall’assumere l’aspetto di una “guerra di posizione”, si assistette a movimenti più fluidi delle armate; le prime offensive del 1914-1915, che portarono alla stabilizzazione dei fronti e allo sviluppo della traumatica “guerra di posizione”, portarono a un costante mutamento del fronte dovuto all’invasione e all’occupazione dei territori di confine. L’inizio del conflitto ebbe conseguentemente pesanti riflessi sulla vita dei civili residenti sulle fasce territoriali prese in esame, generando un’immensa ondata di cosiddetti “profughi”. La Francia si vide occupare militarmente ben 10 distretti dai quali più di due milioni di abitanti scelsero la fuga e l’abbandono delle proprie terre; dal Belgio, occupato dalle truppe tedesche dall’autunno dall’estate del 1914 fino alla conclusione del conflitto, più di un milione e mezzo di persone scelse la fuga nei Paesi Bassi; tra l’estate e l’autunno del 1914, circa 870.000 prussiani fuggirono all’interno della Germania, spinti dall’incalzante avanzata russa, mentre nell’Austria-Ungheria ben un milione e mezzo di profughi, in fuga dalla Galizia invasa, si riversò nella Cisleitania, raggiunti presto da altre 200.000 anime allontanatesi dal fronte italiano.

Come anticipato, l’origine del profugato trovava fondamento nel terrore suscitato dagli invasori, giustificato dalle efferatezze commesse da parte degli occupanti che possono distinguersi in due fasi:

• La fase dell’invasione, con la scia di violenza e rappresaglie ai danni dei soldati sconfitti e dei civili;
• La fase dell’occupazione vera e propria, con lo sfruttamento del territorio conquistato, le rappresaglie sui sospetti e, in alcuni casi, la deportazione degli abitanti.

Durante il conflitto, l’impatto fu spesso devastante; le forze occupanti attuarono sistematicamente violenze sulla componente civile indigena, e se sul fronte occidentale i casi furono circoscritti o limitati, sul fronte orientale si commisero atrocità inaudite. La popolazione serba subì massacri operati sistematicamente dalle forze imperiali, in particolare dagli ungheresi, che diedero sfogo all’odio etnico intrinseco ai Balcani da secoli; tra le vittime principali numerosi soldati arresisi i quali, col pretesto di non indossare una divisa ufficiale – non ancora consegnatigli -, furono fucilati sul posto dopo la cattura. Eccidi si compirono in modo sistematico anche sul fronte russo. Un crimine molto diffuso, benché non sistematico, fu lo stupro, compiuto per iniziativa di singoli o di gruppo, avente tra i fini la volontà di denigrare e umiliare il nemico, trasmettendo un senso di inferiorità.
Agli eccidi e alle violenze commesse infatti non era estraneo il concetto di appartenere ad una civiltà superiore, sulla scia del “darwinismo biologico” e delle teorie razziali sorte durante la seconda metà del XIX secolo.
Con l’occupazione vera e propria, alla violenza si sostituiva lo sfruttamento sistematico del territorio strappato al nemico che, oltre all’utilizzo delle risorse naturali del luogo e degli apparati industriali, spesso significò, per la componente civile, la costrizione al lavoro coatto a favore dell’occupante nel ripristinare strade, ferrovie e apparati logistici di comunicazione distrutti durante la ritirata dei propri eserciti. Ma per molti l’occupazione significò anche la deportazione in zone sotto il totale controllo nemico.
Se casi di deportazione avvennero nei territori orientali serbi, rumeni, lituani e polacchi occupati dalle forze austro-ungariche, tedesche e bulgare, analogamente simili episodi avvennero nei distretti del nord est francese occupati dai tedeschi, dove le deportazioni dei civili divennero sistematiche dal 1916. Le ragioni alla base delle deportazioni poggiavano sulla difficoltà di approvvigionare efficacemente le popolazioni dei centri occupati e per le classiche “necessità militari”, ma non fu estranea la volontà di annientamento e sradicamento dell’elemento autoctono dalla propria terra.
L’attuazione di crimini come la deportazione e il lavoro forzato fu possibile anche perché non erano mai stati oggetti di una reale discussione durante le varie convenzioni tenutesi un decennio prima dello scoppio del conflitto. Alle deportazioni fu posto un assoluto divieto nel 1917, grazie anche alla mediazione della Santa sede, degli Stati Uniti d’America e all’imporsi delle fazioni moderate parlamentari sia dell’Intesa che degli Imperi centrali sui fautori delle “necessità militari”.

Non sorprende dunque che, al di là dell’effettivo peso che ebbe la propaganda nel demonizzare il nemico, un altissimo numero di persone optasse per abbandonare tutto e fuggire, non sempre con l’assistenza dello Stato, sovente non in grado di fornire un’accurata assistenza, morale e soprattutto materiale. Strappati alla propria terra, alle proprie case, ai propri affetti; privati del proprio lavoro; marginalizzati e soggetti alla paura e alla fame: così si può riassumere la condizione del “profugato”.

Il dramma del “profugato “ della Grande Guerra rappresenta una delle pagine più tristi e dolorose della storia; una vicenda poco conosciuta, di recente studio, sino a ieri ricordata solamente nei diari e nelle lettere di coloro che vissero il dramma sulla propria pelle, per i quali la vita non sarebbe mai più stata come prima. Uomini e donne, anziani e bambini la cui vicenda è stata accantonata per molti decenni pur essendo anch’essi uniti nel dramma dei soldati che provarono la dura vita di trincea e che solo oggi riescono a trovare il loro legittimo posto nei libri di storia, divenuti anch’essi, come cita Ungaretti, “Fratelli” in quella tragedia che fu il primo conflitto mondiale.”

Nicolò Dal Grande

*Per approfondimenti vedasi AA. VV., GRANDE GUERRA: LE RADICI E GLI SCONFITTI, ed. Il Cerchio 2015

“IL GUERRONE”. INTERVISTA CON L’AUTORE GILBERTO ONETO. a cura di Luigi Pedrone.*

Dottor Oneto, nel suo recente libro Il Guerrone  (ed, Il Cerchio, Rimini, 2015) affronta il tema della 1a Guerra Mondiale. Quel conflitto, fu l’inevitabile sbocco alla crisi internazionale allora in atto?

Gilberto Oneto, IL “GUERRONE”. LA NEFANDEZZA DEL 1915-18, ed. Il Cerchio, 2015

“Come tutte le guerre è stato il risultato di un lungo accumularsi di tensioni. Allora però ci sono state anche molte leggerezze ed errori di valutazione: con un approccio diverso e con maggiore senso di responsabilità si sarebbe potuta evitare. Troppo hanno influito il caso e lo scatenarsi di meccanismi automatici fuori controllo: ha ragione Clark quando parla di esito di diffuso sonnambulismo.”

L’Italia, alleata di Austria e Germania fin dal 1882, nel 1914 dichiara la propria neutralità; contemporaneamente inizia il suo avvicinamento a Francia e Inghilterra, giungendo alla rottura, nel 1915, dell’alleanza con gli Imperi Centrali. Quali furono i motivi di questo cambio di fronte?

“Opportunismo e pressioni. Come al solito gli italiani hanno cercato di ricavare i massimi vantaggi ai costi più ridotti e – in una ignobile trattativa da suk – hanno finito per scegliere l’offerta più allettante, quella delle potenze occidentali, che contrastava però con il senso della realtà, soprattutto nello scacchiere adriatico. A questo si sono aggiunti i maneggi dell’alta finanza e della massoneria – soprattutto inglese – che era molto influente nella casta allora dominante in Italia: e cioè, sempre la stessa.”

 L’intervento, italiano era inevitabile? Chi lo aveva voluto e con quale preparazione veniva affrontato?

“Era evitabile e la neutralità auspicabile, oltre che conveniente. L’Italia è stata vittima della sua insensata pretesa di essere una grande potenza e di essere in grado di affrontare situazioni troppo grandi per le sue reali capacità,  e con un esercito che era uno strumento di repressione interna ma che aveva perso tutti gli scontri, compresi quelli con le più scalcinate tribù africane. Ma la guerra era necessaria al partito unitarista terrorizzato dalle forze disgregatrici che percorrevano la penisola: socialiste ma anche separatiste, come aveva dimostrato il ’98 milanese. La guerra la volevano i Savoia per pagare un vecchio debito con Londra, la volevano gli industriali per gli evidenti vantaggi che ne avrebbero ricavato e la volevano gli “intellettuali”  patriottici, tutti scrupolosamente a libro paga franco-britannico. Non la volevano gli operai, i contadini, cioè la quasi totalità dei cittadini.”

Con la Grande Guerra si completa l’unità nazionale; inoltre, il conflitto è considerato il momento in cui anche le masse popolari, lasciate al margine del processo risorgimentale, acquisiscono, per la prima volta, una vera coscienza nazionale. Condivide questa analisi?

“Quella dell’unità è una grande palla: per “redimere” 700mila “italiani” (che magari non volevano essere “redenti”) , se ne sono sacrificati altrettanti e si sono andati a opprimere 700mila tedeschi e slavi. Quella della “coscienza nazionale” è una palla ancora più grossa: centinaia di migliaia di ragazzi sono stati “italianizzati” nelle trincee, nelle sofferenze e nella morte. Nel ’19 la grande maggioranza di loro ha votato per i partiti che erano stati contrari alla guerra, e ancora non potevano partecipare le donne! Tutto il parafernale di orpelli patriottici e di invenzioni retoriche è frutto del fascismo e della necessità di tenere assieme un paese che non può, né potrà mai, sentirsi “uno”. Perché non lo è.”

 Che giudizio complessivo si sente di formulare sulla Grande Guerra europea del 1914-18?

“La prima sciagurata fase di quella “Guerra dei trent’anni” che ha costituito il suicidio dell’Europa, che l’ha ridotta a terra di conquista e invasione, a un mercato senza anima e con poche speranze.”

*Per approfondimenti vedasi G. Oneto, “IL GUERRONE”. LA NEFANDEZZA DEL 1915-18, ed. Il Cerchio, 2015

 

L’APPLICAZIONE DEL DIRITTO UMANITARIO INTERNAZIONALE NELLA GRANDE GUERRA. di Luigi Francesco Pedrone.*

Vignetta dedicata alla Croce Rossa Italiana.

La formazione Diritto Internazionale Umanitario dei Conflitti armati (D.I.U.), una branca del Diritto Internazionale Pubblico, ha avuto una lunga gestazione ed è in continua evoluzione. Scopo del Diritto Umanitario è lo “Ius in bello”, il Diritto nella guerra, cioè i comportamenti a cui si devono attenere i belligeranti (lo ” Ius ad bello”, il diritto di ricorrere  alla guerra, è oggetto di altre elaborazioni giuridiche e filosofiche).  Accordi tra belligeranti, tregue, sospensioni d’armi si sono sempre verificati nel corso dei conflitti; si pensi alle Olimpiadi, nell’antica Grecia, quando si deponevano le armi per celebrare i giochi in onore degli dei.

Nel XVI secolo fanno la loro comparsa i cosiddetti  “Cartelli “ e “Capitolazioni”, generalmente finalizzati alla neutralizzazione delle strutture di ricovero dei feriti, alla protezione del personale sanitario e delle popolazioni civili; erano semplici accordi tra belligeranti, vincolanti solo per coloro che li stipulavano  e limitati alle contingenze da cui erano scaturiti. Con la 1^ Convenzione di Ginevra per il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra, del 22 agosto 1864, data di nascita della Croce Rossa, inizia il cammino che porterà alla formazione del moderno Diritto Umanitario.

La Convenzione scaturisce dalla tenacia del filantropo ginevrino Henry Dunant, che il 24 giugno 1859, trovandosi casualmente nel teatro della battaglia di Solferino, rimane impressionato dall’ inadeguatezza a dalla disorganizzazione dei soccorsi ai feriti; inizia quindi a progettare la costituzione di un organismo sovrannazionale e neutrale, a cui gli Stati dovranno assicurare protezione, che dovrà provvedere al soccorso dei feriti e malati di guerra, senza distinzione di schieramenti.

La Convenzione, firmata dalla maggioranza delle Potenze europee (altre aderiranno in seguito), sancisce i principi fondamentali di neutralità e protezione per i malati e feriti di guerra, per il personale sanitario addetto alla loro assistenza, per i luoghi di ricovero e cura, per i mezzi adibiti ai trasporti sanitari. Non è più un semplice accordo tra belligeranti con limitazioni spazio-temporali,  ma un Atto giuridico internazionale, sottoscritto in tempo di pace, vincolante per tutte le Potenze firmatarie ( e per quelle che aderiranno in seguito) e che deve trovare applicazione in ogni evento bellico.

Il personale sanitario, i luoghi di ricovero e cura, i mezzi adibiti ai trasporti sanitari saranno riconosciuti  attraverso un segno distintivo, universalmente rispettato come emblema di neutralità e protezione: una Croce Rossa, composta da cinque quadrati, in campo bianco. Un emblema che non aveva riferimenti confessionali, ma era  la bandiera svizzera a colori invertiti, in onore del Dunant e della Confederazione Elvetica che ne aveva subito abbracciato gli ideali.

Sarà la Turchia, nel 1876, seguita poi da tutti gli Stati musulmani, a ravvisare, erroneamente, nell’emblema Rosso-Crociato un riferimento alla Cristianità; adotterà quindi, unilateralmente, un nuovo emblema con la Mezza Luna Rossa in campo bianco che, inizialmente tollerato, nel 1929 otterrà il riconoscimento ufficiale del Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra.

Alla Convenzione del 1864 seguiranno altri accordi; oggi, le Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, ampliando e aggiornando la materia regolata dalla Convenzione originaria, fissano le norme per la neutralizzazione e la protezione dei feriti e malati della guerra terrestre (I Conv.),dei malati e feriti della guerra marittima (II Conv.), dei prigionieri di guerra (III Conv.) e delle popolazioni civili che non prendono parte ai combattimenti (IV Conv.); per i malati e feriti della guerra aerea vengono applicate la I o la II Convenzione, a seconda del luogo dove il ferito precipita e viene raccolto, se sulla terra ferma o in mare.

Nel 1977 vengo firmati due Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni del 1949: il primo relativo alla protezione delle vittime dei

Fotografia di un vagone treno della Croce Rossa Italiana.

“conflitti armati internazionali” e il secondo relativo alla protezione delle vittime dei “conflitti armati non internazionali”. Non si parla più di “guerra” ma di “conflitto armato”, in quanto la “guerra”, evento dalla connotazione giuridica ben definita, che iniziava con una formale dichiarazione e terminava con un trattato di pace, era stata interdetta dalla Carta dell’Onu (San Francisco 1945), che vieta il ricorso alla guerra per la risoluzione delle controversie internazionali (art.2). Viene introdotta anche una nuova tipologia di conflitto, il “conflitto armato non internazionale”, frutto di una riflessione sui conflitti interni scoppiati dopo il 1945, soprattutto negli ex domini coloniali, che, per estensione e mobilitazione di forze, non potevano più essere considerate, come in passato, dei semplici moti rivoluzionari, che gli Stati potevano reprimere sulla base della loro legislazione penale.

Trattandosi quindi di “conflitti armati non internazionali”, sottoposti al  D.I.U., tutti combattenti, sia delle Forze armate regolari che delle forze dissidenti, questi ultimi non più considerati semplici ribelli, hanno lo status  di combattenti legittimi e come tali  protetti dalle Convenzioni internazionali; così come le popolazioni civili che non prendono parte ai combattimenti. Tuttavia, perché si possa parlare di “conflitto armato non internazionale”, le forze dissidenti devono esercitare l’effettivo controllo su una porzione del territorio nazionale, che consenta loro la conduzione di operazioni militari prolungate, sotto il controllo di un comando responsabile; inoltre, i membri delle formazioni dissidenti, per essere considerati combattenti legittimi devono indossare un’uniforme o un segno distintivo uguale per tutti, devono portare apertamente le armi e  rispettare  gli usi e i costumi di guerra, così come stabiliti dalle Convenzioni internazionali.

Nel 1914, quando l’Europa precipita nel conflitto, la normativa vigente è costituita sostanzialmente dalla Convenzione di Ginevra del 1906, che aveva aggiornato e ampliato quella del 1864 relativa alla protezione dei feriti e malati della guerra terrestre, e dalle Convenzioni dell’Aja del 1907, una delle quali, la X, aveva allargato alla guerra navale i principi e le protezioni sancite a Ginevra per la guerra terrestre.

All’Aja, vengono stabilite le modalità per l’apertura delle ostilità, i diritti e i doveri delle Potenze neutrali, limitazioni e divieti dell’impiego di mezzi bellici particolarmente devastanti.

Le Convenzioni del 1907 seguono una  precedente Convezione dell’Aja del 1899, che aveva sancito il principio secondo il quale i belligeranti non hanno un diritto illimitato nella scelta dei mezzi con cui nuocere al nemico. Nel preambolo alla Convenzione viene inserita la “Clausola Martens” (dal nome del Diplomatico che l’aveva elaborata) che afferma un altro basilare principio: in mancanza di norme scritte e in attesa che le eventuali lacune della normativa vengano colmate, i belligeranti rimangono “sotto l’egida e la signoria dei principi del diritto delle genti, quali risultano…dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica”. La conduzione della guerra non è più lasciata all’arbitrio dei belligeranti che devono adottare in ogni frangente, anche in assenza di norme specifiche, comportamenti  ispirati al senso di umanità.

Tuttavia, allo scoppio della guerra, pochi sono quelli che sembrano rendersi conto che il conflitto sarà lungo, dagli sviluppi e dagli esiti imprevedibili per tutti. E’ un conflitto “nuovo”, dove le tradizionali metodologie di combattimento, cariche di cavalleria e assalti alla baionetta, sopravvivono a fianco delle nuove artiglierie dotate di una potenzialità di devastazione mai vista, in grado di colpire bersagli a distanze fino ad allora impensabili; c’ è poi l’ingresso della nuova Arma aerea e, per la prima volta, vengono impiegati gas  asfissianti.  E’ la prima guerra che vede coinvolte su larga scala  le popolazioni civili, con esodi forzati in relazione agli spostamenti dei fronti  (si pensi alla rotta di Caporetto).

Il conflitto si apre con una grave carenza di norme, atte a regolare la condotta delle operazioni militari, nel rispetto di quei principi umanitari ormai universalmente accettati. Se la tutela e la protezione dei malati e feriti di guerra poggiava su una consolidata normativa, da tutti rispettata , altre categorie di persone coinvolte nel conflitto non godevano di altrettante garanzie. E’ pur vero che le Convenzioni dell’Aja, relative alla protezione dei prigionieri e delle popolazioni civili, risalivano ad appena sette anni prima ma si sarebbero rivelate  inadeguate a fronteggiare le situazioni che sarebbero state generate da un conflitto dagli sviluppi e dalle conseguenze imprevedibili. Si arrivò pertanto alla guerra con una carenza normativa dovuta alla precedente inerzia da parte delle Potenze che, sovente, nelle risoluzioni internazionali avevano enunciato principi altisonanti che tali erano rimasti. Si pensi alla Convenzione dell’Aja del 1899, mai ratificata dagli Sati firmatari, che già conteneva il divieto di lanciare da Palloni aerostatici proiettili esplosivi e l’impiego di gas asfissianti.

La normativa dell’Aja  del 1907, dopo aver stabilito che il prigioniero doveva ritenersi in potere del Governo nemico, per evitare comportamenti arbitrari da parte degli individui e dei corpi armati che lo hanno catturato e lo custodivano, e che i prigionieri dovevano esser trattati con “umanità e comprensione”, il loro mantenimento era a carico della Potenza detentrice che doveva garantire loro vitto, alloggio e vestiario, nella misura corrisposta alle proprie truppe. Ma i Regolamenti attuativi erano rimandati alle legislazioni interne delle Potenze firmatarie, con la conseguenza che il trattamento dei prigionieri poteva subire variazioni da Paese a Paese.

Saranno la Convenzione di Ginevra del 1929 e, soprattutto, la III Convenzione del 1949, a stabilire in modo completo e organico il trattamento dei prigionieri di guerra, vincolante per tutti allo stesso modo.  

Carenza di norme sussisteva anche per quanto riguardava la protezione della popolazione civile. C’erano disposizioni che imponevano ai belligeranti di porre in essere, in relazione alla necessità militare, tutto quanto nelle loro possibilità, per limitare danni alle popolazioni, ai centri abitati, ai luoghi di ricovero e cura, agli edifici di culto, ai beni artistici; norme tuttavia insufficienti che, oltre tutto vennero sovente disattese. Distruzioni ingiustificate di centri abitati, deportazioni, massacri, fucilazioni di massa e violenze di ogni genere verso le popolazioni inermi furono compiute su tutti i fronti della Grande Guerra.

Va tuttavia ricordato un vuoto normativo in quanto, agli organismi neutrali riconosciuti dai belligeranti, non era stata attribuita alcuna funzione di controllo e verifica circa la puntuale osservanza delle Convenzioni da parte delle Potenze in conflitto, funzione oggi esercitata dai Delegati del Comitato Internazionale.

Infatti, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), diventato Ente privato di diritto svizzero solo nel novembre del 1915, non era ancora dotato di personalità giuridica che gli consentisse di presentarsi con un carisma di ufficialità sulla scena internazionale; le sue uniche attribuzioni erano quelle di custode dei principi fondamentali della Croce Rossa e di ente deputato a garantire e sviluppare i rapporti tra i Comitati Centrali delle Società nazionali di Croce Rossa, nel campo del soccorso ai feriti e malati di guerra. novembre del 1915

Il Comitato ginevrino poteva solo avvalersi dell’opera delle Società nazionali di Croce Rossa che, in quanto organismi ausiliari dei pubblici poteri nell’ambito dei rispettivi Stati (prerogativa indispensabile ai fini della costituzione di una Società nazionale di C.R.), possedevano, specificatamente nell’ambito dei servizi sanitari delle forze armate, una posizione che conferiva loro ampi spazi di intervento; infatti, con Circolare del 15 agosto 1914 (le ostilità erano iniziate il 28 luglio precedente), inviata alle 38 Società nazionali allora esistenti, il Comitato Internazionale comunicava che avrebbe cercato in ogni modo di esercitare il ruolo di intermediario tra le Società nazionali di Croce Rossa per la richiesta e l’invio dei soccorsi

Ma, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, la normativa era fortemente carente soprattutto riguardo alla protezione dei prigionieri di guerra e le popolazioni civili.

Riguardo ai prigionieri, la Convenzione del 1907 si limitava a consentire alle organizzazioni di soccorso, costituite sul territorio della Potenza detentrice, di accedere ai campi di prigionia per distribuire generi di conforto ai detenuti, ma non prevedeva, per le Potenze protettrici (Potenze neutrali che gli Stati belligeranti hanno delegato per mantenere attive le relazioni diplomatiche tra loro, interrottesi a causa della guerra).

Saranno la Convenzione del 1929 e, soprattutto quella del 1949, a colmare questa lacuna. Oggi, alle Potenze protettrici è demandato anche il controllo sull’applicazione della normativa internazionale umanitaria da parte dei belligeranti; controllo che esse esercitano per mezzo di Delegati che, ricevuto il preventivo gradimento delle Autorità del Paese presso il quale vengono inviati, hanno accesso ai luoghi di detenzione, venendo agevolati anche per quanto riguarda l’invio di soccorsi umanitari. Inoltre è previsto che la funzione di Potenza protettrice possa essere svolta anche da “sostituti”, individuati in una qualsiasi organizzazione umanitaria in grado di fornire garanzie di imparzialità ed efficacia. Funzione naturalmente rivestita dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, in quanto organismo universalmente riconosciuto quale tutore e garante dell’applicazione del Diritto Internazionale Umanitario, del quale è custode e promotore.

Tuttavia, allo scoppio del conflitto, alla carenza di norme sul trattamento dei prigionieri cerca di supplire proprio il Comitato Internazionale della Croce Rossa, che, nell’agosto del 1914, costituisce a Ginevra l’Agenzia internazionale dei prigionieri di guerra (AIPG); inizialmente, è autorizzata solo a raccogliere, presso le potenze in conflitto, notizie sui prigionieri, al fine di consentire il ripristino delle comunicazioni tra questi e le loro famiglie. Nel 1915 viene fatto un ulteriore progresso, quando le Potenze detentrici consentono le visite ai campi di prigionia dei delegati dell’AIPG che, benché non autorizzati ad entrare nel merito del rispetto della normativa internazionale da parte della Potenza detentrice, possono acquisire direttamente notizie sui prigionieri e ristabilire i contatti famigliari.

Sulla scia di questi piccoli progressi, si giungerà, tra il 1917 e il 1918, alle intese tra tedeschi e francesi, che si possono considerare le premesse per  i successivi e più incisivi accordi sul trattamento dei prigionieri di guerra.

Se riguardo al trattamento dei prigionieri militari esisteva una seppur limitata normativa, praticamente nulla era stato stabilito per la protezione dei civili:. E’ pur vero che i belligeranti erano tenuti a porre in essere tutto quanto in loro potere per limitare il coinvolgimento dei civili nelle operazioni militari, ma poi vi erano i civili residenti in zone militarmente occupate dal nemico, i profughi, i deportati, gli internati civili, quei cittadini stranieri che, trovandosi allo scoppio delle ostilità sul territorio della Potenza divenuta nemica, erano stati internati in campi di prigionia. Queste categorie di persone, adibite a lavori pesanti e pericolosi, spesso a ridosso delle linee di combattimento, non erano minimamente tutelate.

E’ quindi il Comitato di Ginevra che, ancora una volta, prende l’iniziativa e costituisce, all’interno dell’Agenzia per i prigionieri di guerra, una nuova sezione dedicata alla ricerca dei civili rimasti in zona di occupazione militare nemica, dei deportati e degli internati e, nell’ottobre. Nell’ottobre del 1914, Ginevra propone  alle Società Nazionali di Croce Rossa di allargare il loro intervento agli internati civili, assimilandoli ai prigionieri militari; gli internati sarebbero stati così posti “in potere” del Governo della Potenza detentrice e sottratti all’arbitrio degli individui che li avevano catturati e che li vigilavano. Solo le Società Nazionali di Croce Rossa di Austria, Russia e Gran Bretagna dichiarano la loro disponibilità, altre trovano  la proposta priva di basi legali, altre troppo impegnativa, altre ancora non forniscono alcuna risposta; viene presa in considerazione solo la possibilità di equiparare il trattamento degli internati civili ai prigionieri militari in ordine al vitto, all’alloggio, alla possibilità di comunicare coi famigliari e ricevere generi di conforto dall’esterno.

Solo nel 1917, le Potenze belligeranti concluderanno tra loro accordi, peraltro vincolanti per i soli firmatari, sul regime di detenzione degli internati civili e sulle procedure di rimpatrio degli stessi.

Tuttavia, come già evidenziato, l’esperienza maturata nel Conflitto non portò, nel dopoguerra, ad assumere iniziative atte a tutelare maggiormente i civili; saranno, dopo le carneficine della II Guerra mondiale, la IV Convenzione di Ginevra del 1949 e i Protocolli aggiuntivi del 1977 a fornire idonei strumenti giuridici per la protezione delle popolazioni coinvolte nei conflitti armati.

Luigi F. Pedrone

*Per approfondimenti vedasi AA. VV., GRANDE GUERRA: LE RADICI E GLI SCONFITTI, ed. Il Cerchio, 2015

LA FINE DELLA GRANDE GUERRA E LA  “QUESTIONE SUD-TIROLESE”. INTERVISTA A EVA KLOTZ. a cura di Luigi Francesco Pedrone.

Dottoressa Klotz, l’annessione del Sud-Tirolo all’Italia fu una delle conseguenze della sconfitta e della dissoluzione dell’ l’Impero Austro-Ungarico. Nel 1919, dopo la firma del Trattato di Pace con la neo-costituita Repubblica austriaca, Vittorio Emanuele III dichiarò, riguardo al nuovo Alto Adige, la volontà di rispettare in pieno le autonomie e le tradizioni locali, mantenendo in vita le scuole, le istituzioni e le associazioni tedesche. Furono anche avviate trattative per creare strutture amministrative autonome, in grado di promuovere e garantire un’integrazione tra le istituzioni locali e il nuovo sistema statale. Poi che cosa successe?

“Si, il re d’Italia aveva promesso che le popolazioni annesse non avrebbero sofferto per l’inglobamento in una nuova realtà

Soldati austro-ungarici sul fronte dolomitico.

statuale, perché sarebbero state amministrate con rispetto e sensibilità verso la loro cultura e identità. Ma subito dopo l’annessione, il Sudtirolo conobbe questo “amore”, concretizzatosi con l’immediato e sistematico afflusso massiccio di popolazioni italiane nella regione. Si procedette su due direttrici: la metamorfosi dei Sudtirolesi in Italiani, mediante la rimozione della lingua e cultura tedesca e la massiccia immigrazione. Ogni importante mansione e posizione doveva essere svolta e ricoperta da Italiani, in modo che i Sudtirolesi fossero esclusi dall’ Amministrazione e da sfere d’ azione. La completa italianizzazione era la meta prefissa per trasformare il Sudtirolo in territorio italiano. Il nascente Fascismo di Mussolini si impegnò particolarmente a tal fine. Il primo passo fu la soppressione della madrelingua tedesca nelle scuole e lo scioglimento delle associazioni culturali, economiche e sociali. Dopo la persecuzione culturale e sociale giunse la violenza vera e propria. Già nel gennaio 1921 i Fascisti avevano fondato a Bolzano un loro gruppo combattente e Squadre fasciste incominciarono a spargere il terrore. Nell’ aprile 1921 il corteo per la Fiera di Bolzano fu fatto bersaglio di colpi di pistola e bombe a mano; si contarono 48 feriti. Un maestro fu assassinato mentre stava tentando di portare al sicuro due ragazzi. Mussolini disse al riguardo:” Se i tedeschi devono essere bastonati e calpestati per diventare ragionevoli, noi siamo certamente pronti!” Il terrore fascista, dominò poi la vita politica in Sudtirolo per oltre vent’ anni”.”

Nel periodo tra i due conflitti mondiali, tra l’Italia e la Repubblica austriaca si erano instaurati buoni rapporti, prima col Cancelliere Dollfuss, di cui era nota l’amicizia personale con Mussolini, e successivamente con il Cancelliere  von Schuschnigg. Sembra tuttavia che l’Austria, in quel periodo, non abbia mosso dei passi sostanziali per mitigare la politica germanofoba adottata dal Regime fascista in Alto Adige. Poi ci fu l’alleanza tra Italia e Terzo Reich e nel 1939 si arrivò alle cosiddette “Opzioni”: alla popolazione germanofona fu concesso di optare per la cittadinanza tedesca e trasferirsi nel Reich. Quali furono le reazioni della popolazione sudtirolese verso tutto ciò ?

“L’ Austria fu occupata ed annessa alla Germania nel 1938 ed i Fascisti potevano contare sulla rinuncia di Hitler al Sudtirolo. Qualora fosse stata necessaria una conferma, questa giunse in occasione del  viaggio del Führer a Roma nel maggio del 1938; durante quella visita di Stato Hitler dichiarò che:” E` mia incrollabile volontà, ed eredità per il popolo tedesco, che il confine alpino eretto tra noi due dalla natura rimanga per sempre intoccabile”. Mussolini ritenne giunta l’ occasione per risolvere definitivamente il problema sudtirolese. Il vecchio piano di espulsione forzata dei Tirolesi a sud del Brennero, dopo che le misure di snazionalizzazione si erano rivelate inefficaci, rimaneva l’ unica via da intraprendere. I risultati dell’ azione di italianizzazione, dopo vent’ anni di dominio e terrore, per Roma erano una mortificazione: i Sudtirolesi non potevano essere trasformati in Italiani. Venne allora realizzato quello che era progettato da tempo: “Poiché i monti e fiumi non possono essere trasferiti, dovranno essere trapiantate le persone”. Nel giugno 1939, a seguito del “Patto d’Acciaio” tra Hitler e Mussolini, fu sottoscritto l’accordo tra Berlino e Roma, secondo il quale i Sudtirolesi dovevano “optare” tra la cittadinanza tedesca e quella italiana, scegliere perciò tra la dittatura fascista e quella nazista. Ai Sudtirolesi stessi non venne neanche chiesto che cosa pensassero di questa “scelta”. Quando trapelarono le prime notizie relative al trasferimento della popolazione, in Sudtirolo emersero indignazione e spavento generali. Ma la decisione era presa ed entro il 31 dicembre 1939 tutte le persone maggiorenni dovevano esprimere la loro scelta. Per i minorenni era valida la decisione del padre. La data finale dell’esodo era prevista per il dicembre del 1942. Per la Germania optò circa l’89% della popolazione ma, a  causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, i trasferimenti non procedevano come previsto: soltanto un terzo della gente che avrebbe dovuto andarsene  lasciò in effetti il Sudtirolo. L’ “opzione” tuttavia fu uno dei capitoli più tragici e dolorosi per il nostro popolo; questa grande adesione al trasferimento in  Germania non fu espressione di adesione al Nazismo, ma frutto di disperazione di fronte alla prospettiva di perdere, non solo la propria identità, la propria lingua, la propria cultura tedesca, ma anche la propria Heimat, la propria patria intesa soprattutto come il focolare presso il quale sei nato e cresciuto, e tutto ciò che in esso possiedi in termini materiali ed affettivi. La propaganda italiana annunciava infatti che quelli che avessero optato per l’Italia sarebbero stati comunque trasferiti nelle regioni meridionali della Penisola.”

Gli accordi De Gasperi-Gruber del 1946 e il successivo Südtirol-Paket o Pacchetto per l’Alto Adige, elaborato dai Governi austriaco e italiano negli anni sessanta del secolo scorso, hanno garantito alla Provincia autonoma di Bolzano  uno Statuto speciale, che riconosce ampie autonomie alla popolazione di lingua tedesca e importanti finanziamenti da parte dello Stato. La critica che spesso si leva verso gli indipendentisti sudtirolesi è che, mentre proclamano che il Sud Tirolo non è Italia, godono dei  generosi  finanziamenti che vengono assegnati da Roma. Cosa ci può dire al riguardo?  

“Prima di tutto lo Statuto di Autonomia, che non fu un regalo ma una conquista costata  lunghe sofferenze e la dolorosa lotta degli anni 60 del secolo scorso, prevede che il 90% delle tasse riscosse in Sudtirolo rimanga alla Provincia Autonoma. Nei decenni precedenti, non solo lo Stato Italiano non si è attenuto a ciò ma, soprattutto negli ultimi anni, ha tolto sempre di più. I soldi che ritornano da Roma a Bolzano non sono generosi finanziamenti, ma parte dei soldi pagati e guadagnati dalla nostra gente laboriosa. Poi quello che viene denominato autonomia, vera autonomia non è, perché i più importanti elementi che caratterizzano  una vera e propria autonomia sono mancati fin dall’inizio: autonomia tributaria, amministrativa, di polizia e di giurisdizione; non c’è nemmeno quella scolastica. Non solo i governi statali degli ultimi decenni hanno sempre tentato di svuotare le nostre competenze, ma, proprio il governo Renzi, sta operando tagli in campo economico e amministrativo, come ad esempio nell’ambito del nostro sistema sanitario. Vorrei sottolineare, e non come ultima cosa, che la cosiddetta  autonomia concessa, non  consente nemmeno di togliere la grande eredità lasciataci dal fascismo relativa ai falsi nomi geografici, relativi alla nostra terra, che ci sono stati imposti. Prevalgono ancora i toponimi inventati dal fascismo, primo tra tutti  la denominazione “Alto Adige”, creata per cancellare il nome Tirolo per far credere a turisti e forestieri che si tratta di un territorio storicamente, culturalmente e linguisticamente italiano da sempre.”

Con la sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico, muore quella Mitteleuropa composta da Popoli diversi che avevano convissuto nell’Impero, un Impero non accentratore ma garante delle diverse etnie e culture.  L’Europa di oggi non ha più frontiere tra i suoi Stati, ma quell’ “Europa dei Popoli”, il traguardo dei Padri fondatori, sembra ancora lontana. Qual è il suo punto di vista al riguardo?

“Per quanto qui ci riguarda, siamo ancora lontani dal traguardo. Per quanto qui ci riguarda, l’attenzione che viene prestata ad una cultura e una  lingua diverse è di gran lunga inferiore a quella che normalmente veniva prestata nel vecchio Impero.  Faccio un esempio: in ambito giurisdizionale, nell’Impero Austro-Ungarico, il terzo e ultimo grado di giudizio spettava alla Corte di ultima istanza con sede a Vienna e i ricorsi venivano presentati  nella lingua madre di chi faceva ricorso, per cui, nel caso specifico, per le genti di lingua italiana in italiano. Noi Sudtirolesi, oggi, non solo non possiamo fare ricorsi alla Corte di Cassazione di Roma in lingua tedesca ma dobbiamo lottare ogni giorno per il diritto, garantito sulla carta, della piena parificazione della lingua tedesca alla lingua italiana per quanto riguarda i rapporti con gli organi della pubblica amministrazione, con gli organi di Polizia. Un altro esempio è dato dalle indicazioni allegate ai medicinali che, tuttora, sono solo in lingua italiana, sebbene la legge preveda che siano scritti anche in lingua tedesca. E questi sono solo alcuni esempi che dimostrano come questa autonomia non sufficiente per garantire ai Sudtirolesi di potersi esprimere in ogni occasione nella propria lingua di valorizzare in pieno la propria cultura, la propria identità tirolese. Il Sudtirolo non ritengo quindi  possa essere considerato un caso esemplare di autonomia; inoltre ci è preclusa la possibilità di esercitare il diritto all’autodeterminazione e decidere così, liberamente, se il Sudtirolo debba continuare a far parte dello Stato Italiano o se si debba ricongiungere all’ Austria o, ancora, diventare uno Stato sovrano. Non vedo ancora l’ Europa dei Popoli ma solo quella degli Stati, che magari esercitano la loro autorità su territori acquisiti attraverso trattati internazionali ingiusti e che pongono limitazioni ad intere popolazioni che non possono così vivere con coloro che sentono più vicini per lingua, cultura e tradizioni!”

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