Abbiamo buoni motivi per credere che il recente ampliamento dello Hotel Santa Chiara di Venezia (ormai noto a tutti come il “Cubo di Venezia”) verrà ricordato negli anni futuri come un momento topico, seppur in negativo, dell’architettura italiana di questo inizio di XXI secolo. Sono troppe, infatti, le ragioni per rammaricarsi e parlare senza mezzi termini di una grande occasione perduta.
Il contesto veneziano avrebbe infatti potuto essere un palcoscenico ideale per realizzare un edificio contemporaneo di livello internazionale. Il progetto avrebbe potuto essere l’occasione per verificare sul campo alcune delle modalità d’intervento messe a punto dal più avveduto dibattito teorico sui centri storici. Infine, l’edificio avrebbe potuto essere un ulteriore, importante tassello del processo di riqualificazione di Piazzale Roma, un’area che negli ultimi anni sta faticosamente cercando di evolversi dall’anonimo terminal che tutti conosciamo ad una moderna e funzionale porta di accesso alla città lagunare.
Il progetto sfortunatamente non ha centrato nessuno di questi obiettivi, presentandosi come un volume anonimo ed inespressivo, incapace di inserirsi in modo efficace nel contesto e consegnare alla città una realizzazione di qualità. Questo vale sia per la facciata dell’edificio che si affaccia sul delicato paesaggio del Canal Grande, sia per il fronte su Piazzale Roma, che appariva certo meno problematico da un punto di vista dell’inserimento ambientale e dal quale bisognava pretendere qualche maggiore sussulto espressivo.
Paradossalmente, il limite del progetto va a nostro avviso ricercato nelle scelte formali eccessivamente impersonali. I progettisti non hanno infatti optato con decisione né per un’architettura schiettamente contemporanea, in grado di inserirsi con personalità nell’area d’intervento, né per il recupero di elementi linguistici vernacolari, che avrebbero invece garantito una maggiore capacità mimetica dell’edificio nel contesto. Se la prima alternativa avrebbe potuto rappresentare un azzardo, per la seconda i riferimenti di qualità non sarebbero mancati, dalla casa alle Zattere di Ignazio Gardella all’insediamento abitativo di Giancarlo De Carlo nell’isola di Mazzorbo, fino al più recente intervento di Cino Zucchi alla Giudecca.
È scaturita pertanto una realizzazione che non è né di respiro internazionale, né in alcun modo legata alla tradizione veneziana, un oggetto indecifrabile che appare allo stesso tempo datato e decontestualizzato.
Nonostante gli esiti insoddisfacenti del progetto, va sottolineato come l’atteggiamento di certa critica sia stato probabilmente eccessivo e sproporzionato. Le polemiche che hanno infiammato nell’ultimo mese le pagine di tutti i principali quotidiani non hanno fatto altro, a parte poche eccezioni, che riproporre le solite critiche generiche contro l’architettura e gli architetti, senza tentare di razionalizzare in alcun modo i contenuti e le motivazioni del progetto. Nonostante la criticabilità dell’edificio, ci sembra davvero sorprendente che autorevoli esperti come Salvatore Settis e Vittorio Sgarbi e importanti giornalisti come Gian Antonio Stella si limitino all’ennesima levata di scudi, gridando “vergogna” e richiamando in modo più o meno esplicito il ruolo delle Soprintendenze come ultimo baluardo di fronte alla barbarie architettonica. A nostro avviso la soluzione per evitare in futuro interventi discutibili in contesti potenzialmente critici non è certo un improbabile “commissariamento” dell’architettura o un semplice giro di vite nell’ambito delle Soprintendenze, ma è il miglioramento della qualità e della quantità delle soluzioni progettuali. Questo obiettivo è ottenibile solamente attraverso procedure allargate e di maggiore evidenza pubblica come, ad esempio, i concorsi di progettazione, che auspichiamo possano in qualche maniera diventare la via maestra anche per i progetti privati di maggior importanza e rilevanza.
Alessandro Tricoli