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UNA RISPOSTA A STANDARD & POOR’S SUL DECLASSAMENTO DELL’ITALIA. di L. Copertino

Chiedendo scusa se abuso della vostra pazienza, spero abbiate quella di leggere questo commento all’articolo pubblicato da “Il Fatto Quotidiano”, del 05.12.2014, sul declassamento del rating italiano da parte di Standard & Poor’s.

Senza fare della polemica politica meramente giornalistica, quella che segue è una analisi di cosa dice e, soprattutto, di cosa non dice, o dice tra le righe, S&P.

Innanzitutto si osservi il ” secondo i nostri criteri”. Che dice tutto o almeno molte cose. Quali siano poi i “loro criteri” è ben noto …

In secondo luogo

1)”S&P si aspetta che il governo Renzi attui le riforme necessarie a ridare competitività all’economia mantenendo livelli di spesa sufficienti a contrastare l’eccesso di debito. Una mano arriva anche da Mario Draghi: dopo le sue dichiarazioni di giovedì, gli analisti di S&P sono convinti che la Bce “lavorerà per riportare a livelli normali” l’inflazione italiana e quella dei Paesi europei che ne sono i principali partner commerciali.”

S&P non spiega come si possano mantenere livelli di spesa sufficienti a contrastare il debito quando lo Stato, per spendere, deve indebitarsi con i “mercati finanziari” a prezzi, interessi, alti soprattutto se lo Stato italiano è considerato poco affidabile. S&P loda Mario Draghi perché ha intenzione di riportare l’inflazione a livelli normali. Bene: ed allora perché non dire che le politiche di austerità, fin qui seguite, hanno ingenerato deflazione – che S&P e la BCE, per non smentire il dogma ufficiale, si ostinano a chiamare “bassa inflazione” – con la conseguente contrazione dell’economia e l’alta disoccupazione? In verità qui i “venerati maestri” stanno cercando di correre, tardivamente, ai ripari smentendo, senza dirlo e solo parzialmente, il dogma imperante dell’austerity. In tal senso va anche il piano Juncker sugli investimenti pubblici europei. Solo che invece dei 315 miliardi ipotizzati ne saranno solo 21 e saranno messi in campo dalla BEI (Banca Europea degli Investimenti) la quale però non stampa euro ma se li procura. Ed indovinate da chi? Avete capito: dai “mercati finanziari”! Impegnandosi a restituirli con tanto di interessi al prezzo di mercato. Per quanto riguarda quelli che chiamano i nostri “Partner commerciali” ci si deve intendere se le parole hanno ancora un senso e la logica esiste ancora: un partner è un socio, un collaboratore, insomma qualcuno che con noi condivide gioie e dolori in spirito di comunità. Orbene, nell’UE i nostri “partner commerciali” altro non sono che gli altri Paesi che ci fanno concorrenza sui mercati delle esportazioni. Il principale di questi, la Germania, attua una politica nazionale non certo concertata con i partner commerciali europei! Una politica neomercantilista, ossia ferocemente aggressiva verso i concorrenti, sicché se da un lato produce cose di qualità dall’altro lo fa a costi (del lavoro, in particolare) ridotti avendo già introdotto nel 2003 il Jobs act, con deroga, autorizzata anche da noi, del limite del 3% di deficit stabilito a Maastricht. La deroga al 3% è servita alla Germania per sostenere, a carico del bilancio statale, ossia aumentando la spesa pubblica, i costi dei sussidi di disoccupazione previsti dalla “flexurity”: certo poi, quando le esportazioni hanno iniziato a riempire la Germania di surplus finanziario, anche la spesa pubblica, in eccesso rispetto al 3%, è rientrata. Tutta questa operazione, attuata dal governo tedesco socialdemocratico (non, si badi, da quello conservatore) è stata un’operazione – alla faccia del modello interclassista e sociale europeo – effettuata a spese del lavoro ed a vantaggio esclusivo del capitale. Di fronte a questo aggressivo mercantilismo tedesco, l’Italia, non avendo più sovranità monetaria ed in mancanza di una Confederazione europea perequativa (uso il termine “confederazione” e non quello “federazione” non a caso: la confederazione è più sussidiaria nel contemperare il sovranazionale ed il nazionale, senza artificiali compressioni), non ha potuto più rispondere con la svalutazione della moneta. Una risposta che i tedeschi ci rimproveravano come “sleale” ma che in realtà, a fronte della loro aggressività, era solo una difesa che non ci costringeva a tagliare sui costi del lavoro, già bassi. Questo ci esponeva all’accusa farisaica di “vivere al di sopra delle nostre possibilità”, perché invece, per loro, noi avremmo dovuto vivere come paria coloniali del loro impero. Pare che siano riusciti a convincerci delle loro “ragioni” ed infatti ora Renzi, questa “entusiasmante” nuova sinistra, sta applicando le loro ricette.

2) “Il ritocco (della stima del rapporto tra deficit e Pil) è legato al calo della previsione del Pil medio tra 2014 e 2017, passato da +1% a +0,5 per cento, all’aumento delle spese primarie compresi gli interessi sul debito fino al 2015 e alla riduzione delle entrate fiscali”.

S&P affermando queste cose dovrebbe, se i suoi tecnici avessero onestà intellettuale e non fossero meri propagandisti del dogma imperante, concludere con una dichiarazione di fallimento delle politiche attuali. Il Pil cala perché cala la domanda, questa è calata perché manca reddito, il reddito manca a causa della disoccupazione, la disoccupazione deriva dalla contrazione della domanda che costringe le imprese a chiudere per contrazione dei profitti, tutto è stato innescato dalle ripercussioni del crack di una finanza privata lasciata libera di speculare senza regole e quindi autoreferenziale ossia non al servizio dell’economia reale. Anche un liberale non può non convenire che il mercato senza regole è solo saccheggio. Il libero mercato ha di nuovo dimostrato, come già in passato ma della storia nessuno sa fare tesoro per non ripetere gli stessi errori, di avere in sé, proprio nel principio del laissez faire, i presupposti stessi del suo avvitamento e fallimento. Le spese primarie aumentano a causa esclusivamente, o almeno prevalentemente, per l’aumento degli interessi sul debito. Infatti l’Italia, insieme alla Germania, ha un saldo primario, ossia la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito, in avanzo ma a differenza della Germania, che i “mercati” considerano credibile (perché fa politiche anti-inflazioniste, invero fino a sconfinare nella deflazione, e di compressione del costo del lavoro), l’Italia, che non ha obbedito finora ai “mercati”, invece,è costretta a pagare alti interessi per piazzare i suoi titoli di Stato sul mercato, non avendo più una propria Banca Centrale che monetizza il suo fabbisogno statale. Da qui – e non solo dagli sprechi che pur ci sono e devono essere fortemente combattuti – il nostro alto indebitamento. Un indebitamento che è un vincolo esterno, favorevole ai mercati e non certo al popolo italiano, che l’UE creduto di risolvere imponendoci il “pareggio di bilancio” in Costituzione (cosa che ha fatto il governo Monti per conto della Germania).

3) “S&P contesta anche i notoriamente insufficienti risultati della spending review, che negli auspici del governo avrebbe dovuto garantire entro il 2016 32 miliardi di euro di tagli, pari al 2% del Pil. L’agenzia non è convinta di queste cifre, perché “nel medio termine mancano i dettagli del piano” e il rischio che i risparmi restino sulla carta è reale, soprattutto a causa dell’inflazione bassa”.

La spending rewiew avrebbe potuto avere un senso sano laddove si fosse trattato di colpire gli sprechi. In realtà, il Piano Cottarelli (FMI) prevedeva una falcidia assoluta di ogni spesa statale, senza troppo distinguere tra spese correnti e di investimento e senza troppo preoccuparsi della sorte, ad esempio, dei dipendenti delle società pubbliche partecipate che, stando al Piano, ben potevano finire nel limbo della disoccupazione e sottoccupazione. In una situazione di contrazione dell’economia si può ben immaginare quali “benefici” effetti avrebbe avuto una tale scelta. Ed è per questo che Renzi, almeno una volta con scelta ponderata, non ha accolto il Piano Cottarelli nella sua versione integralista. La verità è un’altra e qui invoco la mia esperienza, ormai oltre ventennale, di funzionario pubblico. Fino agli anni ’90 i servizi pubblici potevano essere gestiti o direttamente dagli enti pubblici oppure attraverso “aziende”, le famose “municipalizzate” che però non erano società quotate sul mercato ma una sorta di longa manus dell’ente che le annoverava nel suo stesso patrimonio. In altri termini le “aziende pubbliche” erano aziende strumentali che si identificavano quasi del tutto con l’ente che le creava. Con le riforme iniziate negli anni ’90, all’insegna delle “privatizzazioni” e “liberalizzazioni”, sono state introdotte le “società partecipate”, spesso trasformando in esse le vecchie aziende pubbliche. Le partecipate sono vere e proprie società di capitali (società per azioni o a responsabilità limitata), il cui capitale azionario può essere del tutto pubblico oppure misto pubblico/privato oppure prevalentemente privato. Se il capitale è pubblico, interamente o prevalentemente, le partecipate possono essere affidatarie senza gara dei servizi pubblici (sistema “in house”). Inutile dire a cosa è servito tutto ciò: a permettere ai capitali privati, che infatti stanno gradualmente acquisendo prevalenza, di entrare nel “mercato” dei servizi pubblici, ad assicurare posti e prebende ai politici elettoralmente trombati ed agli amici degli amici, a permettere ai politici, proprio mentre le leggi finanziarie imponevano alle Pubbliche Amministrazioni di ridurre e contenere le assunzioni e contrarre la spesa per il personale, di assumere clientelarmente i propri favoriti dal momento che nelle partecipate, in quanto società giuridicamente privatistiche, benché a capitale pubblico o parzialmente pubblico, per assumere non c’era bisogno di concorso pubblico. Questo almeno fino ad una norma, che impose anche alle partecipate il concorso, introdotta da Tremonti intorno al 2010. Naturalmente, le partecipate, riempite di politici e di clienti dei politici, quindi senza un management competente ed efficiente, che avrebbero dovuto operare sul mercato, in regime di concorrenza (salvo il caso del sistema “in house”, guarda caso il più gettonato), si sono tutte ritrovate, ben presto, in difficoltà economica. Per salvarle si è fatto ricorso alle ricapitalizzazione a spese dei bilanci pubblici con aumento del debito improduttivo. Ma – ed è questo che voglio sottolineare ai liberisti – tutto questo è stato l’esito dell’applicazione al pubblico, allo Stato, di logiche aziendalistiche e privatistiche nell’illusione che con tali logiche il pubblico diventasse più efficiente. In realtà lo Stato vive di altra logica rispetto a quella di mercato. La logica statuale è quella della sovra-ordinazione gerarchica che è il fondamento stesso dell’obbligo per lo Stato di osservare la “par condicio” tra i cittadini (il principio dell’accesso per concorso pubblico agli uffici pubblici così come il principio dell’evidenza pubblica, ossia dell’affidamento di lavori e servizi mediante gare d’appalto, sono – cari miei liberali –  principi della tradizione politica e culturale liberale). Il tentativo di aziendalizzare lo Stato ha generato solo maggiori inefficienze ed è servito solo agli interessi privati, compresi quelli clientelari dei nostri politici che sono, tra quelli privati, i peggiori interessi perché partitici e non generali. Il risultato sono le situazioni come “Mafia Capitale”. Carl Schmitt, in proposito, parlava di “potestas indirecta” ossia dell’infiltrazione degli interessi privati e particolari, lobbistici e partitico-sindacali, all’interno dello Stato con prostrazione dell’Auctoritas Politica a logiche anti-generaliste. In questa infiltrazione lobbistica, il grande filosofo giuridico tedesco vedeva un chiaro segno del decadimento della “statualità” che avanzava parallelamente all’avanzare della secolarizzazione di cui vive il mercato.
4) “Giudizio parzialmente positivo sul Jobs Act, “che si propone di affrontare il dualismo del mercato del lavoro italiano”. Secondo S&P è “un segno della volontà del governo di perseguire politiche adeguate per un Paese membro di un’unione monetaria che comprende alcuni dei Paesi esportatori più competitivi”. Servirebbe però anche più contrattazione decentrata, perché oggi il meccanismo di fissazione dei salari ostacola il recupero della competitività. Una maggiore flessibilità del mercato del lavoro potrebbe, per S&P accelerare un adeguamento salariale. Ma l’agenzia segnala anche come la riforma nel breve periodo non creerà occupazione, e “di conseguenza, la già elevata disoccupazione potrebbe peggiorare fino a quando non ci sarà una ripresa economica sostenibile”. Nel medio termine, tuttavia, le misure potrebbero essere efficaci, se applicate anche al secondo livello di contrattazione. Continuano poi a pesare i soliti fattori che scoraggiano gli investitori stranieri a puntare sull’Italia: servizi non riformati, sistema giudiziario lento e costoso, alte spese legali e amministrative, elevati costi di licenziamento per i dipendenti a tempo indeterminato. Inoltre il costo all’ingrosso dell’energia rimane sostanzialmente superiore, anche a causa dei monopoli presenti nel settore”.

Le politiche adeguate per un Paese membro di un’unione monetaria che comprende alcuni dei Paesi esportatori più competitivi“: in questa frase è sintetizzato quanto abbiamo già detto più sopra al numero 1). Il Paese esportatore più competitivo è la Germania la quale predica a noi “piigs” rigore e moralità nonché “lealtà” ma intanto ha fatto le sue riforme da sola, senza alcuna concertazione europea ed alla faccia della solidarietà europea. La Germania ha solo approfittato della posizione di vantaggio che la moneta unica le offriva mentre la nostra classe politica, sempre più realista del re, per vent’anni si è beata nella retorica europeista e globalizzatrice credendo che liquefando l’Italia nel mercato europeo e/o globale avremmo risolto i nostri problemi, ad iniziare – questo in particolare interessava ad esempio alla nostra confindustria – dall’impossibilità, per via dell’opposizione sociale, di fare le “riforme strutturali”, come quella delle pensioni e del mercato del lavoro. Per questo Mario Monti, quando era al governo,ebbe a dire che le crisi economiche sono salutari in quanto costringono i popoli ad obbedire ai “mercati” senza troppo protestare. Se si doveva fare l’Europa, bisognava innanzitutto prevedere strumenti di “repressione finanziaria”, e non perseguire la libera circolazione dei capitali, ed in secondo luogo si doveva pensare a un meccanismo confederale di riequilibrio delle bilance dei pagamenti tra gli Stati aderenti alla Confederazione in modo da costringere i Paesi in surplus finanziario e commerciale, come appunto la Germania, a fare politiche di aumento della loro domanda interna, quindi a non comprimere eccessivamente il costo del lavoro, a vantaggio delle esportazioni degli altri partner europei. Se invece di gente come Prodi e Veltroni, che ci incitavano a disprezzare la “liretta”, avessimo avuto statisti seri, la nostra entrata nell’UE, ossia l’adesione al progetto europeo da parte della – non dimentichiamocelo – terza economia del continente, sarebbe stata contrattata solo alle predette condizioni riequilibratrici. Ora S&P indica nella contrattazione decentrata il grimaldello per superare il meccanismo di fissazione dei salari ossia il contratto collettivo nazionale. Dicevo, anni fa, ad una collega di lavoro, militante della CGIL, impegnata a difendere l’accordo, siglato all’epoca, a favore della contrattazione nazionale, che lo sforzo della sua organizzazione era del tutto inutile se contemporaneamente non si difendeva anche lo Stato nazionale. I salari contrattati nazionalmente, dice S&P, ostacolano la competitività e dicendo questo l’Agenzia di Rating ci sta dicendo che bisogna abbassare il costo del lavoro a vantaggio dei profitti capitalistici per competere sul mercato globale. Questo dimostra che l’avvertimento a suo tempo da me fatto alla collega d’ufficio sindacalista, ossia che la scomparsa dello Stato nazionale comportava la fine dei miglioramenti sociali lucrati, all’interno della sua compagine, dai lavoratori, era esatto. S&P indica nella contrattazione decentrata, aziendale, lo strumento per legare i salari all’andamento della produttività ossia per fare del salario “soltanto” una variabile del mercato. Attenzione, ho scritto non a caso tra virgolette la parola “soltanto” perché il salario è senza dubbio una variabile del buon andamento di una azienda sul mercato ma, al tempo stesso, non è una variabile qualsiasi alla stregua di una merce. Qui torna la grande lezione della Dottrina Sociale Cattolica che sin dai tempi di Leone XIII afferma a chiare lettere che il “lavoro non è una merce” sicché le sue condizioni e la sua remunerazione deve essere contrattata tenendo conto anche di altri fattori e non esclusivamente di quelli di mercato. Ora, anche volendo astrarre da considerazione morali e sociali (e per quanto mi riguarda questa astrazione deve essere sempre respinta) ed anche volendo fare una analisi sotto il solo profilo economico, sostenere o aumentare i salari è benefico per l’economia perché aumenta la domanda e quindi anche i profitti imprenditoriali. Certo ci sono sempre dei limiti, storicamente variabili, e quindi non si devono, di volta in volta, superare questi limiti. Altrimenti – questa è la parte, ma solo appunto la parte, di verità che monetaristi e liberisti colgono ma che poi essi pretendono di ergere a dogma per politiche antisociali – possono, ma non è detto che sia sempre così, ingenerarsi fattori inflattivi per aumento dei costi di produzione. In tal senso, un sistema di indicizzazione dei salari legato, più che al costo della vita, alla produttività potrebbe anche essere una soluzione da prendere in considerazione ma a ben chiare condizioni ossia che esso non deve servire per politiche di riduzione del costo del lavoro. Questo significa che il salario base dovrebbe rimanere di competenza della contrattazione nazionale mentre quello accessorio e gli eventuali aumenti salariali, periodici, connessi all’aumento della produttività potrebbero essere devoluti  alla contrattazione di livello aziendale, lasciando quindi alle imprese ed ai lavoratori un margine di flessibilità senza intaccare la base del rapporto capitale/lavoro che deve essere quella etica del “giusto salario” il cui minimo non può non essere contrattato che a livello nazionale. In tal modo si introdurrebbero, in una prospettiva cattolica, nazional-sociale, socialdemocratica ma anche, si badi, liberal-sociale, elementi di “partecipazione agli utili”, benché la vera partecipazione agli utili non coincide con il salario di produttività perché è invece legata innanzitutto alla partecipazione alla gestione, o co-gestione o co-determinazione, nel cui ambito deve stabilirsi la quota di utili che spetta ai lavoratori in aggiunta al salario, contrattato nazionalmente e/o aziendalmente. Inoltre, in momenti di crisi come l’attuale, un aumento dei salari a discapito inizialmente dei profitti, che dovrebbero essere mantenuti fermi in modo da non compensare con un aumento dei costi dei prodotti la iniziale diminuzione del saggio di profitto, è strumento efficace per espandere la domanda e quindi far ripartire l’economia. Solo a ripresa consolidata si dovrà permettere ai profitti di reincorporare l’aumentato costo del lavoro e, quindi, onde evitare spinte eccessive inflazionistiche, fermare anche l’aumento dei salari. Si chiama, questa, “politica dei redditi” e richiede una concertazione corporativistica che, chissà perché!?, il dogma dominante ha rigettato in nome del libero gioco, anche tra capitale e lavoro, del mercato. Spesso, in passato, tale politica ha troppo considerato l’interesse solo di una parte, la più forte, ed addossato i maggiori sacrifici sull’altra, la più debole. Ma questo tipo di politica, se unita ad un forte senso di eticità ed equità, può ben funzionare ridistribuendo equamente i sacrifici. Personalmente ritengo che i maggiori sacrifici devono essere addossati, fino a ripresa economica consolidata, sulla parte più forte ossia sul capitale, ma per far questo è necessario non seguire il liberismo economico ed il laissez faire. La politica dei redditi mira a contemperare interclassisticamente i contrapposti interessi di imprenditori e lavoratori in nome dell’appartenenza alla stessa comunità nazionale e/o in nome dell’etica sociale e/o in nome della solidarietà cristiana. Ma la politica dei redditi, insieme alla disponibilità a concertare il comune interesse tra capitale e lavoro, necessita anche di una forte e autorevole Autorità Politica che sappia essere salomonicamente equitativa. Mi sovviene qui un esempio storico. Francesco Grossi, un quadro del sindacalismo fascista del “clan” di Italo Balbo e di Nello Quilici (il padre del noto regista e documentarista Folco Quilici), quindi di formazione repubblicana e socialista – ma, a differenza di Balbo (addentellato con le logge), Grossi, diventato poi anche federale di Avellino e quindi responsabile nella RSI della politica dell’“assalto al latifondo”, ossia della riforma agraria, era apertamente cattolico praticante, grato al
fascismo anche per aver risolto la “questione romana” -, racconta nelle sue memorie (“Battaglie sindacali”, edite anni fa per le edizioni dell’Istituto di Studi Corporativi) un significativo episodio riguardante una delle rare volte che Mussolini presiedette la riunione di una delle Corporazioni istituite dal Regime. All’ordine del giorno vi era, causa crisi iniziata nel ’29, la richiesta, con petulanza pari all’arroganza, avanzata dalla Confindustria dell’abbattimento per almeno il 40% dei salari operai ed impiegatizi. I sindacati fascisti naturalmente si opponevano con altrettanta energia alla richiesta della Confindustria e le accuse, dall’una e dall’altra parte, di sabotare la collaborazione di classe, che evidentemente era intesa in senso diverso dalle due parti, fioccavano con attacchi veementi e persino personali. Il rappresentante della Confindustria era entusiasta della presenza di Mussolini convinto come era di avere il duce al soldo del capitale. Senonché Mussolini, con grande dispiacere confindustriale, ordinò un taglio salariale non superiore al 20%, come provvedimento che teneva conto delle difficoltà economiche generali delle industrie, ma al tempo stesso ordinò, con soddisfazione sindacale, un aumento degli assegni familiari del 10% insieme alla diminuzione dei costi, già bassi, degli spacci aziendali, come provvedimenti che consentissero ai lavoratori il recupero almeno parziale della decurtazione salariale. Grossi, nel raccontare, questo episodio lamentava che purtroppo il sistema non funzionava sempre così, anche perché Mussolini non era quasi mai presente personalmente ai lavori delle Corporazioni. Del resto, in altre occasioni, come quando accettò lo “sbloccamento sindacale”, ossia la suddivisione dell’unico sindacato fascista in sette diverse confederazioni sindacali senza contemporaneamente sottoporre ad analogo sbloccamento anche la Confindustria, Mussolini fece scelte più favorevoli agli imprenditori. Per quanto riguarda, poi, gli altri fattori indicati da S&P, inefficienza della giustizia e dei servizi pubblici, sono cose reali ma la soluzione, per i motivi detti ai punti precedenti, non è nel continuare con le logiche privatistiche applicate al pubblico ma è piuttosto nel recupero, che è però prima di tutto etico ed antropologico, del senso dello Stato in chi opera nel pubblico. Per quanto riguarda il costo dell’energia, questo dipende da fattori anche esterni. Certo si possono eliminare o abbassare le accise sulla benzina ma senza un ente di Stato, come era l’Eni di Mattei nato dall’Agip fascista, che abbia come mission la contrattazione più favorevole possibile nell’interesse nazionale dei costi energetici con i Paesi produttori, non si va da nessuna parte. Invece noi abbia fatto, per conto della Francia, degli Usa e della Nato, la guerra alla Libia di Gheddafi, e la stiamo facendo diplomaticamente alla Russia di Putin, Paesi per i quali eravamo acquirenti privilegiati di materie prime e buoni partner commerciali. La questione poi degli alti costi per “licenziare i dipendenti”, sollevata da S&P, è talmente sfacciata nel suo liberismo dogmatico che ci sarebbe soltanto da usare parole poco educate. Ci limitiamo, qui, a ricordare che gli investimenti privati sono sostenuti dalla spesa pubblica e si dirigono sempre dove c’è un’alta domanda, quindi lavoro protetto, sicché le politiche di precarizzazione del lavoro, come quelle di Renzi, comprimendo la domanda non incentivano neanche gli investimenti privati (l’articolo 18, per ammissione degli stessi imprenditori, non era un vero problema). Politiche solo dal lato dell’offerta, ossia favorevoli solo al capitale, non aumentano mai, ci sono studi in proposito che lo dimostrano, l’occupazione. Per questo, e non per le ragioni di S&P, il Jobs act sarà un fallimento.

5) Solo venerdì mattina il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in visita a Francoforte per incontri con imprenditori e un convegno organizzato dal quotidiano Die Welt, ha difeso la politica economica del governo dicendo tra l’altro che “il debito italiano è sostenibile” e lo si vede “dal surplus primario che solo Germania e Italia (salvo che nel 2009) hanno mantenuto positivo”. … il titolare del Tesoro ha aggiunto che “il debito italiano non continua a salire e se sale non è colpa dell’Italia. Se ci fosse un’inflazione in equilibrio all’1,8%, una crescita reale dell’1% e una crescita nominale di circa il 3%, il debito pubblico sarebbe in un sentiero di discesa rapidissimo”. Peccato che oggi il livello di inflazione sia in calo e in novembre si sia fermato allo 0,2%.

Padoan dice il vero quando ricorda che l’Italia ha un avanzo primario in surplus, ossia che, al netto degli interessi, il nostro debito pubblico è nella norma e quindi del tutto sostenibile. Questo, però, ci riporta a quanto sopra osservato al numero  2) circa la castrazione dello Stato in ordine alla sua sovranità monetaria ed in ordine alla sua attuale, liberista, sudditanza ai “mercati finanziari”. Certo poi Padoan ha illustrato quello che è solo un libro dei sogni fino a quando la politica egoista della Germania e quella, ad essa succube, della UE tecnocratica non cambieranno. L’inflazione al 2% -1,8% è quella indicata dal Trattato di Maastricht come mission della BCE. In vero è ben poca cosa per sostenere un giusto livello di liquidità nel mercato. Ma, certo, se siamo molto al di sotto anche di tale 2% -1,8% è perché l’ordoliberismo tedesco, pensato per favorire i soli interessi nazionali della Germania, si è imposto a tutti e su tutti. Senza un aumento dell’inflazione non ci sarà neanche un aumento della crescita nei Paesi del Sud Europa e quindi neanche un calo del debito pubblico per calo degli interessi su di esso. Insomma Padoan sogna ma la realtà è molto più amara per tutti noi.

 Luigi Copertino

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