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A PROPOSITO DEL MEDITERRANEO, CENTRO D’INCONTRO TRA LE CULTURE, DELL’“ASSALTO DEI MIGRANTI” E DELL’ASSETTO “INEQUO/INIQUO” DEL MONDO. di F. Cardini

Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro. La nostra terra vale più del vostro denaro

(Sahpo Muxika – Piede di Corvo – capo della Nazione dei Piedi Neri)

La circostanza dell’aggravarsi della tensione mediterranea sta suscitando, come suole accadere, una quantità di più o meno intense e importanti occasioni di riflessione, che fatalmente si traducono in convegni, congressi eccetera. Invitato a uno di essi, mi si è chiesto – com’è del resto giusto, visto il campo delle mie “competenze” (?!) – un excursus relativo alla storia del Mediterraneo antico e soprattutto medievale alla ricerca, mi si è raccomandato, delle “radici remote della crisi attuale”.

Sto cercando di svolgere il mio compito con diligenza e vi metto a parte (pur non passandovi per il momento il corredo critico – bibliografico) dei risultati provvisori, che si possono riassumere nella seguente affermazione: la crisi attuale non ha radici remote, bensì moderne anzi modernissime, attuali anzi attualissime.

La questione mediterranea ha senza dubbio cambiato volto, nell’ultimo secolo e mezzo, dopo l’apertura del canale di Suez; in seguito alla fine dell’impero ottomano il Mare nostrum ha in parte e in apparenza cessato di essere attraversato da frontiere, ma è tornato ad esserlo subito dopo, a partire almeno dal la seconda metà degli Anni Trenta del secolo scorso, e ancor più lo è divenuto nel secondo dopoguerra con l’insorgere della crisi arabo – israeliana; oggi, la proliferazione d’installazioni statunitensi e della NATO all’interno del suo specchio, insieme con la recentissima scoperta di giacimenti importanti di petrolio e di metano sottomarini tra Cipro, costa del Mar di Levante e area del delta nilotico hanno moltiplicato gli elementi che rendono fragile e problematica la convivenza.

D’altronde, vero è che a livello mediatico il massimo problema del momento in tutta quell’area è costituito dalla migrazione. E lo è veramente: anche se in modo e per ragioni diversi da quelli che in genere vengono presentati. In realtà, la gente non scappa dall’Asia e dall’Africa (soprattutto da quest’ultima) soltanto per le guerre e per le persecuzioni politico -religiose, uniche cause riconosciute per la concessione ai migranti dello statuto di “rifugiati”. La gente scappa anche dalla fame, dalla mancanza di cibo, di cure mediche, di lavoro, di prospettive: scappa perché è povera; e scappa da paesi che, per la natura del loro suolo e/o sottosuolo, sarebbero ricchissimi.

E il dramma nel dramma, l’infamia nell’infamia, è che questi poveri provocano, arrivando in Europa, una “guerra tra poveri”: perché vi sono dei poveri meno poveri di loro che vedono questi nuovi arrivati mangiare quel che servirebbe loro, occupare beni e risorse che essi credono non solo loro spettanti, bensì loro indispensabili: perché coloro che li sfruttano mantenendoli poveri li inducono, attraverso i loro media e i partiti che essi finanziano, a credere che la loro povertà dipenda in tutto o in parte dai nuovi arrivati.

La verità è un’altra: e a spiegarla bene ci aiuta un passo limpidissimo dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium dove ben è descritta la condizione delle opinioni pubbliche abbandonate a se stesse da una volontaria disinformazione ed è esattamente indicata la radice effettiva del male:

“Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, o forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice” (Evangelii gaudium, 59).

Mi ha in particolare colpito una parola, inequità, a livello lessicale in verità attestata, ma ormai desueta al punto che molti l’hanno presa per un neologismo. Non è così: e ci tornerò alla fine di queste pagine. Ma è la chiave di tutto. Detto questo, possiamo cominciare.

Parliamo del nostro Mediterraneo. Non solo di quello che i romani antichi chiamavano, appunto, Mare nostrum, ma nostro di noialtri che dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa ci affacciamo sulle sue sponde: noi euromediterranei, asiomediterranei, afromediterranei. Il Mediterraneo di oggi, quello che c’interessa e ci preoccupa, è quello della crisi, a rischio di riscaldamento e d’inquinamento gravi, le acque del quale ospitano basi sottomarine fornite di testate atomiche, le coste europee del quale sono oggetto di continui sbarchi di migranti. Si parla spesso di una “terza ondata” musulmana, dopo la “prima”, la lunga stagione degli attacchi da parte dei corsari arabo – maghrebini fra VIII e X secolo, placatasi al principio dell’XI, e la “seconda”, quella degli assalti dei navigli turchi e barbareschi fra Tre e Ottocento.

È evidente che, rispetto a quelle lunghe fasi che ebbero carattere si può dire strutturale nel contesto dei loro relativi periodi, gli arrivi sulle nostre coste di “extracomunitari” su imbarcazioni di fortuna corrisponde a una situazione emergenziale e non riveste alcun carattere d’incursione e tantomeno di conquista, nonostante al riguardo esistano teorie, sostenute anche da alcuni mass media, secondo le quali quegli sventurati sarebbero le avanguardie, consapevolmente riversate sui nostri litorali, di una prossima invasione. Poiché in questa sede si dovrà anzitutto parlare del presente e del futuro del nostro mare, il mio ruolo di cultore di storia è piuttosto marginale.

Lascio volentieri ai colleghi contemporaneisti la responsabilità di esprimersi sulla natura dei pericoli della situazione odierna: ma, dal momento che non è raro il veder collegate certe narrazioni al presupposto – pregiudizio di uno “scontro di civiltà” in atto, riguardo al quale non manca chi azzardi altresì dei confronti con il passato, su quest’ultimo è bene intendersi.

Quand’ero bambino e ragazzo nella mia Toscana, oltre una sessantina di anni fa, usavo passare quasi tutte le estati insieme con la mia famiglia un paio di settimane “in villeggiatura”, come allora si diceva, verso Castiglion della Pescaia, il bel porto della Maremma grossetana. E là, sotto le mura della vecchia fortezza, c’era ancora il piccolo antico cimitero “saraceno”, con le sue stele di pietra rozzamente lavorate che culminavano nella caratteristica protuberanza a forma di turbante. Lì, si raccontavano ancora le storie delle incursioni dei corsari turchi e barbareschi, a segnalar l’avvicinarsi delle cui navi si ergevano appunto, su tutta la costa, le “torri della saracena”. Il gatto della nostra vicina di casa si chiamava Musetto, un grazioso nome per un felino: ma la sua padrona ci ripeteva che c’era poco da scherzare, che quello era stato il nome d’un feroce pirata musulmano. E in effetti, il nome Musettus era l’ingentilita ma anche storpiata forma latina di uno sceicco di Denia e delle Baleari, il laqab del quale, il nome onorifico, era al–Mujahid, “il combattente del jihad”, come ormai ai gironi d’oggi tutti sappiamo ma allora non sapeva quasi nessuno. Al-Mujahid aveva imperversato nel secondo decennio del secolo XI tra Lerici, la foce dell’Arno, la Sardegna e la Corsica, e c’erano volute le forze congiunte di pisani e genovesi per aver ragione di lui. Anche le storie paurose del Gatto Mammone, chissà quale razza di mostruoso felino, ci piacevano: ma non sapevamo che quel nome era a sua volta la storpiatura di quello di un altro corsaro arabo – barbaresco, al-Khaid Meimun. E si narrava, ancora, l’avvincente e un po’ piccante storia della Bella Marsilia, che i pirati avevan preso prigioniera e venduta o regalata al sultano, e ch’era diventata potente e vendicativa regina. Più tardi, mi sarei lasciato affascinare – insieme con l’Odissea e con i racconti di peripezie oceaniche del marinaio Sindbad delle Mille e una Notte e con quelli di Salgari, di Conrad, di Melville e di Hemingway – dalle grandi novelle della “fortuna di mare” secondo la seconda Giornata del Decameron: la quarta, dove il ravellese Landolfo Rufolo impoverito si fa corsaro, vien catturato dai genovesi, fa naufragio salvandosi a cavalcioni d’un forziere pieno di gioielli, approda a Corfù e da lì torna ricco a casa; la sesta, dove madonna Beritola con i suoi figli naviga da un’isola sconosciuta alla Lunigiana e di lì in Sicilia; la settima, con le lunghe e molteplici esperienze erotiche di Alatiel, la bellissima figlia del “soldano di Babilonia”, cioè del Cairo, inviata sposa al “re del Garbo” e per quattro anni passata di terra in terra, d’isola in isola, di naufragio in naufragio e di letto in letto da Alessandria a Maiorca alla Romània a Chio a Cipro fino a raggiungere il regno del suo promesso sposo, riuscir a farsi credere illibata e convolare felicemente a nozze con lui.

Più tardi ancora, ed ero ormai studente universitario, la testimonianza scandalizzata del monaco benedettino Donizione – il quale scrivendo in versi, nell’XI secolo, il suo poema in onore della sua signora, Matilde di Canossa duchessa – margravia di Toscana, riferiva compunto del corrotto porto di Pisa, sui moli del quale si potevano incontrare quegli infedeli dalla pelle scura provenienti dall’Africa. Dove si sarebbe andati a finire continuando su quella strada?, si chiedeva il buon religioso. A me invece, un millennio dopo di lui, l’idea di quei marinai-mercanti-pirati pisani, che assalivano i porti saraceni dell’Africa settentrionale, della Sicilia, della Siria e delle Baleari e che con le spoglie delle loro incursioni dedicavano alla gloria di Dio la loro cattedrale rivestita di antichi, splendidi marmi romani ed ellenistici provenienti da quei litorali lontani, procurò un’emozione talmente intensa da spingermi a dedicar a quelle cose un’intera vita di studi. A quella vocazione di quasi mezzo secolo fa sono rimasto, sia pur con molti occasionali tradimenti, sostanzialmente fedele.

L’intero specchio del Mediterraneo risuona di queste storie: corsari turchi e barbareschi, ma anche genovesi e catalani; schiavi cristiani, povera carne battezzata che languiva nelle prigioni e remava sulle galee di Tangeri e di Algeri, poi della stessa Istanbul; schiavi musulmani, povera carne circoncisa che languiva nelle prigioni e remava sulle galee di Genova e di Rodi, poi di Malta e di Livorno; e rinnegati e fuggiaschi, dall’una e dall’altra parte; e cupe arcigne torri di guardia, dalla Spagna all’Italia alla Turchia all’Egitto al Maghreb, a spiar l’arrivo d’incursori che a sua volta tipologicamente in fondo si somigliavano, erano entrambi pii predoni come da parte musulmana i mujahiddin, i combattenti dell’ “impegno gradito a Dio”, e da parte cristiana i Cavalieri di Rodi poi di Malta o più tardi quelli di Santo Stefano, guerrieri – marinai stretti in un Ordine religioso. Ma le spedizioni crociate, gli assalti ai porti e l’endemica reciproca “partita di giro” corsara, alla quale corrispondeva una fiorente attività di esazione e di pagamento di riscatti da entrambe le parti garantita da pietose confraternite e da austeri Ordini religiosi quali i Mercedari e i Trinitari, erano soltanto – fra XII e XVI secolo, e oltre – parte di un vivissimo contesto fatto di pellegrinaggi, di santuari marittimi ai quali ci si rivolgeva prima d’imbarcarsi per implorar un felice ritorno e dopo aver messo di nuovo piede sulla terraferma per ringraziar dello scansato pericolo, di attività portuali, cantieristiche e creditizie, di scambi culturali e diplomatici, di fortunose e fortunate carriere politiche ed economiche consumate tra viaggi e pellegrinaggi e tra rinnegamenti e conversioni, di circolazione di merci d’uomini e d’idee.

Ma insomma, che cos’è stato, che cosa continua ad essere o magari più pienamente può tornar ad essere, il nostro Mediterraneo? Anzitutto, potremmo cominciar col rispondere, esso è appunto un mediterraneo, il mediterraneo per eccellenza: il mare circondato da terre, più caldo e più protetto dalle intemperie di quanto non siano gli oceani aperti; quel tipo appunto di mare sulle rive del quale la storia c’insegna che regolarmente nascono e prosperano le civiltà “superiori”, intendendo tale aggettivo nel senso non certo razziale, bensì rigorosamente ed esclusivamente socio-antropologico del termine: quelle che riescono a sviluppare sistemi articolati e raffinati di governo degli uomini, di sviluppo istituzionale, di equilibrio tra realtà politiche, economiche, produttive e religioso-cultuali accompagnato da un adeguato immaginario, da un sistema coerente di valori in grado di fondare una visione identitaria del mondo e una tradizione che le caratterizza e che al tempo stesso è in grado di vivere dinamicamente, di adeguarsi alle mutate circostanze storiche e di accogliere gli apporti di civiltà “altre”, di mondi diversi e lontani.

La vita sulla terra della specie umana, dell’homo sapiens, data come sappiamo da un tempo incerto e lontano, che oscilla tra i quattro e un milione di anni fa, e gli studiosi non hanno al riguardo mai raggiunto un definitivo accordo; tuttavia la sua “storia” vera e propria, intesa come coscienza critica del proprio passato, come capacità di organizzare e di articolare la memoria collettiva disciplinandola e tramandandone sistematicamente il ricordo, pertanto di affidare al futuro monumenti e documenti che non siano più semplici, casuali e involontarie tracce del proprio passaggio sulla terra, quella storia non data ad oltre seimila anni or sono circa, e non si è davvero criticamente sistematizzata troppo prima di appena due millenni e mezzo or sono.

Ebbene, le civiltà “superiori” – nel senso che abbiamo or ora assegnato a tale aggettivo – e quindi la storia, che di esse è aspetto e funzione, nascono e prosperano regolarmente e, si direbbe, esclusivamente attorno alle sponde di un mare mediterraneo, di uno specchio d’acque in comunicazione con l’oceano ma circondato da terre e magari punteggiato da isole che permettano una praticamente costante navigazione “a vista”. In ordine cronologico, il primo mare chiuso ad assistere alla nascita di queste civiltà è stato appunto, più o meno seimila anni fa, il nostro mediterraneo, il “Mediterraneo” per eccellenza e per definizione. Altre civiltà superiori sono nate più tardi, in tempi diversi, incentrate tutte sugli altri “mediterranei” presenti nel pianeta, pochi in fondo: il sistema Mar Giallo – Mar Giappone – Mar Cinese Orientale, il Mar Cinese Meridionale con l’annesso indonesiano, il Mare Arabico percorso dai monsoni con il suo parallelo Golfo del Bengala, il sistema Golfo del Messico-Mar dei Caraibi-Mar delle Antille, il Mar Baltico.

E veniamo quindi al nostro caro Mediterraneo: a un mare temperato, dalle acque tiepide, dal regime climatico variabile e capriccioso magari ma nel complesso clemente, dai venti e dalle correnti che i popoli rivieraschi da millenni conoscono; un mare sviluppato prevalentemente nel senso della longitudine – tra il quinto meridiano ovest e il quarantaduesimo est, ma che pure, dal suo estremo nord del Mar d’Azov al suo estremo sud del Golfo della Sirte, raggiunge anche una buona estensione latitudinaria, compresa tra il quarantasettesimo e il trentesimo parallelo nord. Un mare ben distinto tra ampi bacini – l’occidentale, l’orientale e il Mar Nero – comunicanti tra loro attraverso due sistemi di stretti: il Canale di Sicilia e lo Stretto di Messina, che pone in comunicazione i bacini occidentale e orientale; e il sistema Dardanelli – Mar di Marmara – Bosforo, che collega il Mediterraneo orientale al Mar Nero. Oltre alla grande porta storica aperta verso l’Atlantico, le Colonne d’Ercole – Stretto di Gibilterra, il Mediterraneo era collegato al mar Rosso e quindi all’Oceano Indiano anche prima che si scavasse il Canale di Suez, dal momento che le merci provenienti via mare dalla lontana Asia, cioè dal subcontinente indiano e dal sud-est indonesiano, risalivano la Penisola Arabica lungo la cosiddetta Via dell’Incenso o delle Spezie sino agli empori siriaci, o raggiungevano il delta del Nilo anche percorrendo via terra le piste carovaniere che dai porti della costa occidentale del Mar Rosso, attraverso il cosiddetto “Deserto orientale” ad est del Nilo là dove, più o meno all’altezza delle antiche Tebe e Luxor – che difatti non a caso in quell’area vennero fondate – la distanza tra il fiume e il mare era più breve e la navigazione fluviale, a nord della prima Cateratta, agevole.

A loro volta, agli empori siriani facevan dal canto loro capo gli itinerari terrestri della Via della Seta, che servivano attraverso i diverticoli anatolico, armeno e kurdistano-azerbajainico anche i porti meridionali del Mar Nero e del Mar Caspio: due mari “interni” questi ultimi separati sì dall’area caucasica, ma collegati attraverso i bassi corsi entrambi navigabili del Don e del Volga, che si avvicinano fino a restar separati solo per un centinaio di chilometri, una distanza questa che si colmava con relativo agio anche prima che nel 1952 venisse definitivamente aperto quel Canale del Don che fu l’ultima grande opera del maresciallo Stalin ma che realizzava un sogno già cullato dal sultano Solimano il Magnifico.

Se il nesso Mar Nero-Mar Caspio “prolunga” longitudinalmente il Mediterraneo fin quasi al cinquantacinquesimo meridiano est, spingendolo pertanto addentro fin alla profonda Asia centrale, il sistema dei grandi fiumi russi permette la navigazione quasi ininterrotta dal Mar d’Azov al Golfo di Finlandia. Fu questa la strada della cosiddetta Via dell’Ambra, percorsa a partire da circa il X secolo dai navigatori-mercanti-predoni variaghi provenienti dalla Svezia che convertiti al cristianesimo e uniti se non proprio fusi con le culture slave ad ovest degli Urali fondarono le fortezze-emporio-santuario della Rus’, giunsero sino a Costantinopoli dove i variaghi si alternavano ai normanni occidentali come scelta guardia imperiale e più tardi entrarono in un complesso rapporto feudale-antagonistico con i tartari dell’Orda d’Oro. Lungo la Via della Seta correvano anche altre merci preziose: dalle pelli alla cera alla resina al miele al legname, che inondavano i mercati bizantini e musulmani, mentre dal sud al nord risaliva la corrente dei metalli preziosi, oro e argento, in parte frutto di razzìe in parte provento di quei ricchi commerci.

Un Mediterraneo dunque “allargato”, dal Corno d’Africa e dal Sudan fino al Baltico e alle steppe turkestane, come ben sapevano i viaggiatori e i geografi “arabi” – in realtà magari persiani o altaici o maghrebini, comunque musulmani e arabofoni – che appunto almeno dal X secolo, sfruttando il miglioramento climatico dell’emisfero boreale che aveva sciolto i ghiacci, viaggiarono fino al Settentrione europeo. E qui il “continente liquido” di braudeliana memoria si dilata fin a interessare, attraverso il sistema della navigazione delle “acque interne”, tutta l’Europa, l’intera Asia occidentale, il continente africano fino al Niger e al Sudan: questi gli immensi confini dell’irradiazione culturale e commerciale mediterranea e di un sistema mediterraneocentrico che attrae e ridistribuisce la seta e le spezie dell’Asia estrema, l’oro, l’avorio e gli schiavi del Sudan, l’ambra proveniente dalle oscurità settentrionali del Mare concretum, là dove secondo la scienza antica e meridionale il ghiaccio eterno si trasformava lentamente in cristallo. “Continente liquido” appunto, secondo la bella e famosissima definizione coniata da Fernand Braudel; ma, come tutti gli altri continenti, ben lungi dal conoscere una sua sostanza unitaria e, al contrario, profondamente articolato.

Era stata la compagine imperiale romana che, accogliendo la cultura della koinè diàlektos ellenistica ed ereditando la sintesi ellenico-afroasiatica nata dalla travolgente esperienza di Alessandro Magno, aveva potuto imprimere un sigillo unico, ancorché non uniforme – al contrario, profondamente rispettoso delle diversità – alle molte civiltà e alle molte potenze che aveva sottomesso o con le quali era entrata in un rapporto segnata dalla propria imposizione egemonica.

Ma nei secoli che più da vicino interessano questa nostra occasione d’incontro, vale a dire quelli compresi tra VII e XVI secolo – quindi il millennio entro il quale va compreso il convenzionale “medioevo” entro i limiti cronologici proposti da Henri Pirenne – il Mediterraneo è senza dubbio, com’è stato detto di altri soggetti geostorici e geopolitici, “uno e divisibile”. Si tratta di ben altro che di un semplicistico e astratto problema di periodizzazione. In realtà la celebre tesi pirenniana d’una “rottura dell’unità mediterranea” dovuta all’irrompere dell’Islam sulla scena del mondo e ai diretti e indiretti contraccolpi ch’esso aveva determinato è stata più volte, a più riprese e per più versi contestata: al punto che in molteplici successive occasioni se n’è annunziato il superamento e l’accantonamento.

Giovi qui il richiamare a titolo esemplificativo, quanto meno, la dimostrazione di Maurice Lombarda proposito di quanto limitata, contenuta e parziale fosse stata quella “rottura”, sopravvenuta in realtà ad aggiungersi a una crisi demografica e socioeconomica profonda che si era già avviata fin dal III-IV secolo d.C. e che aveva conosciuto la sua fase di depressione più profonda proprio tra VI e VII secolo, ragion per cui la straordinaria espansione dell’Islam che tra la metà di quel secolo e quella del successivo giunse alle Colonne d’Ercole e all’Indo Kush, al Caucaso e al Corno d’Africa, segnò semmai non già il punto di rottura e di crisi d’un equilibrio civile e socioculturale ma semmai, al contrario, proprio il momento d’avvio di una nuova e definitivamente positiva fase, che tra la fondazione dei califfati abbaside a nord o umayyade ispanico a ovest nel mondo musulmano e quella dell’impero carolingio e quindi ottoniano in quello cristiano occidentale avrebbe presieduto al dialogo-duello cristiano-musulmano la posta del quale sarebbe stata appunto l’egemonia sul Mediterraneo, con alterne fasi fino al definitivo mutamento di scenario determinato dalle conseguenze della scoperta del Nuovo Mondo, della stagione delle grandi navigazioni, scoperte e conquiste da parte d’un’Europa che da allora si è irradiata al di là dei suoi confini geostorici avviando la cosiddetta “economia-mondo”: la quale ha sostituito il precedente millenario sistema di civiltà “a compartimenti stagni”, scarsamente ed episodicamente collegate tra loro; e con la quale l’Occidente ha imposto al resto del mondo il sistema dello “scambio asimmetrico”, uno dei connotati di fondo della Modernità e della globalizzazione che ad essa è funzionale.

Gli eventi recentissimi e il successo delle tesi di Samuel P. Huntington e dei suoi numerosi esegeti, continuatori e seguaci a proposito di un cosiddetto “scontro di civiltà” ha imposto molte pubblicisticamente e massmedialmente parlando inevitabili – per quanto obiettivamente e scientificamente parlando pleonastiche se non svianti e dannose – discussioni sulle “linee di faglia” tra Occidente e I’slam. Dal canto mio, riprendendo un’osservazione a sua volta alquanto banale già proposta nel sottotitolo di un libro pubblicato alcuni anni or sono, ho avuto modo di richiamare più volte al malinteso, tanto grave quanto duro da eliminarsi, sottostante alla considerazione diffusa dei rapporti tra Cristianità occidentale e mondo islamico non solo lungo tutto il cosiddetto medioevo, ma altresì nei primi secoli dell’età moderna, quindi finché la civiltà europea ha potuto venir considerata nel suo complesso appunto una “Cristianità”; un malinteso che peraltro ha mutato in parte di connotati concettuali, ma si è perpetuato anche nell’Europa investita dal “processo di laicizzazione” e – al di là del peraltro ormai divenuto a sua volta spinoso problema delle sue “radici” – non più concepibile tout court come Cristianità in quanto erede senza dubbio della cultura e in gran parte altresì dell’etica cristiana, ma non più portatrice di un sistema civile, giuridico e sociale dipendente da una fede, da una teologia e da una disciplina ecclesialmente controllabili. Un malinteso, dicevo, consistente in sostanza del corto circuito tra un immaginario diffuso ma non corrispondente alla realtà storica e una realtà storica evidente e perentoria ma costantemente ignorata, o sotto valutata, o addirittura magari istericamente negata.

Da una parte, quindi, l’immaginario diffuso – sia pure attraverso mezzi e con forme d’intensità differenti – in area sia europea e occidentale sia musulmana: secondo il quale i rapporti tra le due civiltà, concepite come diverse e affrontate, si sono distesi in tredici – quattordici lunghi secoli di ostilità (guerre, crociate, jihad, conquiste espansive o coloniali, reciproche incursioni corsare, reciproche campagne di riduzione in schiavitù e di pressione missionaria) punteggiati soltanto da più o meno lunghi periodi di pace o di sopravvenuta reciproca indifferenza. Dall’altra la realtà storicamente obiettiva, del tutto facile da verificarsi e tanto più stranamente dunque negletta, stando alla quale questi più o meno estesi episodi di ostilità reciproca, fonte inesauribile di propaganda talor assurta al livello di testimonianza letteraria e artistica, nonché formidabile riserva di giacimenti folklorici, sono stati il costante per quanto non uniforme epifenomeno che ha coperto con una sottile ancorché vivacemente colorata superficie una sostanza profonda e intensa fatta di scambi economici e commerciali, di rapporti diplomatici, di reciproche esperienze scientifiche, intellettuali e tecnologiche, di circolazione d’uomini e di merci (inclusa quella “circolazione” del tutto particolare che è il meccanismo della conversione, interfaccia del quale è il fenomeno dei “rinnegati” e tutto l’ambiguo mondo delle spie e dei border fighters).

Naturalmente, come sempre accade nella storia, questa circolarità-reciprocità non è mai stata né può essere stata o essere suscettibile di divenire del tutto equilibrata e paritaria: in un mondo d’intensa interinfluenza reciproca, v’è sempre una parte che in prevalenza cede e una che in prevalenza accoglie: la bilancia socioculturale, e ancor più quella dei cosiddetti “valori immateriali”, è come quella commerciale, mai cioè in perfetto equilibrio. Ed è anche ovvio che le sue oscillazioni accompagnino e seguano quelle dell’egemonia nei rapporti di forza, lasciando in questa sede da parte il giudizio sul fatto se tale egemonia sia o meno causante e determinante rispetto ad altre forme di superiorità o di prevalenza, e insomma badando a non cadere nel tranello del post hoc, ergo propter hoc pur senza nasconderci che quel dato di fatto, quando è davvero tale, ha dal canto suo un non certo inaggirabile significato. Nessun dubbio quindi sul fatto che i rapporti cristiano-musulmani ed euro-afroasiatici nel Mediterraneo, tra VII e XVI secolo, siano passati attraverso successive fasi di quelle che Arnold Toynbee non avrebbe avuto esitazioni nel definir di “proposta” e di “risposta”: la grande espansione islamica dei secoli VII-X, accompagnata alle successive ridefinizioni confessionali e califfali e alla straordinaria capacità di rielaborazione, metabolizzazione, sintesi e adattamento da parte islamica delle forme civili, artistiche, filosofiche e culturali incontrate e magari anche sottomesse; la crisi e la battuta d’arresto, il momento di ristagno nelle società musulmane tra X e XI secolo, coeva al contrario all’avviarsi della lunga fase dell’espansione demografica, socioeconomica, commerciale, coloniale e tecnologica dell’Occidente europeo egemonizzato dagli esiti culturali della “rivoluzione pontificia romana”, della nascita della dialettica e del sistema di pensiero scolastico, della “rivoluzione commerciale” del Duecento con quello che Roberto Sabatino Lopez ha definito il “ritorno dell’Occidente alla coniazione aurea”, esito della raggiunta egemonia economica. Quindi, dalla prima metà del Trecento, una nuova crisi avviata e annunziata da un mutamento climatico di portata emisferica e culminata sia nella pandemia di peste del 1347 – 1350, sia negli esiti immediati e remoti del frammentarsi della pax Mongolica e nel parallelo chiudersi dell’Asia profonda a quella penetrazione religiosa ed economico-commerciale che gli europei avevano inaugurato nella seconda metà del secolo precedente. Infine, il sorgere e il dilagare in tutto il bacino orientale del Mediterraneo della nuova potenza unificatrice, l’ottomana, determinava la necessità di un riassetto generale degli equilibri mediterranei e di un loro riorientamento sulla nuova asse di Costantinopoli divenuta Istanbul e della potenza egemonica navale catalano-aragonese, divenuta parte d’una nuova compagine avviata nel secolo XVI a fornire una componente essenziale nel dominio degli oceani e nell’elaborazione dello stato assoluto moderno. All’interno di questa nuova e irreversibile svolta, centro non solo simbolico della quale è la scoperta del Nuovo Mondo e lo spostamento dell’asse dei traffici e degli equilibri ad ovest, al di fuori ormai dell’area geostorica mediterranea, si situa la casuale forse, certamente significativa sincronicità della rottura dell’unità confessionale europea e dell’affermarsi definitivo dell’impero sultaniale ottomano attraverso la fagocitazione di quello mamelucco d’Egitto, eventi entrambi del secondo decennio del Cinquecento. Ne sarebbe emersa una realtà nuova e diversa, caratterizzata da un decentramento di quel grande mare interno che per millenni era stato centro e fulcro della dinamica della civiltà.

Ma uno degli eventi centrali e qualificanti di quel periodo che convenzionalmente definiamo medioevo, e gli esiti del quale ancora perdurano, è stato quello degli immensi “prestiti” scientifici e culturali che – attraverso i tramiti iberico e, in modo meno intenso, anche siro-anatolico-egiziano e siciliano – hanno caratterizzato i secoli XII e XIII, allorché – in piena età “delle crociate”, che secondo qualche incauto osservatore contemporaneo avrebbero dovuto allontanare e contrapporre Cristianità e Islam – la scienza ellenistica antica, accresciuta e corroborata da massicci apporti iranici, indiani e cinesi, dall’Islam per il tramite delle traduzioni dall’arabo e dall’ebraico passò al mondo latino, non solo sostanziando di sé quel che Charles Homer Haskins ha definito il “Rinascimento del XII secolo”, ma anche e soprattutto consentendo all’Europa, grazie all’importanza qualitativa e quantitativa degli apporti nei mondi della logica, della matematica, delle scienza della costruzione, dell’astrologia-astronomia, dell’alchimia-chimica, della fisiologia e della medicina, quel decollo scientifico, intellettuale e tecnologico che ha dischiuso le porte della Modernità, figlia diretta quindi dell’incontro tra Cristianità, scienza ebraica della diaspora e Islam ancor prima di esserlo della rivoluzione umanistico-rinascimentale del XV-XVI secolo.

Uno studioso illustre come Rémi Brague ha senza dubbio avuto buon gioco e ottime ragioni per ricordare a tutti noi che lo sviluppo dell’Europa moderna è stato larghissimamente e magari perfino essenzialmente amediterraneo, extramediterraneo e magari antimediterraneo per eccellenza: ma ciò non diminuisce per nulla il peso e il valore di quelle radici, di quei presupposti, nel Mare nostrum profondamente radicati. Ancora, il Brague ci ha richiamati al dato innegabile che i “prestiti” non sono veri e propri” scambi”, mancando o essendo carente nell’àmbito della loro dinamica la reciprocità: e che non possono pertanto esser né confusi con il “dialogo”, né esser presentati come un segno della presenza di esso. Ciò è senza dubbio vero nella misura in cui si accetta la prospettiva dalla quale egli si pone, ch’è peraltro quella esclusiva – e restrittiva – dello studioso delle discipline filosofiche e scientifiche. Un contributo, il suo, fondamentale e necessario, anzi indispensabile: non tuttavia sufficiente, in quanto la presenza reale d’un lungo, profondo e proficuo dialogo tra le differenti sponde e le diverse culture compresenti nel Mediterraneo emerge evidente e perentoria quando si collocano i “prestiti” filosofici e scientifici dell’Islam alla Cristianità occidentale nel contesto degli scambi – quelli sì, veramente e intensamente tali – e economici, commerciali, finanziari, tecnologici (dalla meccanica alla nautica alla cartografia alle pratiche militari), infine anche diplomatici, politici e perfino religiosi, come dimostra la problematica di pensatori quali Raimondo Lullo e Nicola Cusano – entrambi peraltro sostenitori della crociata e dei suoi ideali – tesi appunto a edificare ponti di comprensione e di fratellanza con l’Islam nonché a proporre itinerari futuri fondati sul rispetto e sulla comprensione reciproca.

Una dimensione che non sarebbe maturata, e che oggi da tante parti non si considererebbe così necessaria e perentoria, se non si fosse fondata su alcuni grandi esempi, alcuni indimenticabili modelli. Alla base e al centro dell’attrazione reciproca, dell’interesse reciproco,

vi è davvero quel grande secolo che sta a cavallo tra XII e XIII e che reca alcuni nomi emblematici.

Anzitutto Yussuf ibn Ayyub Salah ed-Din, il principe curdo e musulmano che l’Occidente, tra il Boccaccio e il Lessing, ha scelto a simbolo stesso della più occidentali tra le virtù, la tolleranza; quindi Francesco d’Assisi e il sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, con il loro misterioso e commovente incontro; e ancora lo stesso al-Kamil, pochi anni dopo, con la soluzione del problema dei Luoghi Santi avviata insieme con l’imperatore Federico II anche se durata purtroppo solo pochi anni; e quindi Federico II stesso, nei lunghi decenni del suo saggio e costante lavoro di organizzazione dello scambio d’informazioni e della ricerca scientifica tra mondo cristiano e mondo musulmano; e Alfonso X re di Castiglia, detto dagli spagnoli el Sabio, “il sapiente”, alla corte del quale il nostro Brunetto Latini ha forse conosciuto quel Kitab al-Miraj, “il Libro della Scala” che, recato in traduzione latina a Firenze, ha contribuito all’ispirazione del capolavoro di colui che, del Latini, è stato il più grande e geniale allievo.

Il nostro forzatamente breve excursus si ferma qui, alla vigilia di quel confronto tra Europa cristiana e impero ottomano che a sua volta fu solo in parte e in alcuni periodi caratterizzato dalla contesa guerresca, ma che in ogni caso non fu mai inteso – retorica e propaganda a parte – come uno scontro tra Cristianità e Islam: tanto è vero che costante tra Cinque e Settecento fu l’amicizia e in qualche caso la vera e propria alleanza, sia pur formalmente non stipulata, tra il sultano ottomano e il re di Francia, cui corrispondeva un’amicizia parallela tra Spagna e impero asburgici da una parte, shahsafawidi persiani (quindi musulmani, per quanto sciiti), dall’altra. Il disegno geopolitico che scaturiva dall’intrecciarsi di questo duplice sistema di alleanze e d’inimicizie è evidente: e in esse la rivalità religiosa ha, nella migliore delle ipotesi, il valore di un pretesto.

Dopo la conquista del mondo da parte d’un’Europa lanciata sugli oceani, il ristagno e la crisi dei tre grandi imperi musulmani – l’ottomano, il safawide, il moghul – , la nuova fase coloniale volta alla conquista o all’egemonia progressiva sul mondo islamico (che fino al Settecento era restato sostanzialmente immune, salvo nella sua propaggine sudorientale asio-pacifica, dalla conquista europea) che si avviò con la fine del Settecento per preludere, con i trattati di Versailles all’indomani della prima guerra mondiale, alla crisi in atto che ormai da un secolo perdura, e della quale senza dubbio la “rinascita islamica” è parte. Il problema è stabilire se, in che senso e fino a che punto il fattore propriamente religioso abbia un peso effettivo in una dinamica come quella protagonisti della quale sono i movimenti cosiddetti “fondamentalisti”, “islamisti” o “jihadisti”, scopo dei quali sembra sostanzialmente la creazione di un fronte ostile all’egemonia occidentale in Asia meridionale e in Africa che trova in una fede musulmana caratterizzata da un preteso ritorno alla “purezza delle origini” il suo catalizzatore, ma che si presenta tuttavia sostanzialmente, più che come una politicizzazione della religione, come una vera e propria religionizzazione della cultura.

D’altronde, nella ridefinizione dei poteri e dei governi del mondo musulmano e in modo particolare (ma non esclusivo) arabo, nella quale si confrontano e si scontrano modi diversi d’intendere l’Islam – e troppo facile e superficiale appare la dicotomia tra un mondo “fondamentalista”, al cui interno le lotte sono accanite, e uno “laico” e “filoccidentale”, a sua volta attraversato da molte tensioni –, resta da ben intendere il ruolo da assegnare a un malessere diffuso, esito della pesante sperequazione socioeconomica, del concentramento della ricchezza e dell’impoverimento di popolazioni intere le quali appaiono come le cause, insieme con le guerre e le persecuzioni politico-religiose, dell’esodo continuo di genti africane e asiatiche dalle loro sedi alla ricerca di più umane e vivibili condizioni in Europa.

Dinanzi all’esodo, si è una volta di più avanzata l’ipotesi superficiale e gratuita di un piano strategico jihadista teso a sfruttare il malessere indirizzando e addirittura spingendo il flusso dei migranti verso il nostro continente. Ma si è finora, salvo il levarsi qualificato ma minoritario se non addirittura isolato di voci (a cominciare da quella dell’attuale pontefice) che invitano a guardare alle condizioni di sfruttamento e di distruzione ecosociale del continente africano come alle cause profonde e autentiche della migrazione, accuratamente evitato da parte degli ambienti che effettivamente controllano la vita del pianeta sotto il profilo economico, finanziario, produttivo e tecnologico, e dei quali i dirigenti politici occidentali e non sono largamente “comitato d’affari”, di prendere in considerazione il problema sotto questo punto di vista.

Ora, l’assumere scelte di tipo repressivo nei confronti del movimento migratorio che si manifesta sulle coste mediterranee ma che ha radici nel continente africano e nel Vicino Oriente, a parte le considerazioni etiche e umanitarie che qui non chiamiamo in causa ma che permangono fondamentali, equivale a trattare con rimedi locali a carattere sintomatologico un’affezione che è in realtà strutturale e profonda, bisognosa quindi di una ben diversa e radicale terapia.

La crisi mediterranea dipende quindi da cause profonde e da una crisi in atto ch’è quella generale di un pianeta malato d’ipersfruttamento con il suo corollario di sciagure (l’inquinamento, il surriscaldamento, il problema dello smaltimento dei rifiuti) e d’impoverimento generale progressivo, corrispettivo di un concentrarsi della ricchezza e di una altrettanto progressiva proletarizzazione. Il controllo razionale e una più equa ridistribuzione di ricchezze e di risorse costituiscono l’unica terapia possibile e si vuole evitare il collasso: e una presa di coscienza del pericolo e delle sue cause da parte dell’opinione pubblica mondiale, con i suoi conseguenti esiti politici, appare il solo mezzo adatto a mettere in moto un circolo virtuoso in grado di procedere al risanamento condizionando e regolando l’attività delle lobbies finanziarie e dei meccanismi tecnologici e industriali che fino ad oggi hanno prodotto ricchezze che le cosiddette “libere” (ma anche “ferree”) “leggi del mercato” hanno inegualmente anzi – a dirla con il linguaggio della Evangelii gaudium – “inequamente” distribuito. E l’”inequità” è, in termini sociologici, molto di più dell’inglese inequality, della disuguaglianza che può produrre anche molti buoni effetti: essa è quel che, in termini etici, si chiama iniquità. Un terribile, diabolico termine.

F. Cardini

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