Un libro che parla del Trattato Transatlantico, senza farlo esplicitamente.
Il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP) è un trattato, in corso di negoziazione dal 2013, fra Unione Europea e Stati Uniti d’America, volto a conseguire una liberalizzazione assoluta del commercio occidentale. Inizialmente secretato per intero, attualmente sono disponibili sul sito della Commissione solamente le linee guida e i punti salienti della trattativa.
Il lavoro di De Benoist (“Il Trattato Transatlantico. L’accordo commerciale Usa – Ue che condizionerà le nostre vite”, Arianna Editrice, 2015, 185 pp.) è molto interessante perché legge ciò che c’è dietro questo accordo. Si badi, non si tratta di nessuna teoria del complotto, perché sono, più che altro, le concezioni stesse dell’Uomo, della società, della comunità, e della politica a essere messe in gioco.
Analizzare dettagliatamente i punti e le previsioni del trattato è sicuramente uno studio estremamente necessario, ma occorre altresì una riflessione sugli aspetti culturali che stanno accompagnando questa negoziazione. Se ne conoscono, anche per esperienza, i tratti essenziali, perché la politica internazionale è abituata ad accordi del genere: gli Stati Uniti, ad esempio, conoscono il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), stipulato assieme a Canada e Messico, e il Free Trade Agreement, stipulato solamente con il Canada. Anche l’Europa e i suoi Stati conoscono simili iniziative internazionali, si pensi al Multilateral Agreement on Investment e al General Agreement on Tariffs and Trade. La stessa Unione Europea ha, come pietra fondante, la libera circolazione dei mezzi, dei servizi, dei capitali e delle persone (art. 26 TFUE), nonché, di conseguenza, il principio della concorrenza (art. 101 ss.).
Il TTIP, però, costituisce una svolta epocale perché, per la prima volta, si persegue un assoluto (e questa volta non come intento, ma con effetto immediato) azzeramento di ogni tipo di barriera tariffaria che ostacoli la libera circolazione dei prodotti, su un territorio che potrebbe essere qualificato come corrispondente a un terzo del commercio globale.
Non solo, a essere in pericolo saranno anche le c.d. “barriere non tariffarie”, ovvero l’insieme di norme (generalmente pubblicistiche) che si pongono a tutela di determinati ambiti e settori. Si pensi ai “Rapporti economici” della Costituzione italiana, che prescrivono tutele molto serrate ai diritti dei lavoratori e delle fasce più deboli, per poi funzionalizzare in un’ottica socialmente ispirata ogni tipo di iniziativa economica, anche privata.
Proprio per questo è in gioco il futuro della nostra stessa concezione della politica, delle istituzioni, del vivere insieme come parte di una comunità. Non a caso, il TTIP è stato definito, in questa opera, come l’ultimo stadio del processo di erosione della sovranità statale, conseguente al sistema di vincoli fiscali ed economici stabiliti in sede europea (Patto di Stabilità e Crescita, Fiscal Compact, ecc…).
Quale è il substrato culturale che anima la negoziazione del TTIP e incoraggia la conclusione delle trattative? La mondializzazione. Questa tendenza è ben diversa dal capitalismo tradizionale che è terminato nel Novecento: a differenza di quell’epoca, in cui gli Stati erano attivi nel favorire e incoraggiare il libero scambio dei beni su scala internazionale, l’odierno “turbocapitalismo” annullerebbe gli Stati stessi. Saremmo di fronte, di conseguenza, a una vera e propria cancellazione dello spazio (“non c’è più l’Altrove”, p. 52). Ne discende di conseguenza, in capo al cittadino (che diventa “cittadino mondiale”), una perdita assoluta di ogni tipo di prerogativa, controllo, contributo decisionale, partecipazione politica: difatti, “Trasferire le decisioni su una scala in cui i cittadini si ritrovano necessariamente impotenti, dato che la democrazia non può esercitarsi, è il mezzo che la forma – capitale ha trovato per emanciparsi da qualsiasi controllo politico” (p. 67).
Deriva da quest’assunto il ruolo decisivo svolto dalla governance e dalla tecnica. La prima rivendica l’utilizzo dei principi dell’economia privata per gli affari pubblici (p. 87), a discapito del verticalismo del governo classico (p. 102); la seconda, conseguentemente, fissa degli obiettivi neutrali, “incontestabili”, spesso di natura contabile, a cui le istituzioni si devono conformare (p. 95), finendo per distogliere l’attenzione dagli obiettivi classici della politica.
Dal concetto aristotelico – tomista di “bene comune”, dunque, si passa a quello di “interesse generale”, molto più fluido, risultato di interessi privati contrapposti in cui lo Stato diventa mero regolatore (p. 105 ss.)
L’aspetto più interessante dell’opera di De Benoist è, però, il pragmatismo che contraddistingue la sua lettura. Si pensi al tema, attuale, dell’uscita dall’Eurozona: in quest’ambito è facile cadere nella demagogia, predicando la soluzione più radicale. La posizione dell’Autore è differente: ben venga, afferma, l’uscita dall’Euro in modo tale da riprendere parzialmente le redini dell’economia monetaria, ad esempio per agire sulla svalutazione, ma tornare a una moneta nazionale non avrebbe senso, se non si mantiene saldo un circuito comune più forte, riservato agli scambi internazionali (p. 43). Lucidissima, d’altra parte, è la critica agli “altermondialisti”, ovvero a coloro che, “cittadini del mondo”, pur criticando le derive della globalizzazione, non ne contestano le fondamenta neutralizzanti di ogni popolo, intendendo solamente “moralizzarala” o adeguarla secondo un paradigma “socialmente sostenibile”.
Di pari merito, è criticabile la posizione dei c.d. “sovranisti”, secondo cui la soluzione della crisi europea e internazionale sarebbe unicamente costituita dal ritorno allo Stato nazionale (p. 148 ss.). Lo Stato, da una parte, si troverebbe irrimediabilmente in una fase di declino, troppo piccolo per resistere alla politica internazionale e troppo grande per rispondere alle istanze della propria società, sempre più complessa. Soprattutto, però, rivendicare una mera Europa dei popoli significherebbe fare il medesimo gioco dei tecnocrati europei, ovvero mantenere un’Europa intergovernativa, in cui a uscire vincitore sarebbe sempre il libero mercato.
L’Europa, quindi, continua a essere vista come un’occasione assolutamente da non abbandonare. La sovranità europea, ancora da raggiungere, non dovrà essere una sovranità accentrata secondo i paradigmi ottocenteschi, bensì diffusa. Ed ecco che si schiude la vera, unica forma Europea, quella più corrispondente alla sua complessità, alla sua “multicromaticità”: l’Europa come Imperium. Confini sfumati ma certi, nazioni non cancellate ma integrate secondo un’applicazione vera, e non sbiadita, del principio di sussidiarietà; gli Imperi “riuniscono diverse etnie, diverse comunità, diverse culture, una volta separate, sempre distinte” (p. 153), non appiattiscono le identità ma le valorizzano in un sistema solidale più grande.
Solo così l’Europa potrebbe raggiungere la forma di un vero blocco territoriale – politico in grado di resistere alle pressioni d’Oltreoceano e del Capitale, magari in una collaborazione, sempre più intensa, con la Russia.
A questo punto, però, emerge una domanda sempre più pressante: esiste tale coscienza europea? Se è vero, come dice lo stesso Autore, che la coscienza di popolo può essere raggiunta anche successivamente a un’unificazione, come accadde per la Francia (p. 148; lettura, di questa dinamica, che meriterebbe un approfondimento a parte), occorrerebbe chiedersi se i leader europei abbiano in mente un cammino contraddistinto da tale nobiltà. La domanda, ovviamente, è puramente retorica, alla quale si aggiungerebbe il dubbio che molti cittadini europei, sovrastati dal nichilismo di questi tempi, non riescano neanche a immaginare o, meglio, a esser pronti per questa svolta.
Se un’unificazione vera e propria dell’Europa, dunque, sembra essere ancora remota nel manifestarsi, è comunque indubbio che la strada da percorrere sia solo questa.
Giorgio Romano.