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AIUTI DI STATO PER LE BANCHE? NO, GRAZIE! REPRESSIONE FINANZIARIA? SI, GRAZIE! Di Luigi Copertino. – Parte Prima –

Sembra che, in questi giorni, sia stata pubblicamente pronunciata l’espressione maledetta in sede europea: “aiuti di Stato”. A pronunciarla, insieme a Matteo Renzi che lo ha fatto in modo soft, sono stati, nell’ultima convention dell’ABI, il Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, ed il Presidente della stessa Associazione Bancaria Italiana, Pattuelli. Il ministro dell’economia, Padoan, ha fatto loro prudentemente eco.

La struttura ordoliberale dell’UE, pensata in chiara funzione antikeynesiana, ha da tempo messo al bando l’idea che gli Stati possano aiutare le proprie imprese mediante sostegni finanziari pubblici. Il divieto è giustificato con la tutela della concorrenza, che gli aiuti di Stato finirebbero per distorcere avvantaggiando le imprese nazionali rispetto a quelle estere, e con il dovere di evitare azzardi morali sia da parte degli imprenditori che da parte dei politici, ossia di mettere al bando il “capitalismo assistito”.

Ora però ad essere sull’orlo del tracollo sono le banche europee, non solo quelle italiane. Se Monte dei Paschi e le altre banche della Penisola hanno problemi di sofferenze creditizie – la crisi ha disastrato i bilanci di famiglie ed imprese che non sono più in grado di ripagare i prestiti ottenuti – le banche tedesche, ad iniziare da Deutsche Bank, hanno la pancia piena di derivati ossia di crediti inesigibili per definizione trattandosi di strumenti finanziari che funzionano solo fino a quando il gran casinò virtuale della speculazione globale gira per diventare, appunto, inesigibili non appena la ruota si inceppa e si ferma. Si è calcolato che non meno del 20% dei colossali bilanci delle banche tedesche siano costituiti da presunti attivi da derivati, non esigibili e quindi trasformatisi in veri e propri “buchi neri finanziari” capaci di travolgere l’intera struttura finanziaria europea. L’incidenza dei derivati nei bilanci delle banche italiane non tocca, invece, il 5%. Questo giusto per riequilibrare il moralismo tedesco così rigido verso il permissivismo e la poca produttività degli italiani.

I vari Catoni Censori dell’ortodossia eurocratica dovrebbero adesso dimostrare tutta la loro fermezza, quella finora inflessibile quando a soffrire sono state le industrie ed i lavoratori licenziati dalla crisi o gli Stati aggrediti dalla speculazione. Il dogma ordoliberale, infatti, vieta, dovrebbe vietare, qualsiasi aiuto di Stato anche nel caso delle crisi bancarie. Se le banche hanno azzardato speculando – così recita la liturgia ordoliberale – devono tirarsi fuori da sole dall’impiccio. Presupposto di tale professione di fede è, infatti,  la convinzione, del tutto libresca, del mercato autoregolatore, che tutto aggiusta da solo. E sarebbe bello, buono e giusto se tale convinzione corrispondesse alla realtà effettiva delle cose. Ma non è così.

Della non corrispondenza tra il dogma ordoliberale e la realtà storica se ne sono accorti negli Stati Uniti con il fallimento della Lehman Brother, nel 2008, che rischiò di travolgere l’intero sistema finanziario americano e quindi globale. Se ne sono accorti, sempre nel 2008, in Inghilterra quando il governo conservatore fu costretto a nazionalizzare la Northern Bank sull’orlo del precipizio con i correntisti che già ne assalivano gli sportelli nella corsa a chi prima ritirava i propri risparmi. Se ne accorsero anche nell’UE, tra il 2008 ed il 2013, quando, con l’istituzione dell’Esm, si decise di salvare le banche franco-tedesche, esposte verso il credito privato greco diventato inesigibile, accollando sui bilanci pubblici i costi del salvataggio.

Ma, allo scopo di non sconfessare platealmente il dogma, camuffando sotto forma di “Fondo Salva Stati”, appunto l’Esm, il sostanziale aiuto pubblico alle banche speculatrici, nell’UE ordoliberale si è introdotta, dal 2015, la normativa del Bail-in, “salvataggio interno di mercato”, sulla base della quale a rispondere dei deficit bancari devono essere gli azionisti e gli obbligazionisti delle stesse banche. Ma anche, e questo è uno degli inganni sottesi a detta normativa, i correntisti ed i depositanti. Si è detto che si tratta solo di quelli con depositi superiori ai centomila euro ma, in realtà, nulla garantisce che detta soglia non sia all’occorrenza abbassata o che non siano in qualche modo trascinati nei fallimenti bancari anche i piccoli risparmiatori. Senza poi contare che a depositare somme ingenti in banca sono solitamente gli imprenditori che, se rimanessero travolti da un eventuale fallimento della loro banca, sconterebbero – in un assurda mescolanza, sebbene indiretta, tra capitale finanziario e capitale industriale – gli effetti del tracollo bancario sulle loro aziende e sui posti di lavoro da esse garantite.

Di fronte a questa dimostrazione pratica – che ci si poteva evitare se non si fossero ciecamente seguiti i dogmi ordoliberali – dell’incapacità di autoregolazione del mercato, in particolare del mercato finanziario, ora in sede UE, senza ammetterlo apertamente, si ha intenzione di chiudere un occhio e di autorizzare deroghe al Bail-in per il Bail-out ossia di acconsentire ai vituperati aiuti di Stato.

E tuttavia l’intera faccenda suscita indignazione perché ogni qualvolta si è trattato, come di recente da noi per il caso dell’Ilva, di ipotizzati interventi dello Stato a salvaguardia delle imprese in difficoltà e dei posti di lavoro a rischio, la risposta di Bruxelles è sempre stata un deciso e perentorio “no!”. Adesso, però, che ad essere in difficoltà sono le banche ecco che la stessa eurocrazia, Juncker, Tusk, la Merkel, Schauble, Draghi, e via dicendo, si mostra più flessibile e financo disposta a tacitare il proprio ordoliberismo rigorista e dogmatico. Questo fa capire, ancora una volta, chi è il vero padrone tra la politica e la finanza.

Quando, durante un convegno, un paio di anni fa, feci notare ad un docente di economia questa strana ed assurda dogmatica secondo la quale gli Stati devono essere incaprettati dall’austerità, e quindi costretti a tagliare servizi ai cittadini, mentre le banche vengono salvate con pubblici interventi – il mio riferimento in quell’occasione era al caso della Lehman Brother – mi fu risposto che il salvataggio delle banche è necessario al fine di non far crollare l’intera economia globale. Too big to fail!

Eppure la storia dimostra che l’intervento pubblico può avere altre efficienti impostazioni, altre finalità etiche ed altri benefici effetti.

Ammettere “aiuti di Stato” intesi solo come erogazioni a fondo perduto o prestiti agevolati dello Stato a privati in fallimento non è affatto un intervento di politica economica keynesiana. Casomai è stata, in passato, una prassi di comodo finalizzata alla costruzione elettoralistica del consenso.

In altri contesti – sia democratici come quello dell’America di Roosevelt sia autoritari come quello dell’Italia socialnazionale di Mussolini – l’intervento pubblico di salvataggio delle imprese e delle banche in crisi, a causa degli azzardi morali di un finanza troppo libera, dell’incapacità degli imprenditori e dei limiti intrinseci del mercato che non è affatto un meccanismo armonico ed equo, non è avvenuto lasciando inalterate le istituzioni e le regole fino a quel momento vigenti.

A seguito del grande crollo del 1929, durante gli anni del New Deal, intere dinastie di banchieri, fino ad allora ritenute intoccabili, e noti ed influenti money manager furono sottoposti a processo parlamentare. Il Congresso americano aprì una serie di inchieste per capire cosa era successo e sullo scranno degli imputati/testimoni furono chiamati i Rockefeller, i Morgan, i Mitchell, i Wiggin, i Lamont ed altri ancora. Gli uomini del New Deal avevano ben individuato il nemico della nazione in questi esponenti della casta finanziaria e li sottoposero alla pubblica gogna costringendoli ad abbassare la trionfa alterigia alla quale erano abituati ed a sottostare alle riforme che il governo Roosevelt andava mettendo in atto e che consistevano in provvedimenti volti alla cosiddetta “repressione finanziaria” ossia a vincolare l’attività finanziaria verso obiettivi utili all’economia reale sottraendola alla tentazione autoreferenziale e speculativa.

In Italia, negli anni ’30 del secolo scorso, tecnici a-fascisti come Alberto Beneduce – socialista e massone – e Donato Menichella (1), coperti dalla protezione politica e dalla fiducia personale di un Mussolini nient’affatto dimentico del suo socialismo, imposero ad industriali e banchieri, fino ad allora abituati ad essere trattati dai governi (non escluso quello fascista della fase di compromesso ancora semi-liberista degli anni ’20) con i guanti bianchi, una ferrea disciplina che si spinse fino alla parziale nazionalizzazione, mediante l’istituzione dell’Iri e dell’Imi, del patrimonio industriale e finanziario italiano. Furono così create le basi del sistema economico “misto” del dopoguerra.

Che la festa per i banchieri fosse finita se ne accorse, ad esempio, Josef Leopold Toeplitz, il banchiere polacco di origine ebraica, ma naturalizzato italiano, presidente della Banca Commerciale Italiana (la Comit), quando, recatosi da Beneduce con la convinzione di trovare presso di lui gli “aiuti di Stato” senza contropartita, si vide platealmente e rabbiosamente messo alla porta ed alla fine subì anche la nazionalizzazione delle partecipazioni industriali in possesso della sua banca. Infatti, l’idea di fondo di Beneduce era quella di un intervento statale nell’economia del paese che, però, doveva essere contenuto nei limiti del controllo finanziario e non estendersi anche a compiti di programmazione e di gestione, in modo da limitare l’influenza dei gruppi privati sulla politica senza però immettere quest’ultima nella gestione industriale ed evitando così il rischio dell’affidamento della conduzione delle imprese a personaggi incompetenti e scelti solo per “meriti politici”. Questa concezione di tipo “produttivistico” era quel che, neanche tanto segretamente, univa il socialismo riformista di Beneduce, che militò nel partito socialista con la corrente di Bissolati, ed il socialismo massimalista di Mussolini, che nello stesso partito socialista aveva a suo tempo capeggiato l’ala radicale e rivoluzionaria. Beneduce, quindi, era avverso ai programmi socialisti che chiedevano la statizzazione degli strumenti di produzione e la direzione statale dell’attività produttiva perché, molto più realisticamente, sosteneva la necessità di un intervento indiretto, di stimolo e di controllo, dello Stato sullo sviluppo economico, da realizzarsi soprattutto attraverso strumenti finanziari.

La Comit di Toeplitz, al momento della crisi del 1929, era la vera padrona dell’economia italiana controllando il 20% del capitale industriale nazionale. Lo stesso Toeplitz sedeva contemporaneamente in ben 32 consigli di amministrazione delle principali banche ed industrie nazionali. Travolto dalla crisi, come si è detto, Toeplitz si rivolse al governo, rappresentato da Beneduce spalleggiato da Mussolini, ma fu costretto ad accettare, per il salvataggio, condizione tali che mettevano fine al suo impero bancario-industriale. Mussolini, infatti, aveva scelto Beneduce, con il quale condivideva l’antica militanza socialista, con l’intenzione di nazionalizzare, senza usare metodi bolscevichi, le grandi imprese. Beneduce impose, pertanto, a Toeplitz a conferire tutte le sue partecipazioni industriali alla Sofindit, una società a prevalente capitale pubblico affinché le potesse amministrare in via transitoria in attesa che fossero rilevate dall’Iri del quale si era già deciso la costituzione. Insieme alle partecipazioni industriali Toeplitz fu costretto a cedere anche gran parte delle quote di maggioranza del capitale della Comit che, alla fine del 1932, diventò una vera e propria banca pubblica, di “interesse nazionale” come si diceva all’epoca. Tuttavia gli si lasciò la guida della banca ma egli fece un altro passo falso quando cercò di arginarne il ridimensionamento a istituto di credito ordinario, dando in tal modo pretesto alle autorità finanziarie per imporne la destituzione. Fu sostituito dal banchiere “esoterista” Raffaele Mattioli che, mentre ostentava ossequio al governo fascista, fece della Comit un centro di resistenza antifascista, nel quale iniziarono la loro carriera gli uomini del partito d’azione come Ugo La Malfa, preparando la sua successiva fusione con Mediobanca guidata dall’“oscuro” genero di Beneduce ossia Enrico Cuccia, il vero gran patron finanziario del capitalismo italiano prima della globalizzazione.

– Continua sulla seconda parte: https://domus-europa.eu/?p=6304#more-6304

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