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L’EUROPA E’ MORTA. VIVA L’EUROPA. di F. Cardini

La lezione del presente, giugno 2015

Gli ultimi sviluppi del fallimento europeo, con l’assurdo e inqualificabile rifiuto da parte francese di assumersi la sua parte di responsabilità nella gestione della crisi mediterranea, rende improcrastinabile una risposta.
Dobbiamo arrenderci all’evidenza? Parrebbe proprio di sì. Ma allora è necessario trarne le conseguenze. L’Unione Europea è morta. Dobbiamo continuar a tenere in vita artificiale il suo cadavere? Chi non ha mai amato l’Europa, si abbandonerà a danze di gioia: faccia pure. Gli europeisti sinceri e decisi – io sono tra questi – prendano atto del fallimento, si rimbocchino le maniche e ricomincino da zero.

Vademecum per ricominciare daccapo

A scanso d’equivoci, dichiaro subito di aderire per quanto mi riguarda al parere espresso dal collega Gérard Dussouy, professore emerito dell’Università di Bordeaux , nel suo recente libro Contre l’Europe de Bruxelles, fonder un Étateuropéen (Tatamis, 2013).
In altri termini, condivido l’opinione di Dussouy secondo il quale l’Europa, se vuol continuar a significare qualcosa negli affari e nei destini del mondo, è “condannata” a superare il quadro nazionale e a respingere le tentazioni “sovraniste” che, dopo le elezioni europee del 2014, si sono riaffacciate prepotenti.
Partiamo dalle considerazioni dello studioso americano Robert Gilpin, che nello sviluppo storico delle relazioni internazionali ha individuato tre cicli:

• Il ciclo degli Imperi, conclusosi con i trattati di Westfalia e dei Pirenei del 1648-1659;
• Il ciclo degli Stati-nazione, avviato già nel secolo XVII, maturato e teorizzato alla fine del XVIII con due grandi “rivoluzioni nazionali” americana e francese, con le quali la sovranità è passata dalla “Grazia di Dio alla Volontà della Nazione”; il successivo secolo XIX ha visto l’affermarsi del principio secondo il quale il popolo, cioè la comunità politica, e la “nazione”, cioè la comunità etnoculturale, si univano e avevano il diritto-dovere imprescindibile di unirsi in un solo Stato, cioè in un solo apparato istituzionale e amministrativo, fino a coincidere con esso (lo Stato-nazione, lo Stato nazionale). Tale ciclo si è esaurito con le due guerre mondiali, cioè con la Guerra dei Trent’anni 1914-1945;
• Il ciclo delle egemonie, avviato con la vittoria degli statunitensi e dei sovietici nel 1945 e quindi con l’avvio della sfida tra liberismo e collettivismo, è stato in genere oggetto di molti equivoci da parte di osservatori politici, di studiosi e di manipolatori dei media. Tali errori si sono perpetrati nella cosiddetta “opinione pubblica” mondiale, omologata e appiattita in un dogma ottimistico: la liberazione dal “Male Assoluto” e quindi l’avvio di un’era in cui le guerre sarebbero progressivamente scomparse.

Anche le differenti forme di europeismo – tutte – sono nate vecchie, in ritardo, alimentate da utopie pacifiste e umanitarie incentrate su un determinismo analogico: così com’era accaduto nei processi di unificazione nazionale dell’Ottocento o nel caso specifico degli Stati Uniti d’America, allo stesso modo i popoli d’Europa avrebbero trovato la via di una unità che avrebbe al tempo stesso salvaguardato le loro diversità.
Lo schema di base, per questo processo analogico, era la lettura hegeliana della storia come dialettica deterministicamente volta al trionfo del bene dei popoli e delle società attraverso lo schema tripartito tesi-antitesi-sintesi, alla quale si appoggiavano da una parte il progetto di stampo kantiano della “pace perpetua”, dall’altro l’orgoglio occidentocentrico e colonialista rendeva certi dell’eccellenza della cultura occidentale moderna e dell’Occidente hegelianamente inteso come una “sera della civiltà che non avrebbe mai avuto tramonto” (in ciò, le sciocchezze di Francis Fukuyama sono potute sembrare una risposta neohegeliana/pseudohegeliana a Spengler, e le idiozie di Samuel P. Huntington una replica neospengleriana/pseudospengleriana a Fukuyama).
Ma torniamo all’illusione storicista e umanitaria degli europeismi. Essa si si presenta regolarmente nell’europeismo mazziniano, in quello giacobino-bonapartista in qualche modo teorizzato da Drieu La Rochelle, in quello conservatore del Coudenhove-Kalergi e di Otto d’Asburgo, in quello federalista e antifascista di Ventotene (di Rossi e di Spinelli), in quello cattolico e conservatore di Schuman, di De Gasperi e di Adenauer. Fu una mezza eccezione al riguardo, forse, la teoria gaullista della “Europa delle patrie”, che nella sostanza era un antieuropeismo pensato in funzione della gelosa grandeur francese e ispirato al principio vagamente schmittiano di un avvicinamento “eurasiatico” e “geopolitico” di Europa e Russia, parallelo a un allontanamento dall’alleanza con gli Stati Uniti che fin dal principio si era rivelata un sistema per privare l’Europa Occidentale, attraverso lo strumento della NATO, della sua sovranità. A conclusioni “continentaliste” di tipo schmittiano sembrava, ancora, approdare De Gaulle quando insisteva per sbarrare la strada dell’adesione all’Unione Europea alla Gran Bretagna, considerandola “il cavallo di Troia degli Stati Uniti”: il che sembrava adattarsi al principio Oriente/massa continentaleversus Occidente/spazi oceanici del Nomos della terra.
Ma ripercorriamo le tappe del fallimento dell’attuale Unione Europea. Il 9 maggio del 1950 nel quale Robert Schuman annunziò il suo piano per la costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, sancita nel trattato di Parigi del 18 aprile 1951.Da allora, la dinamica dei successivi trattati e della successiva fondazione di realtà istituzionali quali Commissione Europea, Parlamento Europeo e Consiglio d’Europa si è mossa nella prospettiva di un’invasiva attenzione per le faccende finanziarie, economiche e fiscali gestite da una tecnocrazia burocratica che da Bruxelles e da Strasburgo si è rivelata tanto invasiva nel piano del quotidiano quanto inesistente sul piano intellettuale, storico e geopolitico. La mancanza continuativa di una politica per una scuola europea, creatrice di futuri cittadini, nella quale si insegnassero le linee di un comune passato continentale, l’identificazione della storia europea in un’astratta e grottesca linea ininterrotta della “civiltà occidentale” dall’antica Grecia alla Modernità, la sostanziale mancanza di articolazione espressa nell’ignoranza dell’elaborazione di una cultura comune dell’Europa latina medievale che ha condotto a una vera e propria “afasia costituzionale”, come a suo tempo si è visto: queste le tappe di un’Unione Europea ormai arrivata a ventotto Stati, ai quali altri se ne aggiungeranno, ma tuttavia succube non più tanto della potenza statunitense, che sembra ormai a sua volta consapevole di aver esaurito il suo ruolo, quanto dei “poteri forti” mondiali che non s’identificano né si esauriscono all’interno degli Stati, bensì vanno molto al di là di essi riducendo le classi politiche dei singoli Stati europei a loro “Comitati di Affari”.
E qui siamo arrivati al centro del problema. Dopo il 1945, la vera natura dei tempi che si stavano preparando sfuggì ai politici che, salvo quelli fino da allora impegnati nell’elaborazione, con leggi adeguate, di scenari sempre più favorevoli alle varie lobbies bancario-finanziarie, si lasciarono attrarre tutti dal fantasma della “Guerra Fredda” e su questa base pretesero un allineamento antagonistico del mondo senza curarsi né del fatto che la politica statunitense e quella sovietica, anziché opposte, erano in realtà complementari. E fu la nascita della NATO, ieri “male (forse) necessario”, oggi Moloch insopportabile che va cancellato dalla faccia della terra.
Ma qualcuno s’era accorto di qualcosa. Come il presidente Eisenhower, che nel ’56, alla vigilia della sua uscita di scena, avrebbe denunziato con forza – inatteso, incompreso, frainteso – il legame intricatissimo e letale di interessi militari. economici e industriali i gestori dei quali stavano già spartendosi il dominio del mondo a loro esclusivo vantaggio e sulla pelle dei popoli.
Oggi il potere di queste associazioni a delinquere è cresciuto in maniera tanto esponenziale che è evidente quanto i singoli governi siano incapaci di gestire la politica se non in funzione degli interessi lobbistici. La distruzione dei continenti africano e latino-americano, l’impoverimento di massa, il flusso di migranti in Europa: questi sono i mali determinati dal malgoverno di questo iper-potere mondiale e ai quali l’Unione Europea non ha saputo porre rimedio.
L’esperienza di oltre un sessantennio ci ha insegnato che gli Stati nazionali “sovrani” ( la sovranità dei quali lascia molto a desiderare: per l’Italia, si pensi a Sigonella, al Cermis e agli ordigni nucleari USA-NATO ad Aviano e a Ghedi, nel centro di un paese la costituzione del quale rifiuta la guerra e che si è referendariamente espresso contro il nucleare) non sono in grado di gestire né di regolamentare le pressioni delle lobbies, le quali dal canto loro al parlamento di Bruxelles/Strasburgo dispongono perfino di homunculi (nel senso esoterico-alchemico del termine) detti CEO – chief executive operative –, ufficialmente stipendiati dal popolo europeo per presentare gli interessi delle rispettive imprese agli europarlamentari: cioè per corromperli.
Occorre, in altri termini, abbandonare la prospettiva “sovranista”, che ha condotto a una Commissione Europea espressione dei governi degli Stati anziché dei popoli e delle nazioni, e adottare con decisione una politica “unitarista”.
E’ quindi necessario che l’Europa batta in breccia, superi anzi rinneghi definitivamente l’infausto dogma dello Stato-nazione “sovrano”. È evidente che gli Stati, in quanto appunto apparati di inquadramento istituzionale e amministrativo di società e comunità, non hanno alcun legame intrinseco e naturale con i popoli e le “nazioni”. Lo Stato-nazione è il risultato dello sviluppo di un’ideologia giacobina divenuta tra Otto e Novecento “dogma civile”, ma che non trova alcun riscontro necessitante né sul piano storico né su quello del diritto internazionale, che non a caso sovente non coincide affatto con quello interstatale. Peraltro, al fine di smantellare lo “Stato-nazione” culturale, basterebbe condurre il principio ideologico fondante alle sue estreme conseguenze: quelle di restituire voce alle nazioni “negate”, quelle che i processi di unificazione hanno sacrificato. Perché, se esistono una nazione còrsa, una nazione provenzale, una nazione bretone, una nazione biscagliese – che fra XIII e XVII secolo hanno contribuito a determinare la nazione francese cristiana –, non si vede perché oggi, nel quadro di un’Europa laica unitaria, a tali nazioni dovrebbe venir ancora negata la dignità di Stato, salvo poi rimanere parte di una nazione francese che si riconoscerebbe in una pluralità di Stati federati.
Quello che in altri termini manca all’Europa per poter nel futuro costruire una vera potenza unitaria è un’istituzione normativa e costitutiva comune che ne sia il centro regolatore e propulsore. Tale autorità potrebbe venir concepita in termini federali, com’è avvenuto per gli United States of America e per gli Estados Unitos de Mejico, o in termini confederali, come è avvenuto per la Conféderation Helvétique. Tale seconda forma, anzi, sarebbe per l’Europa più adatta a garantire il massimo delle libertà statali e nazionali sulla base però di un principio inderogabile: la rinuncia, di parte degli Stati costituenti la federazione o la confederazione, alla sovranità per quanto riguarda i quattro fondamentali diritti di governo, che nella dottrina classica dello Stato sono:

• Il diritto di bandiera, cioè di governo;
• Il diritto di toga, cioè di sovranità giurisdizionale e legislativa;
• Il diritto di spada, cioè di organizzazione della difesa;
• Il diritto di moneta, cioè di gestione della sovranità monetaria.

Gli altri diritti di gestione, dalla sanità alla sicurezza, dalla politica delle comunicazioni a quella scolastica, resterebbero intatti ai singoli Stati con la riserva di un necessario coordinamento di ciascuno di essi con tutti gli altri.
E allora, parliamoci chiaro. Dei quattro pilastri della perfetta società inquadrata in una realtà statale e sovranazionale, l’Europa di Bruxelles/Strasburgo, l’Europa della “falsa partenza”, o se volete la falsa Europa che c’inganna da oltre sessant’anni, ne ha soltanto due, e imperfetti: la “spada” che però è in mani altrui (USA-NATO) e la “moneta”, anch’essa in mani altrui (i privati nominati che gestiscono la Banca Centrale Europea). La “bandiera” è solo formale (àlgida bandiera stellata e Inno alla Gioia senza parole). La “toga” è embrionale e priva di strumenti effettivi.
Siamo all’anno zero. O rinunziamo all’Europa affrontando un caos di portata e dalle conseguenze imprevedibili, o ripartiamo da zero cominciando con il pretendere la convocazione in ciascuno degli Stati europei attualmente membri della UE di convenzione nazionale che sfoci in una Costituente Europea in grado di fondare e legittimare un organo di governo federale o confederale (un referendum europeo sceglierà la forma ritenuta più adatta) effettivo, dotato di reali poteri, che imponga ai singoli Stati la cessione della necessaria parte della loro rispettiva sovranità negli àmbiti or ora indicati e proceda battendo in breccia il “sovranismo” nazionale risorgente per sostituirlo con un “comunitarismo” in grado di gestire le diversità e le differenze.

E nella pratica, per cominciare?

Intanto, siamo realistici. Qui non si tratta di uccidere nulla e nessuno: si tratta di constatare un decesso. Quest’Europa, il sogno di De Gasperi, di Adenauer e di Schuman padri nobili della Comunità nata per il carbone e l’acciaio e poi trasformatasi in quella che noi speravamo in tanti la nuova “grande patria” a dodici stelle, quest’Europa di Bruxelles e di Strasburgo, sta volando in pezzi. E quel che la sta uccidendo è proprio l’egoismo, asservito alle lobbies finanziarie e bancarie, di quelli stessi che la egemonizzano: della Germania col suo euro “forte” che è ormai un marco travestito; della Francia con i suoi ridicoli “ritorni di fiamma” d’una grandeur ch’è ormai un ricordo; dell’Inghilterra con la sua politica del “dentro-e-fuori”, dell’Unione sì/euro no, del gioco di sponda con quel che resta del Commonwealth e il suo vecchio legame a doppio filo con il suo Figliuol Prodigo, gli Stati Uniti d’America. Quest’Europa che non si è mai curata di diventare una vera “casa comune” – come auspicava un quarto di secolo fa Michail Gorbaciov – perché in fondo ai suoi veri padroni interessava e bastava l’Eurolandia; quest’Europa che si è sempre rifiutata di guardare alle sue radici anche solo per definirle con un minimo di rigore storico e che per questo non è mai riuscita a darsi una carta costituzionale; quest’Europa che non ha mai avuto una politica estera comunitaria – e quindi una forza armata comunitaria indipendente, come auspicava con energico rigore il vecchio Schuman – e che si è messa beotamente a rimorchio di una NATO sorta per contrastare il “Patto di Varsavia” e pervicacemente sopravvissuta alla Guerra Fredda per diventare una ben dissimulata ma spietata e costosissima forza d’occupazione dell’esercito degli Stati Uniti che ci ha trascinati nelle avventure balcanica, afghana e irakena.
I paesi più deboli dell’Unione hanno solo la colpa di essere stati, appunto, deboli; di aver accettato tutti i diktat di Bruxelles/Strasburgo, dalla pseudo virtuosa austerity che faceva il gioco dei forti ma non il loro fino agli ukase sulla maturazione dei formaggi e sulla quantità di cacao necessaria a poter definire cioccolata un prodotto dolciario; di non essersi mai ribellati al principio, caduto dall’Olimpo di Washington, secondo il quale ogni nuovo membro dell’Unione Europea diveniva automaticamente anche membro di un’alleanza militare – l’esecrabile NATO, appunto – egemonizzata da una superpotenza extraeuropea. Così, di acquiescenza in acquiescenza e di sconfitta in sconfitta, di malinteso in malinteso e di svantaggio in svantaggio, ci siamo giocati la sovranità e – va finalmente detto a voce alta – la dignità nazionale in cambio di una serie di poco appetibili piatti di lenticchie. Come i sedicenti “vantaggi” che alla città di Vicenza – la quale non la voleva – sarebbero derivati da una nuova base NATO dove sono con ogni probabilità ospitate delle testate nucleari, contro la lettera e lo spirito della nostra costituzione.
Ora, dopo le chiusure nei confronti della Grecia, l’egoismo delirante e galoppante della nostra “sorella latina”, la Francia, ci offende e c’indigna. E, caro presidente Renzi, caro ministro Gentiloni, è arrivata l’ora di dirglielo in faccia. Se questi ingrati cialtroni rifiutano di riconoscere l’impegno splendido che l’Italia sta profondendo, in termini di umanità e di lungimiranza politica, nel fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione che è uno degli aspetti più gravi della crisi mondiale del nostro tempo, e pretendono di lasciarci soli a sbrigarcela con un problema più grande di noi e di loro, che riguarda loro esattamente quanto noi, allora è tempo di trarne le conseguenze. Non verremo meno ai nostri doveri di umanità e di ospitalità: sono la nostra dignità, il nostro onore, a imporci di non piegare i nostri princìpi all’egoismo altrui. Ma questa Europa che chiede di continuo e non è disposta a dare deve una buona volta far sentire la sua voce: altrimenti è bene che l’Italia – uno dei paesi fondatori di quella che poi è diventata l’Unione – riacquisti pienamente la sua libertà e spenda altrimenti, come è più necessario e più opportuno, i capitali che il carrozzone a dodici stelle ci sta costando.
Lo dico da vecchio europeista, con la morte nel cuore: quest’Europa che non vuol aiutarci a garantire nel suo stesso interesse l’equilibrio e la sicurezza nel Mediterraneo non ci appartiene e non ci merita. Il sogno di un’Europa unita, quello che le migliori intelligenze europee sognano fino dai tempi della pace di Westfalia del 1648, resta un ideale sublime; ma noi siamo stati vittime in buona fede di una falsa partenza. O il mostriciattolo mangiasoldi e sputadecreti cambia rotta e si decide a fare il suo dovere nell’interesse di tutti gli europei, o l’Italia sbatte la porta senza salutare. E, badate messieurs e meine Herren, noialtri siamo un grande paese industrializzato e al centro strategico del Mediterraneo: non siamo, con tutto il rispetto per i greci e i serbi, né la Grecia, né la Serbia. Se l’Italia se ne va, il castellaccio di carte che vi piace tanto crolla. Meditate, cari compatrioti europei del piffero: meditate.
D’altronde, appunto, questa potrebb’essere proprio la strada. Ogni fine è un principio. Se il primo colpo di piccone dovesse darlo l’Italia, perché no? Nell’ipotesi però dell’avvìo di un’immediata ricostruzione. L’Europa è morta: viva l’Europa.

Franco Cardini

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