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FRA STATO-NAZIONE E POPOLO. UNA RIFLESSIONE SU APPARTENENZA GIURIDICA E IDENTITA'. di Nicolò Dal Grande

Pittore nordico, ALLEGORIA DEL BUON GOVERNO, 1760

Lo scorso 18 ottobre in Italia è ricorso, nella totale noncuranza come numerose ricorrenze sulla via del dimenticatoio, un particolare anniversario, ovvero la nascita della Confederazione Cispadana, nucleo originario dell’omonima Repubblica, fra le prime delle cosiddette “Repubbliche Sorelle” italiane legate Francia rivoluzionaria. Vuole la storia che il 16 ottobre 1796, a seguito dell’inarrestabile avanzata di Napoleone durante la cosiddetta “Prima Campagna d’Italia”, i giacobini emiliani riuniti in quel di Reggio Emilia decretassero la nascita della suddetta confederazione; divenuta Repubblica il 23 dicembre 1796.
Per la storia italiana rappresentò uno degli snodi cruciali; in pochi anni gli antichi e longevi Stati della penisola, dalle gloriose repubbliche di Venezia e Genova ai prestigiosi ducato di Milano e granducato di Toscana sino alle illustri corone di Napoli e Sicilia e al soglio di San Pietro, furono abbattuti dall’ondata napoleonica, portatrice dei principi rivoluzionari dell’Ottantanove. Nulla sarebbe più stato come prima; dall’epopea delle repubbliche sorelle a quella dell’Impero napoleonico sino al Congresso di Vienna e alle successive età della Restaurazione e del Risorgimento, dalle quali sarebbe germogliata l’unità italiana, con tutte le sue contraddizioni e imperfezioni che ancora oggi si avvertono.
La creazione della Confederazione Cispadana fu dunque un capitolo fondamentale della storia italiana; fu uno dei suoi componenti, Giuseppe Compagnoni, un ex sacerdote abiurante i voti per abbracciare le idee illuministe, ad ideare il “tricolore”, ispirandosi – come tutte le repubbliche sorelle europee, da quella batava a quell’elvetica – al tricolore della Francia rivoluzionaria, unendo il verde delle divise della guardia civica milanese al bianco e rosso della città lombarda, futuro capoluogo della Repubblica cisalpina, frutto dell’unione delle sorelle “Cispadana” e “Traspadana” (Luglio 1797). Il 9 gennaio 1797 nasceva dunque il “tricolore”, la bandiera del popolo italiano, simbolo dell’unità patria e della cultura nazionale. Ma si può effettivamente parlare dello Stato unitario italiano come espressione concreta, e non solo teorica, di unità nazionale?
Ci si può legittimamente domandare se un vessillo rappresentante uno Stato possa realmente rappresentare una vera identità o, per meglio dire, possa essere realmente essere percepito come tale dal popolo. La bandiera è in effetti il simbolo per eccellenza di un popolo, l’elemento concreto avente la capacità di evocare un valore, un concetto, nonché un’identificazione o un’appartenenza; la storia delle civiltà, grandi o piccole che si siano rivelate, è sempre stata connessa ad una qualche espressione simbolica che la incarnasse. In linea teorica i cosiddetti “Stati-nazione”, ovvero le entità statali progressivamente sviluppatesi in Europa concettualmente e – più lentamente – politicamente a partire dal XV secolo, affermatisi attraverso il trionfo del liberalismo nel XIX secolo, incarnerebbero in toto i valori e le caratteristiche culturali e spirituali del proprio popolo, con la differenza che tali valori si debbano leggere in un’ottica liberale, omo-centrica e nazionalistica, non in senso identitario, ma in senso esclusivista, non solo verso le altre nazioni, ma anche verso “l’interno”, contro i particolarismi e le differenze che non corrispondono ai canoni della società liberale.
Ciò si è tradotto nel corso di quasi due secoli in un paradosso per molti Stati europei, dove ad un’unità politica e giuridica non sempre è corrisposta un’unità culturale e identitaria; un esempio può essere proprio lo Stato italiano nel quale le differenze di usi e costumi e il futile tentativo di annullarle, hanno creato notevoli difficoltà al processo di unità nazionale post-risorgimentale, dalla “guerra al brigantaggio” – che si potrebbe tranquillamente considerare in ottica di guerra civile – ai casi di renitenza al servizio militare durante gli eventi bellici. Una dovuta eccezione fu rappresentata dalla stagione fascista, dove si riuscì attraverso la cultura di regime ad assimilare la popolazione italiana, non tanto attraverso la retorica di richiamo ai fasti di Roma antica, quanto ad un senso di ideale partecipazione e coinvolgimento che, per quanto fittizio nelle azioni concrete, seppe forgiare una generazione di uomini identificatisi nell’unità italiana, che avrebbe creduto nell’ideale patrio propagandato per tutta la Prima Repubblica, al di là delle divisioni ideologiche dovute al gioco della politica democratica. Il tutto sino alla grande crisi della politica dei giorni nostri e il germogliare di una riscoperta del legame culturale e folkloristico all’interno delle comunità, che lo Stato liberale ottocentesco mirava ad assorbire e ghettizzare.
Oggi si assiste alla crisi del concetto di “Stato-nazione”, schiacciato sul piano reale dalla globalizzazione che ne ha messo a nudo i limiti storici e dall’altro dalla disaffezione verso la classe politica, incapace di coinvolgere in una reale partecipazione il popolo; in Italia diverse regioni della penisola, lentamente hanno visto la vari movimenti, prima autonomistici e poi indipendentisti; dal risorgere veneto di una sempre meno velata nostalgia per l’antica Repubblica Serenissima, alle mai sopite tendenze autonomistiche siciliana e sarda sino alla riscoperta nel Sud della tradizione legata all’antico Regno di Napoli; movimenti autonomistici si riscontrano parallelamente nel Friuli, nella città di Trieste, in Toscana e Romagna sino al nord lombardo, dove si è riportato alla luce l’antico nome dell’Insubria. Movimenti che adottano come proprie insegne gli stendardi degli antichi Stati italiani, dal leone marciano di Venezia sino al drappo del Ducato milanese sventolato dagli insubri. Senza contare l’eterna volontà d’indipendenza altoatesina.
Non solo l’Italia. Sebbene la storia degli “Stati-nazione” sia da analizzare da paese a paese e nelle singolari dinamiche di ognuno, un analogo processo lo si può osservare in numerosi paesi, dalla Spagna con i movimenti indipendentisti catalani e baschi all’eterna volontà di indipendenza di Cornovaglia, Galles e, soprattutto, Scozia dal Regno Unito – sfiorata nel 2014 -, passando per le tendenze centrifughe della Scania in Svezia sino al liberalissimo Belgio, dove da tempo immemore si assiste allo scontro culturale e politico fra le componenti fiamminghe e valloni; anche nella già federalista Germania da tempo si è sviluppato un movimento indipendentista in Baviera. Persino lo Stato centralizzatore per antonomasia, la Francia, vede al suo interno le correnti bretoni, corse e occitane, mentre nell’est europeo reduce da oltre un settantennio di dominio comunista, si assiste a continui scontri e spinte autonomistiche/indipendentiste di svariate regioni, alcune note ai più come si evince dal caso ucraino nelle terre di Crimea e del Donbask, altre quasi sconosciute, come la Transnitria in Moldova, regione autoproclamatasi Stato nei primi anni Novanta ma mai riconosciuto internazionalmente.
Tutto ciò pone una riflessione tra l’appartenenza giuridica di un popolo e la sua identità; sebbene quest’ultimo concetto possa apparire in crisi nell’età del consumismo e della globalizzazione, lo svilupparsi di tutti questi movimenti, forse circoscritti ma comunque in crescita, favoriti in questo dalla grande crisi economica, spingono ad una riflessione sul rapporto fra il potere statale e la popolazione, che non può prescindere dal rispetto delle identità locali e delle singole comunità in nome di ideologie politiche o filosofiche, col rischio di creare un’insanabile frattura, come nel tempo si è venuta creare in gran parte delle realtà statuali sviluppatesi nei principi dell’Ottantanove.

Nicolò Dal Grande

 
 

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