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ETEROGENESI E GUERRA FRATRICIDA DEI DIRITTI UMANI. Di Francesco Mario Agnoli.*

    Lo spirito della Dichiarazione del 1948

    Quando, nel 1948, venne varata, la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo fu accolta con autentico e generale entusiasmo, come l’inizio di un mondo rinnovato, di un’umanità finalmente redenta, che non avrebbe più conosciuto guerre, oppressioni, discriminazioni, tirannie.

    Oggi, a poco meno di settant’anni da quella Dichiarazione, i diritti umani sembrano godere di ottima salute tanto  che vengono citati ad ogni piè sospinto, come un mantra utilizzabile a sostegno  delle cause  più disparate e spesso opposte. Tuttavia  proprio la molteplicità e non di rado la  contraddittorietà delle cause  cui questi diritti dovrebbero dare base e protezione dimostra il venir meno  di quell’aureola messianica che li rivestiva  nel 1948,  di quella aspettativa di  rinnovamento  del mondo. Rinnovamento inteso ad espungerne per sempre il lato oscuro, l’aspetto diabolico, incarnato dalle dittature, ma non a mutarne  le fondamenta (quelle che in seguito sarebbero state  definite  “grecoromane-giudaico-cristiane”).  Aspettative e convinzioni che trovavano  il loro indefettibile presupposto nella conclamata e indiscutibile universalità dei diritti conseguente al loro radicarsi nelle caratteristiche più profonde ed essenziali  della immutabile natura umana (il giurista Francesco D’Agostino parla  di  “una sorta di universalismo etico, quale mai epoche del passato avevano conosciuto”). Tuttavia proprio questo  loro carattere universale, indiscutibile  nella Weltanshauung di un mondo appena uscito  dall’esperienza terribile di dittature feroci e della guerra,  è venuto a trovarsi in radicale contrasto con la cultura relativista, che, divenuta nel frattempo  egemone quanto meno in Europa e in tutto il mondo  cosiddetto occidentale, nega tanto il diritto naturale quanto  l’universalità dell’etica, oggetto di mere opinioni personali tutte ugualmente valide (o invalide). Ciò non significa però che il relativismo abbia eliminato o  esautorato i  diritti umani, come sarebbe logico attendersi una volta rimossa la loro matrice e base. Tutt’al contrario le élites (intendendo per tali i gruppi detentori del potere  a livello sia delle singole nazioni  sia mondiale o comunque dell’ecumene occidentale) hanno compreso la possibilità di continuare ad utilizzarli, strumentalizzandoli  per la generazione di nuovi diritti, tutti relativi, ma  di volta in volta proposti come assoluti,  per  realizzare non  il  rinnovamento nella continuità cui aspirava l’umanità nel 1948, ma un progetto che mira alla trasformazione  dell’uomo,  presupposto per  la  costruzione della nuova società universale, il “mondo nuovo”, profetizzato, vagheggiato e temuto da Aldous Huxley e da altri scrittori come lui. Di qui  la continua espansione e moltiplicazione dei diritti umani, utilizzati per  attribuire legittimità  e forza alle  molteplici, mutevoli e contraddittorie istanze ad un tempo frutto, causa e motore propulsivo di quella “concezione  dell’esistenza individualistica (esiste solo il singolo con le proprie aspirazioni) e relativistica (non esiste criterio  oggettivo di giudizio esterno al soggetto)[1], che rappresenta la fase  di passaggio dal  vecchio al nuovo mondo.

       Va detto che non tutti, probabilmente per timore di essere  tacciati di “complottismo”,  accettano l’esistenza di un progetto e vedono la mano delle élites dietro mutamenti che preferiscono   attribuire alla  evoluzione dei costumi, ad una sorta di spontaneo darwinismo sociale.  In ogni caso resta innegabile  il quadro di una situazione nella quale la  moltiplicazione di diritti umani, tutti intesi come “assoluti”, cioè indisponibili e insofferenti di limitazioni, determina  una conflittualità che non è solo  quella tradizionale, per la quale ogni diritto incontra nel concreto il suo limite nell’analogo diritto altrui (il mio diritto di proprietà termina dove inizia quello del vicino), ma in via di principio  fra diritti incompatibili per natura (ad esempio il diritto alla vita e il diritto all’aborto) Di conseguenza  non si può non convenire con il filosofo del diritto Gianluigi Palombella  quando scrive che “si sta diffondendo una nuova minaccia  per i diritti delle persone: la negazione dei loro diritti in nome dei diritti stessi[2].

I nuovi diritti e la sovranità dell’Io

       Nonostante  il clima culturale allora  assolutamente diverso (un clima che consentiva alla Dichiarazione del 1948 di  dare per pacifici e universalmente condivisi  concetti, oggi contestati  e relativizzati o addirittura negati come  quelli di “famiglia” e “matrimonio” – art. 16 -,  e di “morale” – art. 29 – )  anche gli estensori  del 1948 si erano  resi conto della  possibilità  della distruzione o della impropria limitazione, non solo nel concreto  della quotidianità, ma anche nella loro astratta enunciazione,  di un  diritto  ad opera di un altro diritto. Di conseguenza,  avevano cercato di porvi rimedio con la disposizione di chiusura di cui all’art. 30: “Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati”. Un avvertimento ampiamente disatteso (volutamente o no)  in una situazione (creata ad arte o spontaneamente determinatasi) caratterizzata dal  moltiplicarsi  di diritti da alcuni definiti “insaziabili”, che si susseguono senza fine e sconfinano nei bisogni[3], e meglio si direbbe  nei desideri o addirittura nei capricci fino a raggrupparsi in un diritto all’autodeterminazione  senza limiti in ogni campo e momento dell’esistenza.  Questa muova forma di autodeterminazione   non si coniuga più con i diritti altrui e non riconosce il vincolo della solidarietà, sicché trapassa in quella che è stata definita “sovranità dell’Io[4]. “Io sovrano” inevitabilmente destinato a tramutarsi  in “Io tiranno” ogniqualvolta l’esplicazione  della pienezza di potere implicita nella sovranità comporta  il sacrificio di altri  diritti non solo nella fase attuativa, nella concretezza della quotidianità, ma, per la necessità della giustificazione, ineludibile in una società almeno formalmente democratica,  anche in via concettuale, nell’universo dei principi.

     Un  Io sovrano individuale per natura (in linea di principio tanti sono i sovrani quanti sono gli individui), ma che il consenso sociale e delle istituzioni facilmente trasforma (è il caso dell’aborto e in un numero crescente di paesi dei diritti che vengono collegati all’omosessualità), per un periodo più o meno lungo,    in un Io sovrano collettivo, quindi tanto più tiranno nei confronti di titolari di diritti divenuti incompatibili.

    Non solo è in atto  una guerra dei diritti (spontanea  o eterodiretta che sia),  ma questa si conclude nella massima parte dei casi  se non con la cancellazione, con la subordinazione  non tanto del diritto  in via di principio più debole, quanto del diritto appartenente ai  più deboli dei soggetti in campo.   Basti pensare al conflitto  fra il diritto  alla vita del concepito  (e, se si affermeranno certe tendenze  sempre più presenti nel dibattito scientifico e politico-culturale del neonato  o addirittura dell’infante) e il diritto all’aborto (molti negano che si possa parlare di un diritto all’aborto, ma  all’obiezione si replica prospettandolo come aspetto del diritto assoluto alla salute e lo si fa comunque prevalere).

     Gerarchia dei diritti e dignità umana

    In un’epoca di transizione[5] come l’attuale da parte di molti si avverte ancora la necessità di  una giusta gerarchia dei diritti umani, individuando quelli che anticipano e fondano gli altri, sicché la loro negazione o postergazione  renderebbe precario il sistema nel suo complesso[6]. Gerarchia tuttavia difficile da stabilire nel concreto, sulla base di una pacifica, generalizzata condivisione, anche perché il diritto  derivato spesso acquista  nei fatti, spesso proprio per effetto della sua novità, un peso pari o superiore al diritto originario che lo ha prodotto. E’, appunto, il caso dell’aborto che i giudici della Suprema Corte  Usa nella sentenza  Roe vs Wade del 22 gennaio 1973 hanno fondato sul diritto alla “privacy”, intesa come diritto  alla libera scelta di ciò che, attenendo  alla sfera più intima dell’individuo, impone una radicale limitazione  dell’ingerenza dello Stato[7]. Il diritto alla “privacy”, in quanto suscettibile di nuovi  impieghi, non è stato affatto accantonato, ma il diritto all’aborto vive ormai di una prepotente ed aggressiva vita propria.

     Nella ricerca di un criterio di bilanciamento dei valori  si è  fatto ricorso, quale  principio supremo, alla “dignità  della persona umana”, che tuttavia per la sua eccessiva indeterminatezza    e conseguente facile manipolabilità si è ben presto rivelato inadeguato a fornire un indiscutibile metro di giudizio. Basti pensare che mentre si ritiene  che il consenso dell’interessato non  basti  a legittimare, in quanto contrario alla sua dignità di persona,  il cosiddetto “lancio dei nani” a guisa di proiettile negli spettacoli da circo[8],  si prospettano invece come ammissibili la cosiddetta “maternità di sostituzione”[9]  (in parole povere e più aderenti a realtà, l’affitto dell’utero) e il commercio degli ovuli e dei gameti.

   In base al principio, generalmente accettato, che  la democrazia è il presupposto dei diritti umani, che solo in ambiente democratico possono nascere e sopravvivere, risulterebbe probabilmente più adeguato allo scopo il suggerimento di collocare al primo posto quei diritti senza i quali  non può esservi democrazia, primo fra tutti la libertà di pensiero, espressione, religione. Una fondamentale pietra di paragone forse non in grado d risolvere tutti i possibili casi di contrasto fra diritti,  ma certamente di escludere la conformità alla Dichiarazione Universale  di quelle  opinioni e di quelle norme che, introducendo reati come il negazionismo e l’omofobia, fondano inoppugnabili realtà di  Stato o confondono  la discriminazione con le libere opinioni in materia di sessualità.

      La guerra all’obiezione di coscienza

     Purtroppo la realtà attuale identifica quasi sempre  il diritto prevalente  nell’ultimo nato, quello più alla moda, quello più funzionale al progetto del momento, che viene quindi sponsorizzato   con l’utilizzo massiccio  dei mezzi di comunicazione di massa per abbattere un pilastro (o anche soltanto un mattone o un tessera) del  vecchio mondo (è in sostanza il fenomeno di trasformazione dell’Io sovrano individuale nell’Io tiranno collettivo). Così il diritto all’obiezione di coscienza, dopo il fulgore e i trionfi del ventennio ’60-’80 del secolo scorso, quando appariva il primo dei diritti umani, è oggi  in fase di netto regresso e  viene addirittura  combattuto come ostacolo alla piena realizzazione di altri diritti. Particolarmente sotto attacco una delle sue principali accezioni: l’obiezione all’aborto, in Italia  espressamente prevista dalla legge a favore del personale sanitario, il cui esercizio si cerca adesso di intralciare e ridurre fino ad  eliminarlo. I più recenti  exploit italici in questa direzione sono rappresentanti dalle “Linee di Indirizzo regionali per le attività dei Consultori familiari” adottate dalla Regione Lazio nel maggio 2014 per obbligare anche i medici obiettori  a rilasciare il certificato di gravidanza ai fini abortivi, a  prescrivere i contraccettivi d’emergenza e ad applicare sistemi contraccettivi meccanici, e dalla decisione del TAR Lazio che, il 10 ottobre 2014, ha respinto il ricorso di alcune associazioni  per la sospensione in via cautelare  del provvedimento.

   Anche se  privo di immediati effetti concreti forse ancor più pericolosa, perché tende  ad una giustificazione teorica di carattere generale  dell’emarginazione dell’obiezione di coscienza, la tesi di chi, come di recente Ugo Ruffolo in un articolo pubblicato il 15 novembre 2014 dal Quotidiano Nazionale, sostiene che in uno Stato laico e democratico questa  può essere ammessa solo nei limiti in cui è prevista da apposite norme di legge, per di più da interpretare in  maniera restrittiva. In realtà è vero l’esatto contrario dal momento che l’obiezione di coscienza è uno dei fondamenti della democrazia. In questo senso la sentenza  n. 467/1991 della  Corte  costituzionale italiana: “A livello dei valori  costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela  delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, a sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal  momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza  che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il  fondamento di valore  etico-giuridico”. In altri termini senza il riconoscimento dell’obiezione di coscienza diritti inviolabili come la libertà di opinione e di religione sarebbero  parole vane.

     Altrettanto e forse più significativa (comunque più recente) la decisione  del 7 luglio 2011 in causa Bayatyan v. Armenia, con la quale la  Grande Camera della Corte di  Strasburgo in riforma della sentenza di primo grado (21 ottobre 2009) ha riconosciuto al coscritto armeno  Vahan Bayatyan, testimone di Geova,   il diritto all’obiezione di coscienza contro il servizio militare. Difatti con questa decisione non solo è stata ribaltata la precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia, che riteneva tale forma di obiezione  estranea all’art. 9 della Convenzione europea  dei diritti dell’Uomo (che sancisce la libertà di pensiero, coscienza e religione)  in riferimento all’art. 4 (che,  nel vietare,   schiavitù e lavoro forzato, espressamente esclude che sia tale  “ogni servizio di carattere militare” o quello sostitutivo) , ma il diritto all’obiezione è stato riconosciuto  in assenza di qualunque  disposizione della legislazione armena che l’ammettesse e proprio in nome dei principi fondanti della democrazia, per i quali l’obbligo di svolgere  attività contrarie alle proprie convinzioni costituisce una interferenza “non necessaria in una società democratica”.

     Sentenze che potrebbero  dissipare  i timori evidenziati  all’inizio del paragrafo se, alla luce di quanto si è detto a proposito della aggressiva insaziabilità dei cosiddetti “nuovi diritti”, non fosse che entrambe le sentenze non riguardano l’aborto, vero e proprio totem dell’attuale “pensiero unico”, ma l’obiezione al servizio militare, che non gode invece di particolari simpatie presso l’opinione pubblica occidentale, sicché rispetto a questo  l’obiezione di coscienza può conservare la posizione di diritto gerarchicamente  prevalente.

          Promozione e controllo giudiziari[10]

       Il sistema seguito sia per  creare  nuovi diritti sia per depotenziare quelli divenuti (per l’Io tiranno) inutili o dannosi inizia nella maggior parte dei casi con quella che si potrebbe chiamare una “seminagione culturale”, quasi sempre di basso livello, ma efficace, perché diffusa dalla quasi totalità dei mass-media e supportata  da nomi famosi della  cultura, dello spettacolo, della scienza e dello sport. Quando il terreno è ben preparato si può fare ricorso  ai sistemi della democrazia rappresentativa con il varo di una legge ad hoc. Così per l’introduzione del divorzio e, in Italia e molti altri paesi, dell’aborto. Si tratta del  sistema in via di principio preferito, perché consente  di replicare ai critici che debbono accettare le regole democratiche  e la volontà popolare e, al bisogno,  di  ridurli al silenzio,   sostituendo alla violenza privata dei facinorosi, cui si fa a volte ricorso (è accaduto molte volte contro gli antiabortisti e, di recente, con le azioni di disturbo delle manifestazioni silenziose delle “sentinelle in piedi”), ma a rischio di riuscire controproducente,    con quella, “legale”,   di Stato (in un numero sempre crescente di paesi chi si azzarda a criticare l’omosessualità anche con la citazione di passi biblici o addirittura chi sostiene l’unicità della famiglia naturale fondata sul matrimonio uomo-donna viene punito col carcere).

      Tuttavia non sempre si può far conto sul consenso  del popolo e conseguentemente  i suoi rappresentanti  possono essere  resi esitanti  dal timore della mancata rielezione. Anzi può addirittura accadere che i parlamenti mettano in dubbio  risultati che si credevano definitivamente acquisiti.  In questi casi, come quando si tratta di introdurre un nuovo diritto che non si è riusciti a ottenere dalla politica, diviene fondamentale il ricorso  alla élite giudiziaria, in particolare (ma non solo)  dei magistrati delle Corti Alte, Supreme e Costituzionali, La magistratura, anche quando non vi è evidenza di contrasto fra la situazione normativa ritenuta insoddisfacente e la Dichiarazione dei diritti umani, è sempre in grado, facendo leva  sull’interpretazione evolutiva della stessa   Dichiarazione,  di quelle successive e delle Carte costituzionali, di enucleare nuovi diritti fino a quel momento   non esplicitati, di porre  riparo, cassando come illegittime le relative norme,  alle  iniziative della politica  definite dalla cultura dominante   “passi indietro” o “ritorni all’oscuro medioevo”. Si è già ricordata la sentenza del 1973, con la quale la Corte Suprema degli Usa ha di fatto creato il diritto di aborto,. La stessa Corte nel giugno 2013 ha dichiarato incostituzionale la legge federale Defense of Marriage Act, che definiva il matrimonio esclusivamente come unione  tra un uomo e una donna, e  nell’ottobre 2014 ha respinto i ricorsi contro i matrimoni omosessuali proposti da cinque Stati della Federazione (Virginia, Oklahoma, Wisconsin, Utah e Indiana).

     Molto simile, nonostante le differenze ordinamentali, la situazione in Europa e in Italia. Per limitarsi agli esempi più recenti del nostro Paese, vanno ricordati due  interventi della  Corte costituzionale. Il primo (sentenza  n. 170 del 12/4/2014) riguarda il matrimonio   di una coppia bolognese  automaticamente annullato e “cancellato” dagli atti dello stato civile a seguito del mutamento di sesso  del marito. La  Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme in materia “nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore”. In altri termini la Corte ha riconosciuto che attualmente, e fino a diversa determinazione del legislatore, matrimonio è unicamente l’unione  fra uomo e donna, ma il legislatore, per non violare il diritto di tutti alla famiglia  deve prevedere  “altre forme di convivenza registrata”  che assicurino  adeguata tutela ai conviventi, e deve farlo, come specificato (imposto) in motivazione, “con la massima sollecitudine”.

    La seconda (n. 162 del 12/4/2014), ha dato via libera anche in Italia alla “fecondazione eterologa”, abrogando per illegittimità gli articoli della legge  19/2/2004 n.40, che la vietavano.   Grandi e manifesti, ancor più che nel primo caso, lo sconcerto del mondo cattolico e l’entusiasmo di quello “laico”, ma in realtà decisione a esito pressoché scontato, perché sul principio si era già pronunciata  la Grande Camera  della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza 3/11/2011 n.57813, S.H. e altri v. Austria) bocciando la legge austriaca che, come la “40”, ammetteva la fecondazione omologa  e vietava l’eterologa. “Per la Corte la distinzione fra  fecondazione omologa ed eterologa provoca una discriminazione fra coppie che hanno problemi di sterilità, una violazione del loro diritto alla vita familiare, che è comprensivo del diritto ad avere un figlio”.Così il Cardia, che commenta “Il passaggio logico sconvolge il sistema, perché, senza che alcuna norma al mondo l’abbia mai previsto, la Corte decreta  che il rispetto della vita privata implichi il diritto ad avere un figlio e questo diritto prescinde dai presupposti necessari, e dai diritti del figlio[11]. Sostanzialmente analoga la motivazione  della nostra Corte costituzionale (“La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia  assolutamente  sterile o infertile, concernendo la sfera  più intima e intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile quando non vulneri altri valori costituzionali”). Vi si trova forse una maggiore enfasi sulla privacy, che la rende quasi sovrapponibile alla sentenza  Roe vs Wade, consentendo qualche  non peregrina riflessione  sulla perfetta compatibilità con la cultura relativista di  un diritto umano, la privacy, che  attribuisce il potere sia  di ricorrere ad ogni mezzo per la “fabbricazione” di un figlio, sia di sopprimere  quello naturalmente concepito. In entrambi i casi  prescindendo totalmente dai diritti del figlio.

      La cancellazione dei soggetti deboli

    Come scrive Carlo Cardia “da soggetto di diritti, il figlio è divenuto oggetto dei diritti  di un altro[12]. Un fenomeno sempre più frequente, perché all’indebolirsi di un diritto  di fronte ad altri  più forti ed aggressivi  segue una sempre più evanescente presenza del suo titolare nella platea giuridica. Con ogni probabilità è vero il contrario: è la debolezza del titolare nei confronti dei soggetti forti a tradursi in un progressivo accantonamento dei  suoi diritti, che nemmeno il tentativo di stabilire una gerarchia fondata su valori assoluti come quello della  dignità umana  riesce a salvare.  Come si è osservato, la dignità umana  può impedire, nonostante il  consenso degli interessati, il lancio dei nani, perché non vi sono soggetti forti interessati al mantenimento dello spettacolo, ma non  blocca le pratiche, ben più disastrose ed umilianti (ed ugualmente a motivazione economica per il consenso[13]),   connesse con la maternità surrogata, gli uteri in affitto, il commercio degli ovuli, indispensabili per soddisfare  il  nuovo diritto umano al figlio,  alla genitorialità  di soggetti forti, ma privi di una genitorialità naturale.

       L’erosione dei diritti dei soggetti deboli che hanno la sfortuna di trovarsi in contrasto con la realizzazione dei desideri dell’ Io sovrano, specialmente se collettivizzato, prosegue instancabile con molti attori che, spesso, proprio in nome della dignità umana, che renderebbe le vite deboli indegne di essere vissute,   preparano il terreno ad ulteriori apparizioni e sparizioni.  Anzi, dal momento che  non è sempre facile fare sparire o totalmente disapplicare diritti che  comunque stanno scritti in solenni dichiarazioni universali (comunque le più difficili, come quella dei diritti del fanciullo del 1959 o la  Convenzione sull’eliminazione delle discriminazioni nei confronti della donna del 1979, sono state di fatto  accantonate), sempre più spesso  la strada preferita è quella   della sparizione  di una parte dei loro titolari: pratica che ha il vantaggio di lasciare sussistere il diritto, riducendo però la platea dei beneficiari.  Strada senza dubbio impervia specialmente quando è in gioco il più fondamentale dei diritti: quello alla vita. ma più facilmente percorribile di quanto potrebbe sembrare  una volta ammesso il diritto  all’aborto e, per una solo apparente contraddizione, riconosciuta l’innegabile  verità  (inizialmente contestata) della  natura umana del concepito fin dal primo momento dell’annidamento dell’ovulo fecondato. Per  un numero crescente di autori (scienziati e giuristi) è proprio questa natura a legittimare il passaggio dall’aborto all’infanticidio e all’eutanasia. Si sostiene difatti che  non basta  la natura di essere umano, l’appartenenza alla specie Homo sapiens. per essere “persona”, cioè titolare di diritti. Sempre maggiore spazio anche nei mass-media e nelle dissertazioni dei maitres à penser e dei politici  trova la tesi  che per essere considerati tali occorrono  l’autocoscienza, la razionalità, la capacità di autodeterminarsi. Quanti  non possiedono ancora queste capacità o le hanno perdute (non solo i feti, ma i neonati, gli infanti, i ritardati, i malati  mentali gravi, gli individui in coma  irreversibile, gli affetti  da alzheimer o da demenza senile) sono sì esseri umani, ma non sono persone. In ogni caso sopprimerli (aborto, infanticidio, eutanasia)  non è come sopprimere un essere umano adulto, cosciente di sé. All’inizio del processo una piccola differenza, che ben presto evolve in totale estraneità sicché un’identica azione, la soppressione di un essere umano, assume la veste giuridica ora del delitto, ora del diritto.

     Prendendo spunto da scienziati e pensatori autorevoli  quali  Peter Singer,  H. Tristan Engelhardt, John Harris, a fine  2006 il britannico Royal College of Obstetricians  and  Gynaecologists ha lanciato la proposta di autorizzare l’eutanasia  dei neonati disabili. In questi termini il progetto non è ancora andato in porto, ma in Olanda è stata consentita, a loro richiesta,  l’eutanasia dei minori  di età superiore ai 12 anni,  e il 13 febbraio 2014 il Belgio ha approvato una  legge che, in caso di sofferenza estrema o di malattia terminale attribuisce ai genitori e al medici curanti  il potere di soppressione  dei minori di qualsiasi età purché muniti di sufficiente discernimento (accertato da psicologi e psichiatri) per avere consapevolezza  delle proprie condizioni e delle procedure eutanasiche. La situazione è, quindi, tutt’altro che  negativa per un prossimo accoglimento   anche  della richiesta degli ostetrici e dei ginecologi britannici, che hanno sottolineato come     l’eutanasia del neonato  possa limitare il ricorso all’aborto tardivo col fornire ai genitori dati certi per la loro decisione.  Difatti – affermano – nei casi di sospetto ma non di certezza di un grave handicap del feto i genitori potrebbero  portare a termine la gravidanza, controllare le effettive condizioni del bambino per tenerlo se è sano e altrimenti ucciderlo. Dopo tutto si tratta solo di dare veste giuridica alla tesi che non tutti gli essere umani sono persone. E’ già accaduto e non solo nel mondo antico o in paesi barbari e incivili. Nel 1857 la Corte Suprema degli Stati Uniti  stabilì ( causa Dredd Scott v. Sanford) che gli individui di origine africana (e i loro discendenti) importati negli  Stati Uniti e trattati come schiavi non potevano essere considerati “legali” (cioè, diremmo oggi, persone, titolari di diritti) e mai avrebbero potuto diventare cittadini degli States[14].

 Francesco Mario Agnoli

* Tratto dalla rivista “Studi Cattolici”.

[1]

                 C.Cardia, Le metamorfosi  dei diritti umani. Dal nuovo Sinai di Hannah Arendt alla nuova  torre di Babele in Iustitia n. 1/14 p. 9.

[2]     G. Palombella, The Abuse of Rights and the Rule of Law in  A. Sajo (a cura di ) Abuse: the dark Side of fundamental Rights, Utrecht 2006, p.5 ss.

[3]     C. Cardia, op. cit. p. 14

[4]     Ivi, p. 19.

[5]     Si hanno difatti anche documenti in controtendenza come la  Risoluzione a tutela della famiglia (definita “unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei bambini, deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui ha bisogno per poter assumere in pieno il suo ruolo nella comunità”) approvata (a maggioranza – 26 sì, 14 no, 6 astensioni -) il 25 giugno 2014 a Ginevra dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (hanno votato contro gli statunitensi, gli europei (Italia inclusa) e in genere i paesi dell’ecumene occidentale dopo avere a lungo e invano tentato di fare includere modelli “familiari” diversi  dalla famiglia naturale.

[6]     C. Cardia, op. cit. p.10.

[7]     In realtà  né la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo né la costituzione americana prevedono espressamente il diritto alla privacy,  a sua volta  creato o, se si preferisce, portato in luce  da una sentenza  del 1965 della magistratura Usa nella causa Griswold v. Connecticut (cfr. F. M. Agnoli, Giudici in Italia, tra controllo & fantasia, in Studi cattolici n. 601/2011 p. 194 ss.).

[8]     Conseil d’Etat 27 ottobre 1995 n. 143578.

[9]     S. Rodotà, Il diritto di avere diritti,  Laterza, Roma-Bari 2012, p. 284

[10]    In riferimento a questo paragrafo cfr. anche il mio I signori del diritto & il popolo sovrano in Sc  novembre 2014 (pp. ) nel quale  mi riservavo  un approfondimento sul tema dei diritti umani  e del loro stravolgimento e moltiplicazione attraverso lo strumento giudiziario.

[11]    Op. cit. p. 21 s.

[12]    Ivi, p.22

[13]    Altroché la solidarietà femminile di cui, secondo alcuni autori, sarebbe espressione la maternità surrogata!

[14]    La sentenza stabili anche  che né la Federazione né i singoli Stati potevano vietare la schiavitù in alcun territorio dell’Un ione, così offrendo un rifugio agli schiavi fuggiaschi, perché in tal modo i proprietari di schiavi  sarebbero stati privati di una loro proprietà senza la garanzia di un  giusto processo.

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