Si sono da poco conclusi i primi round negoziali di Vienna per discutere in maniera multilaterale della crisi siriana in tutte le sue sfaccettature. Cornice dell’incontro è stato l’Imperial Hotel di Vienna, albergo extralusso al centro della capitale austriaca; purtroppo, il successo di certi negoziati è spesso inversamente proporzionale al numero di stelle di queste prestigiose location dove chi guida le sorti del mondo (o ha la pretesa di farlo) si riunisce. Lo si è visto in altre occasioni che hanno riguardato sia la Siria che l’Ucraina o anche la Libia.
I protagonisti principale sono stati quelli che partecipano attivamente al conflitto: Russia, Stati Uniti, Turchia, Iraq, Arabia Saudita e Iran; i rappresentanti di questi ultimi per la prima volta al medesimo tavolo negoziale ma seduti opportunamente a distanza massima l’uno dall’altro. In un secondo momento si sono uniti alla discussione anche gli Stati del Golfo, l’Egitto, la Giordania, il Libano e alcuni Paesi europei, probabilmente più interessati al problema dei flussi migratori che alla risoluzione del conflitto (Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia). Ovviamente presente Lady PESC, Federica Mogherini. Grande assente, Israele, e non prevista la presenza di rappresentanti siriani (sia ribelli che filo-governativi) che si aggiungeranno al secondo round negoziale tra due settimane . Ogni Stato è stato rappresentato dai propri ministri degli Esteri.
Dai colloqui sono venute fuori le ovvie differenze di visione tra chi mette come condizione fondamentale un regime change con nuova costituzione e nuovo governo (capofila gli Stati Uniti) e chi invece non esclude che Assad possa rimanere al potere (capofila l’Iran). Russia e Iran hanno mostrato grande disappunto quando hanno appreso che lo stesso giorno del summit, a Washington è stata annunciata la volontà di portare soldati altamente specializzati in Siria orientale per aiutare i “ribelli moderati” contro i Daesh. Lavrov ha rilevato la contrarietà di questa operazione al diritto internazionale che suggerisce che gli USA possono intervenire solo se ottengono un mandato dal Consiglio di Sicurezza ONU o se la loro sicurezza è seriamente minacciata o se il legittimo Presidente siriano invia richiesta formale di intervento. Secondo Kerry, la contemporaneità del summit e dell’annuncio è una coincidenza e la decisione diviene necessaria nel momento in cui i ribelli faticano a mantenere le loro posizioni, anche a causa dei raid aerei di Mosca che rischieranno, in futuro, di incrociare anche truppe americane. Da rilevare che fino a poco tempo fa, sia Kerry che Obama avevano escluso la possibilità di un coinvolgimento americano su modello Afghanistan o Iraq o anche Libia .
Il documento che è stato steso al termine della riunione finale è riassumibile in 9 punti :
1) Sono fondamentali l’unità della Siria, la sua indipendenza, la sua integrità territoriale e il suo carattere secolare.
2) Le istituzioni dello Stato resteranno intatte.
3) I diritti di tutti i siriani devono essere protetti senza distinzioni religiose o di appartenenza etnica.
4) Imperativo accelerare gli sforzi diplomatici per mettere fine alla guerra.
5) Si garantirà l’accesso umanitario a tutto il territorio e si aumenteranno gli sforzi per i rifugiati.
6) Bisogna sconfiggere l’Isis e altri gruppi terroristici.
7) Si chiede all’Onu di convocare rappresentanti del governo e dell’opposizione siriana per avviare un processo politico che porti alla formazione di un governo credibile, inclusivo, non settario, che elabori una nuova Costituzione e convochi libere elezioni, supervisionate dall’Onu.
8) Questo processo politico deve essere diretto dai siriani e i siriani decideranno il futuro del loro Paese.
9) I Paesi partecipanti e l’Onu individueranno le modalità di un cessate il fuoco parallelo al processo politico.
L’unico punto che, in caso di accordo tra le parti siriane del conflitto, potrà assumere un qualche significato concreto è il punto 7. Gli altri punti celano delle contraddizioni di fondo:
– Si parla di unità territoriale ed indipendenza in un Paese la cui unità è stata creata a tavolino su una popolazione estremamente eterogenea. Una unità completamente distrutta dalla guerra civile e non ricostituibile se non cercando di applicare il “modello Iraq” che si è rivelato essere assolutamente inadeguato e inefficace. Garantire unità senza creare forti autonomie territoriali su base etnica (esattamente come in Iraq, ma anche come ex-Jugoslavia o Cipro o nei tentativi in Libia etc) vuol dire ridare il potere in mano ad un partito formalmente laico che garantisca l’autonomia di culto a tutte le religioni, esattamente come faceva il partito Baath, che Stati Uniti e alleati, come detto, non vogliono considerare come possibile protagonista del futuro della Siria.
– Si parla di lasciare intatte le istituzioni dello Stato, ma sono le stesse modellate sulle esigenze del partito Baath.
– Si parla di garantire le distinzioni religiose e le etnie, esattamente come faceva il partito Baath e non fanno i ribelli (siano moderati che fondamentalisti).
– I siriani devono essere protagonisti della ricostruzione politica del Paese (si badi che viene scritto in un documento redatto in assenza dei rappresentanti siriani), ma non è chiaro se si comprendono anche i siriani scappati dal conflitto (come vorrebbero i russi e gli iraniani) o solo quelli rimasti in patria (come vorrebbero gli USA e alleati).
– I punti 4, 5 e 6 si commentano da soli: non è chiara la tattica attraverso cui raggiungere questi obiettivi; per questi medesimi scopi non si è stati in grado neanche di creare un coordinamento regionale.
– Per transizione politica e cessate il fuoco sono concetti poco chiari: chi vuole il Baath e la famiglia Assad ancora protagonista e chi no, chi vorrebbe la no-fly zone e chi no, chi sostiene l’intervento militare americano e chi no.
Concludendo e ritornando alle osservazioni iniziali, questi incontri lasciano il tempo che trovano e c’è chi, con esperienza decennale, lo ha capito perfettamente (Israele). Si parla di un “passo in avanti” nella risoluzione del conflitto per il solo motivo che è stato creato un documento firmato da tutti ma soggetto ad interpretazioni eterogenee e su cui non vi è alcun accordo operativo. Questo incontro, dimostra ancora una volta l’inesistenza e l’inconsistenza delle organizzazioni regionali, in cui chi può, come la Turchia e l’Arabia Saudita, fa il proprio gioco in maniera autonoma e chi non può, Italia, UE etc, si adegua alle posizioni del più influente e potente alleato americano che, con il probabile invio di soldati a sostegno dei ribelli, pare essersi rassegnato all’incapacità dei propri alleati di gestire in maniera “apparentemente autonoma” la politica regionale nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. La comunità internazionale sotto l’apparente unanimità alla lotta al terrorismo, cela una profonda e naturale frammentazione dovuta a interessi strategici differenti e spesso confliggenti e questo è evidente dal (non) contenuto del documento redatto a Vienna.
Marcello Ciola