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L’accordo Grecia – UE. Il Re è oramai nudo, e tale resterà. di G. Vinciguerra

Aspettiamoci valanghe di commenti soddisfatti, rituali, di prammatica dopo la lunghissima maratona negoziale che in 17 ore consecutive (record europeo indiscusso) ha portato a quello che è stato definito l’ “accordo” fra il governo greco e le Istituzioni europee. Aspettiamoci l’ondata tropicale di tutta la retorica e la fuffa del caso, i commenti soddisfati di destra e sinistra: tutti hanno vinto e nessuno – lo dice un’autorità morale ed un raffinato diplomatico del livello di Jean-Claude Juncker – è stato umiliato.
Ma perdiamoci anche poco tempo, e se possibile guardiamo a quanto di evidente emerge dalle compatte ed inutili nebbie massmediali.
Dopo il referendum greco sulle misure-capestro che la trojka a guida FMI voleva imporre con una serie di “trattative” a senso unico al governo greco, abbiamo letto le acide dichiarazioni dei politici tedeschi secondo cui col referendum medesimo la Grecia nei confronti dell’Europa Unita aveva definitivamente sprecato “la moneta più importante: la fiducia” (Merkel). Tornano alla mente gli accattivanti apologhi di Benjamin Franklin sulla necessità di farsi vedere lavorare all’alba per non dover pagare i propri debiti, ovvero della fiducia come conformismo sociale falso e bugiardo.
Per cui, in un’apoteosi di ipocrisia protestante tedesco-slovacca-finnica-olandese da un lato si è sostenuto che la porta rimaneva aperta per la Grecia, che essa doveva rimanere nell’Europa unita etc. (e già rassicurazioni mielose al Presidente degli Stati Uniti, che tutto spera dall’Europa Unita tranne una spaccatura interna che pregiudichi le grandi manovre antirusse della NATO al confine ucraino), e nel contempo che fosse la Grecia medesima a “dover dimostrare” di “meritare la fiducia” dei partner europei. Povere verginelle, impaurite e quasi stuprate dal ruggito del coniglio del referendum ellenico! Che specchiati apostoli della democrazia popolare, quali luminosi eredi di Voltaire ed Honecker, che si adombrano di fronte al voto popolare greco che, a dispetto delle campagne di disinformatzjia dei media occidentali rivolti in primo luogo al proprio pubblico nazionale, ha semplicemente dichiarato l’ovvio e l’evidente, ovvero che i debiti delle banche elleniche (ma di proprietà, capitali e responsabilità dei circoli finanziari apolidi che tuttavia vedono un preoccupante eccesso di partecipazioni azionarie anglo-franco-tedesche) erano già stati ripagati abbastanza dal popolo greco?
In giorni, poi, in cui la parallela vicenda del “salvataggio” della Carinzia tramite la ristrutturazione del debito da parte delle banche bavaresi aveva chiarito una volta ancora come funzionasse il grande affare che continua a far pagare agli Stati europei – e quindi ai loro cittadini – le voragini lasciate da legioni di speculatori internazionali.
La prima verità di tutta questa storia è che persino gli europeisti più appassionati e convinti (ricordo solo le belle righe di Franco Cardini sulla “morte dell’Europa” qui pubblicate) hanno dovuto gestire preoccupanti conati di vomito nel contemplare a cosa si fosse ridotto il sogno europeo di De Gasperi, Schuman ed Adenauer.
La seconda verità è che è stata definitivamente sepolta ogni residua credibilità di un Partito Socialista Europeo che al netto di qualche stinta frase di circostanza si è ridotto a ruota di scorta dei diktat della finanza internazionale, sia in Germania che in Francia che nella stessa Grecia, in cui il Pasok ha dato al mondo l’ignobile spettacolo di stampella sinistra e braccio armato della trojka, dopo decenni di personali e plateali responsabilità politiche nella falsificazione dei bilanci che hanno affondato i conti e la vita dei greci, senza alcun pudore.
La terza verità è che, al di là di una destra liberale à tete allemande e di una sinistra socialista à tete allemande anch’essa, il braccio di ferro greco ha visto in modo molto chiaro l’affrontamento di due idee d’Europa, tra loro opposte ed incompatibili: una che esige il dominio dell’economia sulla politica, e del potere apolide dell’alta finanza su ogni istituzione, ivi comprese quelle dell’Europa comunitaria, e l’altra che in maniera sfrangiata e contraddittoria, variegata ed embrionale ha iniziato a chiedere un’Europa politica, che sia in grado di disciplinare l’arroganza onnivora della finanza e della speculazione internazionale, e sia capace di mettere davanti ai diritti delle banche quelle dei popoli.
Chi scrive conosce abbastanza bene l’armata Brancaleone dei partiti e movimenti europei “no euro” per valutarne l’assoluta incapacità (nella maggior parte dei casi) di comprendere i meccanismi stessi della globalizzazione finanziaria apolide e speculativa; il loro crescente successo elettorale vale quindi più come sintomo che come soluzione; e per tuttavia il sintomo è epocale: la richiesta che emerge sempre più dai popoli europei, dalla loro pancia – vuota -, è più politica e meno banche. Una richiesta di fronte alla quale i grandi partiti tradizionali dell’UE si rivelano del tutto incapaci anche solo di balbettare una risposta che non sia ancora più populista di quella dei partiti populisti: la plateale fuga del Regno Unito del conservatore Cameron, da qui al 2017, dall’Unione Europea ne è il manifesto più chiaro. E francamente non si vede perché la protesta leghista contro i soldi spesi per gli immigrati sia rozzo populismo razzista, mentre le analisi che infarciscono la stampa nordeuropea vicina al Partito Popolare sull’incapacità culturale dei greci e dei mediterranei di onorare i propri impegni finanziari siano qualcosa di diverso.
E siccome l’alternativa all’Unione Europea a testa FMI non potrà essere mai (almeno nei prossimi 50 anni) un mero ritorno a stati nazionali ancora più deboli e dipendenti da banche centrali di proprietà privata ed apolide, questo grido di più politica ha un solo senso storico ed istituzionale in cui concretizzarsi: più Europa politica, meno falsi egoismi nazionali, che coprono in realtà lo strapotere delle stesse lobbies che gestiscono i deliri speculativi delle grandi banche europee, che tengono a libro paga classi politiche le quali cedono volentieri la propria verginità in cambio di qualche milione di euro.
In questo quadro l’accordo impostato a Bruxelles da legioni di sherpa e camerieri e accettato, come leggiamo, da un Tsipras senza nemmeno più la propria giacca, appare prima di tutto un capolavoro di arroganza. Una trattativa in cui alla sostanza dei provvedimenti si è sovrapposto fin dall’inizio una pubblica rappresentazione sadica in cui il potere doveva schiacciare il debole che aveva osato agitarsi anziché ringraziare. Non siamo così idioti da rinverdire i luoghi comuni sui tedeschi-kapò. La capa del FMI è francese. Ma il delirio di onnipotenza di questa élite politico-finanziaria internazionale autocooptatasi in circuiti perversi e pervertiti, in cui il bravo politico della nazione fedele viene ammesso dopo alcuni decenni di alacre e felice servitù, ha il solo parallelo letterario dei circoli libertini delle opere di De Sade. Lussuria, denaro e potere, come ci rammenta T.S. Eliot nel IV Coro de La Rocca, sono il loro metodo e scopo.
I giornali più asserviti oggi applaudono all’accordo perché è bene applaudire e scappellarsi al passaggio del signorotto locale. Quelli più critici citano alcune clausole del medesimo, tacendo della ignobile paradossalità che le sostanzia, tale da restituire una struggente e romantica dignità storica e politica anche alle inutili proteste della sinistra di Syriza.
Un solo esempio: il prestito di 86 miliardi dal fondo salva-stati (che è stato ribattezzato non a caso salva-banche) dovrà esser garantito da un fondo di garanzia di 52 miliardi di proprietà dello Stato greco il quale per un soprassalto di dignità del PSE è stato lasciato in Grecia e non – vedi caso – deportato in Lussemburgo, paese d’origine di Juncker, come dal testo originario sottoposto con tutta l’autorità del caso a Tsipras. Ma il bello non è qui: a cosa serviranno questi denari greci? Citiamo:
«Il fondo per la privatizzazione degli asset greci avrà l’obiettivo di raggiungere i 50 miliardi. I primi 25 saranno usati per la ricapitalizzazione delle banche. Tutto quello che arriverà oltre questa soglia sarà usato per metà per abbattere il debito e per l’altra metà per finanziare gli investimenti. È quanto si legge nell’accordo firmato stanotte a Bruxelles. Il fondo, prosegue il testo, avrà sede in Grecia e sarà gestito “dalle autorità greche sotto la supervisione delle competenti istituzioni europee”. In accordo con le istituzioni stesse, poi, si legge nell’intesa, sarà adottato un pacchetto di misure per garantire procedure di gestione trasparenti “in linea con i principi dell’Ocse”. L’aspettativa è che la cifra dei 50 miliardi, molto difficile da raggiungere, resti teorica e che in effetti il fondo serva soltanto a vendere una parte dei beni dello Stato per ricapitalizzare le banche.»
Così ilfattoquotidiano.it di oggi, che evidenzia chiaramente come tutta la manovra della trojka abbia come obiettivo il rimpolpare le casse delle banche elleniche, ma evita tuttavia di rammentare come le banche oggetto di cotante attenzioni siano certamente basate in Grecia, ma di proprietà di cordate azionarie che rapidamente superano i confini nazionali ellenici e risalgono a gnomi della finanza stranamente nord-europei. Le stesse banche che hanno la responsabilità di aver prodotto danni immensi all’economia greca, che hanno senz’altro corrotto generazioni di politici greci (pratica tutto sommato facile, antica ed economica, ben più di quanto paia), che han funto da consulenti per la falsificazione dei bilanci dello stato greco… Per non parlare del fatto che la trojka mascherata vuole ancora imporre alla Grecia una serie massiccia di aumenti di tasse, prezzi e tagli esplicitamente mirati a colpire i redditi e le pensioni minime, mentre sono stati ostacolati e respinti molteplici tentativi del governo greco di far cassa appesantendo sulle tasse di società e i redditi alti.
Non può che tornare in mente una volta di più l’aurea massima di Giacinto Auriti, secondo cui “i politici sono i camerieri dei banchieri”. E così capiamo meglio anche la ferocia con cui governi come quelli nord europei vogliono dallo stato greco – ossia dai cittadini greci – i soldi che i loro banchieri hanno così ben utilizzato ed investito.
Oggi, 13 luglio 2015, è quindi iniziato un altro round del conflitto fra i popoli e la finanza. Con la sua finezza, Papa Francesco l’ha detto apertamente, con un assist al governo greco che la sinistra europea ha vergognosamente avuto paura anche solo di accennare, piegandosi senza alcuna dignità al mantra liberista delle “riforme”, nuovo idola tribus della globalizzazione.
Eppure, nel frattempo, la battaglia perduta del governo greco ha ottenuto un risultato. Che la battaglia fosse persa fin dall’inizio l’avevano chiaro prima di tutto i governanti greci stessi, soprattutto quando hanno potuto toccar con mano lo spessore della solidarietà mediterranea della sinistra al governo in Francia ed Italia, ed essendo ancora del tutto insufficiente la cauta ma reiterata solidarietà espressa a Tsipras da Vladimir Putin. Ma prolungando per settimane trattative defatiganti e prive di ogni concreto sbocco positivo, esibendo tutti i trucchi che un millenario popolo di grandi mercanti (questo è Atene, non scordiamolo) ha raffinato, giocando brillantemente con l’affettata quanto divertente antipatia scamiciata di Varufakis, prendendo santamente per i fondelli l’algida idolatria protestante per gli dèi Prestito e Denaro, tirando per il naso fino all’ultimo secondo utile la spocchia degli euro burocrati, sparando infine l’ultimo fuoco d’artificio del referendum popolare (e un politico scafato sa perfettamente che nulla conta meno in democrazia del voto popolare) la piccola Grecia ha urlato con tutta la sua voce che il moderno Re di un’Europa senza politica, senza identità e senza storia è nudo. E nulla, al di là del culto del potere, della lussuria e del denaro, lo riveste e lo connota.
L’Europa, quella nata in Grecia e Roma, nel Medioevo e negli ultimi Imperi sovranazionali del Novecento, l’Europa dell’unità nella diversità che ancora riempiva l’esperienza di vita di De Gasperi, Schuman ed Adenauer, l’Europa dei popoli e delle culture è un’altra cosa. È veramente tutta un’altra cosa dall’Europa delle banche e dei loro servi, che non ha pietà per nulla e nessuno.
E questo noi, vecchi inguaribili europeisti, lo sappiamo. E non lo dimenticheremo. Diffidate dalle imitazioni, soprattutto quando puzzano di fame, ingiustizia, di sepolcri imbiancati, di morte.

Giovanni Vinciguerra
13 luglio 2015

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