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IMMIGRAZIONE E RITORNO ALLE FRONTIERE. L'UE VARA IL PIANO. di Claudio Giovannico.

Negli ultimi mesi l’Europa si è trovata di fronte alla dura prova dell’emergenza immigrazione, come, forse, mai prima d’ora. Il proposito di giungere alla formazione di politiche comuni in materia d’asilo è divenuto sempre più un’urgenza nell’agenda europea e la strategia a lungo termine, tracciata lo scorso maggio dalla Commissione Ue, di fronte alla crisi dei rifugiati, ha dovuto cedere il passo ad azione prioritarie da portare a termine nell’immediato.
Oltre tutto, l’esplosione dei flussi migratori e l’incongruenza delle regole di accoglienza in un quadro di governance comunitaria deficitaria hanno condotto alla concreta messa in pericolo di uno dei pilastri dell’integrazione europea: l’area Schengen.
Nelle passate settimane si è assistito al continuo avvicendarsi di decisioni, prese da parte di alcuni Stati membri dell’Ue, relative alla reintroduzione dei controlli, sebbene temporanei, alle proprie frontiere. In particolare, la scelta in tal senso del governo tedesco ha comportato un vero e proprio effetto domino, a cui ha fatto immediato seguito l’adozione di medesime misure in Austria, Slovacchia, Olanda e Ungheria e di recente altresì in Slovenia e Croazia, sebbene quest’ultima non si possa ancora ritenere ufficialmente nell’area Schengen [1]. Invero, in caso di emergenza o situazioni eccezionali, è possibile reintrodurre, previa informazione a Bruxelles, i controlli obbligatori alle frontiere interne per un massimo di 30 giorni [2]. Ciò nonostante, dietro al comportamento posto in essere dalla Germania si scorge facilmente la volontà del governo tedesco di subordinare la sopravvivenza di Schengen alla condivisione di una politica migratoria. Un vero e proprio aut aut rivolto a quei Paesi dell’Unione che non sembrano intenzionati ad accettare il sistema d’accoglienza proposto da Bruxelles. Tali contrasti interni all’Ue hanno, così, avuto come risultato una prima bocciatura del piano della Commissione sull’immigrazione, presentato al Consiglio straordinario Affari Interni lo scorso 14 settembre, e il sorgere di tensioni nell’est dell’Europa, soprattutto nei Balcani.
Il flusso dei migranti provenienti da Oriente e diretti in Germania, ha dovuto arrestarsi temporaneamente tra la Croazia e la Serbia, bloccati dalla chiusura delle frontiere in Slovenia, Austria e Ungheria. Ciò ha finito per innescare la peggiore crisi delle relazioni tra Serbia e Croazia dopo la guerra civile jugoslava. Zagabria ha ordinato una chiusura parziale del suo confine con la Serbia, portando il commercio tra i due Paesi a una battuta d’arresto a seguito di un massiccio afflusso di rifugiati in Croazia. Alle accuse rivolte dalle autorità di Zagabria a quelle serbe di smistare verso i territori croati la massa di migranti e profughi provenienti da sud, la Serbia ha duramente risposto minacciando contromisure, ritenendo il provvedimento irresponsabile e in violazione dell’accordo di associazione e stabilizzazione (Asa) tra Ue e Serbia.
In tale situazione di profonda emergenza e difficoltà l’Unione Europea ha deciso di riconvocare d’urgenza un secondo Consiglio straordinario Affari Interni. Questa volta, il risultato del meeting dei ministri degli interni degli Stati membri dell’Ue, è stato diverso dal precedente. Vista l’impossibilità di raggiungere l’unanimità, il Consiglio ha votato a maggioranza qualificata approvando il documento sui migranti presentato dalla presidenza della Ue. Nonostante il voto contrario di Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Ungheria, il piano di riparto dei migranti è stato approvato, divenendo efficace anche per quei Paesi che non hanno espresso voto favorevole. Invero, si tratta a tutti gli effetti di una decisione di un organo comunitario e non di un accordo fra Stati, come spesso accade di leggere o ascoltare alla televisione. L’abbandono del criterio dell’unanimità e il ritorno al c.d. metodo comunitario ha permesso, pertanto, di raggiungere la maggioranza, nonostante il voto contrario di alcuni Paesi. Un voto, quello a maggioranza qualificata, tuttavia insolito nelle riunioni europee, soprattutto per questo tipo di materie. Il timore è che tale scelta possa avere conseguenze sulla coesione dell’Unione, avanzando non pochi dubbi su come tale decisione verrà imposta nella pratica ai Paesi contrari alla redistribuzione.
Il piano della Commissione risulta, dunque, efficace per tutti i Paesi dell’Ue, salvo Gran Bretagna e Danimarca, in quanto esentati dai Trattati. La decisione mette nero su bianco cifre precise, di migranti di cui ogni Paese dovrà farsi carico, e vincolanti (anche se la parola nel testo non figura) per chi ha votato contro come per chi ha voltato a favore. Unica possibilità di deroga, valida per i Paesi che si trovino in circostanze eccezionali, sarà quella di chiedere un rinvio che consenta di ritardare per massimo un anno fino al 30% dei migranti [3]. È stata, invece, abbandonata la previsione dell’altro tipo di deroga, consistente in una compensazione economica.
Grande rilevanza assume la questione inerente i cosiddetti “hotspot”. Fortemente voluti dalla Germania, essi indicano i centri di identificazione dei migranti negli Stati di frontiera più colpiti dai flussi migratori (Italia, Grecia, Ungheria). Il sistema degli hotspot prevede oltre al registro dei rifugiati, il compito di rispedire indietro chi non ha titolo per chiedere asilo e redistribuire chi fugge dalle zone di guerra. Al fine di velocizzare le pratiche di identificazione, registrazione e foto-segnalamento dei migranti, gli Stati membri riceverebbero il supporto dell’Ufficio europeo per l’asilo (Easo), di Frontex ed Europol, in modo tale da distinguere i profughi che hanno effettivo diritto all’asilo, dai migranti economici. È stato pevisto, inoltre, un sostegno di natura economica per i Paesi di frontiera impegnati nei compiti di identificazione, e il rafforzamento dei controlli ai confini esterni dell’Ue.
Nonostante i grossi passi avanti posti nel tentativo di pervenire ad un approccio comune nell’affrontare il fenomeno migratorio, il piano della Commissione europea, approvato dal Consiglio lo scorso 22 settembre, non sembra tuttavia risolvere la questione in maniera completa. Di fatto, non viene concretamente messo mano a “Dublino”, di cui viene lasciato invariato l’impianto di massima e di cui il pacchetto in questione rappresenta una sorta di misura eccezionale. Il meccanismo degli hotspot pare, infatti, inserirsi perfettamente all’interno del sistema di Dublino. In base a queste stesse norme, i Paesi, impegnati nelle attività di accoglienza e registro dei migranti, resterebbero, invero, obbligati a ricevere indietro i migranti risultati “non graditi” agli altri Paesi europei.
Risulta, dunque, evidente quanto sia necessario pervenire a una revisione definitiva dei Trattati di Dublino, a cui segua l’introduzione di un asilo europeo, per cui lo status di rifugiato chiesto nel primo Paese di approdo venga riconosciuto e sia considerato valido in tutta l’Unione. Solo in questa maniera, sarà possibile continuare a mantenere il principio e la prassi delle frontiere aperte nell’Unione Europea, evitandone il suo crollo.

Claudio Giovannico

[1] Il Trattato di Schengen non è ancora in vigore per la Croazia, nonostante vi abbia aderito nel 2013, non avendo ancora attuato i dovuti accorgimenti tecnici. Per tale motivo, ad oggi la Croazia mantiene i controlli alla frontiera, seppure in via provvisoria.
[2] Provvedimento espressamente previsto dallo stesso sistema di Schengen, così come recentemente modificato dal Regolamento (Ue) n. 1051/2013. Cfr. art. 25 del Reg. UE n. 1051/2013 di modifica del Reg. CE n. 562/2006 al fine di introdurre norme comuni sul ripristino temporaneo del controllo di frontiera alle frontiere interne in circostanze eccezionali.
[3] Tale previsione viene incontro alle esigenze di alcuni Paesi, come la Polonia, proprio in questi giorni impegnata in elezioni interne, al fine di recuperarne il consenso.

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