Ho già avuto occasione di occuparmi su questo sito, da giurista, dello jus soli. La sanguinosa strage di Parigi, gli eventi più o meno collegati che ne sono seguiti e le conseguenti baruffe fra politici, opinionisti e intellettuali mi inducono a ritornare sull’argomento, questa volta da cittadino.
A chi (alquanto follemente, va detto) addebita la responsabilità degli avvenimenti a tutti i musulmani e a chi (in questo caso non senza qualche ragione) chiede più controllo e più rigore sull’immigrazione, i governi e i loro sostenitori obiettano che è inutile chiudere le frontiere, perché molti dei terroristi sono già dentro, nati e cresciuti in Europa, anzi cittadini europei (nella circostanza francesi e belgi, ma il boia Jihadi John era inglese e forse non mancano gli italiani).
Senza con questo associarsi a chi pretende la totale chiusura delle frontiere, non ci si può però esimere dal rilevare che si tratta di un argomento pericoloso, di un coltello a doppio taglio che può rivoltarsi contro chi lo usa. Inevitabile chiedersi come mai questi francesi (parliamo soprattutto di loro trattandosi di Parigi), belgi e inglesi siano così pronti a spargere il sangue dei loro concittadini. Certo, anche lasciando da parte le faide comunali, le lotte politiche, le guerre civili per limitarsi agli atti terroristici degli anarchici di fine ‘800 o delle brigate rosse ai nostri giorni, l’uccisione di cittadini da parte di cittadini è un evento tutt’altro che raro nella storia. Tuttavia in tutti quei casi le bombe e le stragi rispondevano ad un sia pur folle disegno di miglioramento della propria città, della propria nazione. Gli autori si muovevano nell’ambito della civiltà nella quale erano nati e cresciuti Questi “cittadini che sbagliavano”, pur fermo il giudizio, negativo o positivo a seconda dei casi, potevano essere definiti, e tali comunque erano nella loro convinzione, patrioti, così come lo erano in uguale misura i guelfi e i ghibellini o i partigiani e le camicie nere.
Nel caso di questi francesi e belgi di cui si tratta non è affatto così. Anzi tutto il contrario. La cittadinanza su cui si insiste tanto non è che un’etichetta formale appiccicata alla meno peggio sopra una realtà totalmente diversa. Si potrebbe dire: sotto la cittadinanza il nulla, o più esattamente una realtà totalmente diversa da quella che la cittadinanza dovrebbe garantire. Magari questa cittadinanza loro formalmente conferita l’avranno anche utilizzata per usufruire dei benefici assicurati dallo Stato sociale (i diritti!), ma certamente non si sono mai e poi mai sentiti né belgi né francesi, tanto meno europei. Mai hanno condiviso tradizioni e culture cui si sentono non solo estranei, ma che considerano nemiche, se non addirittura ripugnanti (“Parigi capitale dell’abominio e della perversione” ha affermato la centrale del terrore nel proclama di rivendicazione).
Fra le altre cose i paesi europei, a cominciare proprio dalla Francia, pagano l’eccessiva larghezza con la quale hanno concesso e continuano a concedere il titolo di cittadino. Ovviamente non si tratta solo dello jus soli, ma questo criterio di attribuzione della cittadinanza (e della nazionalità) è più di ogni altro fattore rivelatore di una profonda incomprensione da parte dei governanti europei di cosa significhi essere cittadino, una qualità (o qualifica) che oggi ha ben poco a che vedere col luogo nel quale per caso si è nati e magari anche cresciuti. Va sottolineato l’oggi, l’attualità del fenomeno, perché se il semplice fatto occasionale della nascita in un luogo da genitori che non vi appartengono, non seguito da un sufficientemente lungo periodo di permanenza ha sempre significato ben poco, quando le tradizioni erano ancora forti e il multiculturalismo non esisteva nemmeno come parola, il luogo dove si vivevano l’infanzia e la prima giovinezza lasciava un’impronta indelebile, determinava l’appartenenza ad una cultura, consentiva di divenire eredi, anche se non per geni, di una civiltà millennaria. Oggi non è più così. I ghetti del multiculturalismo consentono, o, forse più esattamente, impongono di vivere in una realtà socio-culturale completamente diversa da quella formalmente e burocraticamente segnalata dalla cittadinanza e dal passaporto, in definitiva l’unica cosa ”nazionale” che queste persone,m cresciute di fatto in un’altra cultura, possiedono.
Le cause del fenomeno terrorista con il quale l’Europa è oggi costretta a fare i conti sono varie e complesse e certamente lo jus soli e la facile elargizione della cittadinanza vi svolgono un ruolo modesto, che assume però maggiore rilevanza quando si tratta della partecipazione al terrore dei cosiddetti foreign fighters anche quando operano nel luogo di residenza (parlare di patria, come pure si fa da troppi mass-media, sarebbe del tutto improprio). Le società europee conservano tuttora caratteristiche diverse da quella nord americana, dove forse lo jus soli mantiene, anche se in misura sempre meno rilevante, una sua ragion d’essere, del genere dell’antico “civis romanus sum” (un discorso che riguarda gli Usa, ma che meriterebbe di essere approfondito). In Europa la cittadinanza per comportare appartenenza reale e non meramente formale e burocratica presuppone, con buona pace dei cultori del concetto di cittadinanza inclusiva affermato dalla rivoluzione francese, che la riduce alla titolarità di qualche diritto, una profonda immedesimazione culturale senza la quale non vi può essere nemmeno autentica accettazione, magari nella critica anche dura, delle pubbliche istituzioni, delle regole del sistema giuridico-ordinamentale nel quale si vive.
A questo punto inevitabile chiedersi perché mai in Italia si voglia attribuire la cittadinanza (l’operazione è quasi compiuta) in base allo jus soli, come mai una volta di più ci si rifiuti di imparare dagli errori di chi per affermare l’ideale inclusivo di cittadinanza pretende di azzerare identità e tradizioni. Senza dubbio non si risolverà il drammatico problema del terrorismo, ma lasciare le cose come stanno e fare dell’attribuzione della cittadinanza il riconoscimento, la presa d’atto di una già avvenuta, autentica partecipazione culturale sarebbe comunque un passo nella direzione giusta, quanto meno della comprensione del fenomeno e dei rimedi.
Francesco Mario Agnoli
LA FESTA DI CRISTO RE. Di Francesco Mario Agnoli.
Certamente non è per caso che la dottrina sulla regalità sociale di Cristo, che ha portato all’istituzione, nel 1925 ad opera di Pio XI (enciclica