Il referendum abrogativo svoltosi domenica 17 febbraio 2016, vertente sull’abrogazione di una norma che prevede la possibilità che le estrazioni di gas e petrolio entro le 12 miglia possano essere eseguite fino al loro esaurimento, è stato un’occasione per “misurare” la qualità della riflessione politica in Italia. L’istituto del referendum abrogativo ha di partenza un forte carico “pro Sì”, per sua natura, essendo abrogativo: lo scopo è eliminare dall’ordinamento giuridico una norma di primo grado (di legge o di atto avente forza di legge). Il referendum abrogativo si propone con cinquecentomila elettori o da parte di Cinque consigli regionali e passa dalla Corte di Cassazione per il vaglio di legittimità e dalla Corte Costituzionale per quello di ammissibilità: il primo comitato che si costituisce è, conseguentemente, quello per il Sì, che coglie l’animo della proposta referendaria, mentre successivamente si organizzano, eventualmente, i Comitati per il No e quelli per l’astensionismo. La qualità del contenuto del dibattito politico, quindi, è fondamentale: viceversa, un continuo botta e risposta impostato sulla banalità rischia di rendere ancora più complicata la riflessione su temi normativi che, quasi sempre, sono caratterizzati da un estremo tecnicismo, pur avendo dei risvolti decisivi sulla società.
Dal #Ciaone ai talebani dell’ambientalismo.
Il primo aspetto che si potrebbe considerare è, quindi, quello del contenuto delle motivazioni sollevate dalle parti nella campagna referendaria, favorevoli e contrarie al quesito. Entrambe, si potrebbe dire, hanno decisamente esasperato i toni prescindendo dal dato normativo: ci sono stati tanti scontri, come quello fra la maggioranza e la minoranza Dem, fra la maggioranza e la minoranza parlamentare e soprattutto fra i sostenitori dell’industrialismo e quelli dell’ambientalismo.
Soprattutto in quest’ultimo caso, si deve sottolineare che gran parte del dibattito non ha avuto nulla a che fare con il quesito referendario: si sono visti manifesti con mari inquinati e trivelle sbarrate e altri raffiguranti mari puliti e pesci felici. Nessuno, però, è arrivato al cuore della vicenda, riguardante semplicemente la possibilità che le aziende che già operano le estrazioni potessero continuare a farlo “ad libitum”, oppure tendenzialmente “ad libitum”, con dei controlli concessori ogni tot di tempo (30 anni + 20 ecc…). Di conseguenza, non era in gioco la permanenza o meno delle trivellazioni e non era coinvolta nessuna ragione ambientale, almeno nel breve periodo o in prima istanza.
Cosa ci sarebbe stato di più normale se non il ritorno alla vecchia normativa, che prevedeva tali controlli? Nessun posto di lavoro perso, nessuna credibilità internazionale svanita: le aziende avrebbero continuato ad operare seppur con un naturale scadenzario di controlli amministrativi. Che Stato è quello che concede il proprio mare ad aziende (molte delle quali straniere), praticamente disinteressandosene e riconoscendo un ammontare bassissimo delle royalties? Probabilmente uno Stato frutto di una classe politica che riconduce tutto al tifo da stadio e alla logica dei vincitori e degli sconfitti, anche nella più pacifica e formale delle questioni giuridiche in ballo.
Siamo sicuri che se il dibattito politico si fosse concentrato sui dati reali si sarebbero avuti gli stessi risultati?
L’astensionismo è una cosa seria, ovvero l’“andare al mare”, di craxiana memoria.
Ha vinto l’astensionismo del #Ciaone. Ma cosa vuol dire “astensionismo”? O meglio, qual è il senso dell’astensione? Anche per questo aspetto la vicenda del referendum sulle trivelle ha (ancora inutilmente) alterato i toni della questione e ha permesso di capire in che modo alcune regole giuridiche siano spesso svuotate dal loro significato.
Non è questa la sede per approfondire le ragioni e le motivazioni dell’eventuale legittimità dell’astensione, ma basta solo rilevare che l’art. 75 Cost. parla di validità del referendum solo se è “raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”, lasciando di conseguenza aperta la possibilità di una non approvazione dello stesso passando per questa via.
Ecco, la campagna referendaria ha travisato così tanto l’astensione, soprattutto da parte governativa (evitando di fissare il voto in concomitanza delle elezioni amministrative e, in alcuni casi, anche invitando esplicitamente a non votare), finendo per sminuire tale possibilità.
Se si prova a fare mente locale, ci si può accorgere come nell’ottica del Governo l’invito all’astensione sia stato fatto coincidere con una posizione contraria all’abrogazione. Ciò ha portato alla comodità di poter boicottare a priori la votazione perché, se anche i contrari fossero andati a votare, sarebbero stati sicuramente minori dei favorevoli, lasciando vincere questi ultimi.
Ma ci sarà un motivo se la Costituzione lascia implicitamente la possibilità di tre scelte (Sì, No o astensione) e non di due (Sì oppure No/Astensione).
L’astensione, in realtà, è semplicemente la posizione di chi vuole lasciare decidere la democrazia indiretta su determinate vicende, non valutando adatto lo strumento referendario. Nell’occasione del referendum sulle trivelle, invece, tale posizione è stata forzatamente fatta coincidere con il No, finendo per boicottare il referendum.
Il Paese “reale” e il Paese “virtuale”.
L’ultimo punto da rilevare è l’abisso che separa il Paese dei social network da quello reale. Si potrebbe dire, con un po’ di ironia ma anche con la certezza di affermare l’ovvietà, che su Facebook e su Twitter si è ampiamente raggiunto il quorum. I social network, caratterizzati soprattutto da una presenza giovanile, sono stati i diretti incanalatori delle ragioni “ambientaliste” che, come si è detto, avevano solo una minima (seppur non del tutto infondata) giustificabilità nell’oggetto referendario.
Per le strade e per i seggi elettorali, invece, ha lasciato il segno una forte disillusione al quesito referendario, in piena linea con la crisi del voto che sta caratterizzando le ultime tornate elettorali.
Gli italiani hanno capito davvero poco del cuore del quesito referendario e solo indirettamente hanno colto la palla al balzo della proposta del Governo, ovvero il non andare a votare esprimere una posizione contraria. In primo luogo, infatti, ha soprattutto inciso il disinteresse sociale, che inizia ad assumere caratteristiche inquietanti.
Il Paese “reale” e quello “virtuale”, quindi, per ragioni diverse hanno subìto i medesimi effetti della distorsione e dell’alterazione del quid referendario.
Il risultato è che l’Italia continuerà ad avere delle royalties bassissime con delle aziende (italiane ma anche, per ciò che ci interessa, straniere) che proseguiranno nell’estrarre dal mare italiano risorse energetiche a proprio piacimento dal punto di vista temporale: al contrario, avrebbero potuto farlo con dei controlli amministrativi, come è naturale in ogni concessione.
A questo punto sorge la domanda: da questo referendum non abbiamo forse perso un po’ tutti?
Giorgio Romano