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TARKOVSKY, IL NEOREALISMO E LA LEZIONE DELEUZIANA: IL TEMPO E’ FORMA.

Il grande cineasta russo Andrei Tarkovsky scrive che “un film nasce dal carattere del tempo che scorre dentro l’inquadratura e viene determinato dal grado di pressione temporale che diventa avvertibile dove, al di là di ciò che accade, si sente una verità particolarmente significativa, cioè quando si percepisce che quel che si vede nell’inquadratura non si esaurisce, ma allude a qualcosa che si estende all’infinito”.

Il tempo nel cinema è il fondamento dei fondamenti, come nella musica il suono, nella pittura il colore, nel teatro il personaggio“.

In prima e semplice analisi, il cinema è la riproduzione di immagini in movimento. Nei primi anni dall’invenzione del cinema, le riprese sono immobili, i personaggi escono o entrano nello spazio inquadrato mentre il tempo è uniformemente percepito. I soggetti ripresi si presentano come figure che non vengono descritte in un momento unico, ma attraverso la continuità del movimento. Nel passaggio dal cinema muto al cinema parlato, il sonoro è una nuova dimensione dell’immagine visiva: la parola può rafforzare o indebolire l’immagine, creare significati altrimenti non visibili. In modo naturale si passa da un uso riproducente la realtà esterna, ad uno narrativo dove il carattere di verosimiglianza rimane comunque necessario: lo spettatore deve essere in grado di riconoscere l’immagine, che deve essere accessibile nella sua forma, apparentemente spontanea e carica di forza emozionalmente penetrante. Nel cinema è importante anche ciò che non si vede, non solo nell’evidenza che ogni inquadratura presuppone la seguente, ma pure che suggerisce e crea connessioni con ciò che non verrà rappresentato direttamente: esiste un processo incontrollabile causato dalla natura stessa dell’immagine, una continua associazione e giustapposizione con immagini altre, mentali, presenti nella memoria dello spettatore.

Tanto più il legame che unisce le inquadrature sarà strettamente consequenziale, tanto più il tempo sarà percepito come funzione del movimento: in questo senso Deleuze, in una delle tesi fondamentali dei suoi scritti sul cinema che sintetizzerò in questo articolo, parla di immagine-movimento.

L’immagine-movimento si può chiamare realismo. E’ interessante quello che Deleuze dice del cinema di Ford, ma che in linea generale si può estendere a tutta la produzione commerciale: ciò che conta in questo cinema è che la comunità possa farsi delle illusioni su se stessa, illusioni sui propri ideali, sulle proprie ragioni, sui propri desideri, dove bene e male siano colti chiaramente.

Il realismo cinematografico non a caso ha spesso cercato di essere una pedagogia, più o meno velata: si vuole indurre nel pubblico l’identificazione con la messa in scena dei valori e degli affetti, sia nella rappresentazione dell’edificante che in quella dell’orrore.

La narrazione cinematografica realistica pretende al vero anche nella finzione: può far intervenire immagini di ricordi o di sogni, ed il fantastico non ne è escluso. E’ l’ambiente in cui le tensioni si risolvono per la via più semplice, la parola più efficace. Il tempo è oggetto di una rappresentazione indiretta essendo derivato dall’azione.

Il Neorealismo italiano esprime il cortocircuito, tra i più riusciti, del cinema basato sull’immagine-movimento: invece di rappresentare un reale già decifrato, mira ad un reale ancora da decifrare, l’immagine rinvia ad una situazione dispersiva: spazi qualsiasi, terreni incolti, l’anonimato delle grandi città e delle fabbriche, mentre i legami logici tra i personaggi sono spesso deboli, piuttosto che agire questi personaggi sono testimoni di una impasse. Si tratta di disfare la storia, l’intreccio, l’azione logica consequenziale e con essa il tempo che scorre nell’inquadratura.

Non appena il concatenamento delle immagini subisce una frattura, ecco nascere una nuova immagine che diviene il problema su cui si basa una diversa estetica del fare cinema: l’azione non più come presupposto del tempo, piuttosto il movimento rallentato, talvolta assente, la pura fluttuazione dei personaggi diventati coordinate geometriche, mere figure. La nuova estetica dell’immagine, che si differenzia da quella del cinema realista, inverte la subordinazione temporale: il tempo esprime una qualità propria, non dipende più solo dall’azione.

In Rossellini, ad esempio, coesistono due forze che si oppongono e che generano la frattura della continuità temporale: la trappola del mondo in cui cadono i personaggi e la forza di emersione della vita interiore, di una nuova visione di se stessi, dove inizia la decomposizione del personaggio preso sia da una miseria esteriore (gli stereotipi, i cliché visivi sul paesaggio e sull’italianità in film come “Stromboli” o “Viaggio in Italia”) che interiore (il personaggio non ha più coordinate plausibili d’azione). Nel Neorealismo il personaggio si trova in una situazione che gli fa vedere e sentire quel che non può più essere giustificato logicamente da un’azione.

Antonioni a partire da “L’eclisse”, porta il linguaggio neorealista a delle rappresentazioni limite, paesaggi svuotati che assorbono situazioni e personaggi, l’essere assenti al mondo quanto a se stessi, una sospensione che dilatando il tempo diviene impossibilità di relazione, e risveglia nell’uomo la consapevolezza di qualcosa di intollerabile, la banalità della vita quotidiana.

Tarkovsky afferma che “compito del cineasta è creare la percezione del tempo nell’inquadratura, la sua consistenza o la sua rarefazione, poiché il tempo è forma, mentre il montaggio finale non è altro che un assemblaggio, un adattamento delle parti”.

Quando nell’immagine cinematografica il tempo viene dilatato fino ad arrivare alla monotonia, colpisce come un disturbo, la sua durata non ha più nulla a che vedere con l’azione rappresentata, diviene immanenza di ciò che non si lascia pensare, perdita dell’orientamento della maschera, crisi della persona-personaggio.

P.A.

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