Il 1866 rappresenta una data fondamentale per le regioni Veneto e Friuli e la Provincia di Mantova, ovvero l’annessione al Regno d’Italia, avvenuta esattamente 150 anni fa a seguito del cosiddetto terzo conflitto d’indipendenza e al seguente plebiscito. Un plebiscito oggi contestatissimo da chi vorrebbe un Veneto indipendente o almeno autonomo. Ne parliamo con il dott. Francesco Mario Agnoli, Presidente emerito dell’Associazione Culturale Identità Europea, tra gli autori del testo di prossima uscita Veneto 1866: da Lissa all’Unità della casa editrice Il Cerchio.
A cura di Nicolò Dal Grande
Gent.Mo dott. Agnoli, grazie per la sua disponibilità. Il 2016 vedrà l’anniversario dell’unità di Veneto e Friuli al Regno d’Italia, ad un secolo e mezzo da un plebiscito oggi molto contestato. Storicamente parlando, è giusto considerare legittimo il plebiscito del 1866?
“Come sanno bene tanto gli storici quanto i giuristi, cui in definitiva competono, i giudizi di legittimità vanno contestualizzati. All’epoca, se non nell’opinione pubblica che aveva ancora un peso molto modesto, nelle Corti e nei governi di tutta Europa il plebiscito veneto del 1866 era perfettamente conforme alle regole non scritte, alla prassi di un istituto finalizzato esclusivamente a dare una mano di vernice di conformità alla volontà popolare a decisioni già prese altrove. Come conseguenza di guerre vinte o perse o comunque di accordi fra governi.
Tuttavia la contestualizzazione non esclude in alcuni casi la possibilità, quanto meno sul piano storico – quello giuridico non può prescindere dalla conformità alle leggi vigenti – di un giudizio attuale, che in qualche misura valga anche per l’epoca cui si fa riferimento. Vi sono, difatti, criteri e valori della nostra epoca totalmente estranei, se non addirittura per loro disvalori, ai contemporanei dei fatti, altri invece già presenti e condivisi anche se non ancora o malamente applicatisi. Così, ad esempio, il nostro attuale giudizio sul fenomeno della colonizzazione delle popolazioni di altri continenti ad opera delle Potenze europee, in quanto fondato su parametri totalmente diversi da quelli dell’epoca, non può in nessun modo estendersi ai protagonisti di quegli eventi, sinceramente convinti del dovere dell’uomo civilizzato di portare o la fede cristiana o la civiltà o, più spesso, entrambe a popolazioni non necessariamente inferiori – come pure molti credevano -, ma comunque arretrate – il famoso “fardello dell’uomo bianco” di kiplinghiana memoria -.
Ugualmente può dirsi per le crociate, oggi spesso oggetto di giudizi di condanna e comunque di valutazioni critiche oltre il limite del ridicolo.
Diverso invece il caso dei plebisciti del XIX secolo, perché questi comunque presupponevano la convinzione, proprio da parte di chi li promuoveva, inserendoli nei trattati internazionali, del diritto dei popoli all’autodeterminazione, sicché il fatto di organizzarli in modo da rispettare solo formalmente tale diritto per conseguire invece un risultato predeterminato in base alle decisioni non dei popoli, ma delle Corti, contrastava, nonostante la conformità alla prassi da tutti seguita, con quella che non solo oggi, ma già allora costituiva la stessa ragion d’essere del plebiscito.
In questo senso può essere corretto valutare i plebisciti ottocenteschi almeno secondo i nostri attuali criteri, appunto perché in linea di principio condivisi anche dagli uomini dell’epoca, che, difatti, proclamavano di farne applicazione mentre invece li violavano, e, quindi, pervenire ad un giudizio di illegittimità sul plebiscito del 1866. A patto però di tenere a nostra volta conto che tale giudizio coinvolge tutti i plebisciti di quel secolo, incluso quello – di rado citato – avente ad oggetto l’annessione di Nizza e della Savoia alla Francia, che l’Imperatore dei francesi, Napoleone III, d’accordo con Vittorio Emanuele II, fece svolgere solo dopo che le sue truppe avevano preso possesso dei territori interessati e tutti gli amministratori locali erano stati sostituiti con sostenitori dell’annessione.
Punto centrale di chi considera il plebiscito del 1866 un imbroglio, è il sottolineare di come a partecipare all’evento fosse solamente una limitata componente della popolazione veneta. Questa minoranza, votante o per censo o per istruzione, scelse per convinzione l’unità o dietro al voto ci furono interessi secondari?
“Il dato non è esatto. Il plebiscito del 1866, come tutti i plebisciti dell’epoca, era, a differenza delle altre consultazioni elettorali, nelle quali il diritto di voto era condizionato al censo e all’istruzione, a suffragio universale maschile, in quanto il diritto di voto spettava a tutti i maschi di maggiore età, cioè di ventuno anni compiuti. Che poi di fatto la popolazione rurale non abbia partecipato o abbia partecipato in misura molto ridotta è altro discorso. Caso mai l’accento va posto sulla pressoché totale mancanza di libertà nell’espressione del voto, non segreto, ma pubblico e in seggi controllati dai fautori dell’annessione.
Quanto al risultato del plebiscito nonostante che questo sia stato a suo tempo ufficialmente proclamato dalla Corte d’Appello di Venezia e che in alcune città venete esistano tuttora lapidi con l’indicazione dei voti manca il dato – quanto meno non sono riuscito a reperirlo – sulla percentuale dei votanti, che si può tuttavia calcolare con qualche approssimazione, essendo noto – sia pure non con assoluta esattezza – il loro numero assoluto – 646.931 secondo il comunicato della Corte d’Appello veneziana, 642.100 secondo la lapide di Venezia, su una popolazione pari, inclusi donne e minori, a 2.485.983. veneti -. Comunque, pur rinunciando ad un calcolo preciso, probabilmente impossibile, si può concludere che la percentuale dei votanti si attestò intorno al 50% degli aventi diritto, mentre quella dei votanti favorevoli all’annessione – qui il calcolo è possibile con esattezza – fu del 99,96%.
Non va comunque dimenticato che le appena insediate – in anticipo rispetto allo svolgimento del referendum – autorità italiane o comunque favorevoli all’annessione – con relative truppe – esercitarono fortissime pressioni non solo per il “sì”, ma per la partecipazione, che si sarebbe voluta totalitaria, sicché è probabile che la mancata indicazione del dato sulla percentuale dei votanti non sia per nulla casuale.
Un altro particolare, modesto, ma interessante, è la mancata concordanza, fra loro e con quelli forniti dalla
Corte d’Appello, dei risultati, che pure sono stati considerati degni di essere immortalati nel marmo delle lapidi. La lapide del Palazzo Ducale di Venezia riporta 641.758 consensi all’annessione, 69 contrari e 273 nulli contro i 641.758 sì e i 69 no di quella murata in piazza delle Erbe a Padova. Differenze modeste, ma significative della scarsa importanza attribuita all’esatto riscontro di un voto che doveva e poteva essere soltanto plebiscitario. All’epoca le autorità consideravano i plebisciti alla stregua di feste popolari, nelle quali i fedeli sudditi manifestavano al sovrano la loro gioia per gli splendidi risultati conseguiti. Per questo non è azzardato affermare che i plebisciti del XIX secolo stanno alla base del consenso di piazza di cui si fecero poi forti le dittature del XX, che appunto sul plauso delle cosiddette “manifestazioni oceaniche” fondavano l’indiscutibile dimostrazione del saldo e sicuro rapporto di fiducia fra il dittatore e il suo popolo.
Non è un caso se gli storici “risorgimentalisti”, dell’epoca e successivi, replicano ai critici del plebiscito che in ogni caso la piena adesione popolare all’annessione venne confermata dall’entusiastica accoglienza riservata dal popolo veneto a Vittorio Emanuele II il 7 novembre 1866 in occasione della sua prima visita a Venezia.
Sull’ultima parte della domanda – presenza di “interessi secondari” influenti sul voto- non mi sento in grado di dare una risposta puntuale, che presuppone la conoscenza di indagini sociologiche ed economiche sulla popolazione veneta dell’epoca. Certamente molti voti a favore dell’annessione furono dati per prudenza, perché non si poteva fare altrimenti e, forse, per la speranza dei ceti commerciali di maggiori opportunità economiche, che poi non si realizzarono. D’altra parte il governo di Firenze aveva già pronta una lista di veneti da preporre alle amministrazioni locali e di altri da nominare al Senato. E’ indubbio che questi “beneficati” si diedero da fare coi loro familiari, dipendenti e clientes per ottenere quel voto plebiscitario che il Governo di Vittorio Emanuele II si aspettava di conseguire anche con il loro concorso.
In pochi sottolineano che, nel programmare il plebiscito, un ruolo centrale fu giocato dal secondo Impero francese di Napoleone III, che ne fece “dono” all’Italia dopo averlo ottenuto dall’Impero d’Austria a seguito delle note vicende del terzo conflitto risorgimentale. I veneti avevano dunque una concreta libertà di scelta nel decidere le sorti della propria terra?
“E’ indubbio che nel 1865-66 Napoleone III giocò un ruolo centrale nella vicenda, quello, che riteneva spettare di diritto alla Francia, all’epoca ancora la prima potenza continentale, di arbitro e moderatore dell’intera Europa. Non solo, quindi, delle vicende italiane, in realtà inizialmente marginali, ma dell’intera questione sfociata nel conflitto, politico-diplomatico dapprima, poi bellico, che contrapponeva Austria e Prussia. Conflitto che aveva formalmente come primo oggetto la controversa gestione dei cosiddetti “Ducati danesi” – Schleswig-Holstein -, conquistati due anni prima da Prussia e Austria, allora alleate nella guerra contro la Danimarca ma, soprattutto, il predominio in Germania, fino a quel momento detenuto dall’Austria, che controllava la Confederazione tedesca. A questo potenziale conflitto l’Italia, che, nel frattempo, dopo il parziale insuccesso della Seconda Guerra d’Indipendenza, aveva cercato di acquistare il Veneto dall’Austria per denaro, era rimasta inizialmente estranea e vi venne cooptata dalla Prussia quando il cancelliere Bismarck, allo scopo di impegnare una parte dell’esercito austriaco sul fronte meridionale, le offrì a tamburo battente – “prendere o lasciare” – un patto di alleanza, limitatissimo nell’oggetto e nel tempo, che, in caso di vittoria, averebbe assicurato a Vittorio Emanuele II il possesso del Veneto.
Napoleone III, che, giocando su più tavoli, contava di ricavare dal contrasto fra i due potenti vicini qualche allargamento territoriale sul Reno – poi non conseguito-, aveva dapprima sostenuto il progetto di un congresso di tutte le Potenze europee per una soluzione diplomatica della vertenza. Fallito il tentativo, perché tanto l’Austria quanto la Prussia volevano la guerra, colse la duplice occasione dell’inopinata sconfitta dell’Austria in Germania e dell’altrettanto inopinata sua vittoria in Italia per collocarsi, quale mediatore e garante, al centro delle trattativedi pace a conclusione di una guerra cui non aveva partecipato.
La Prussia, vittoriosa a Sadowa, aveva fretta di chiudere il conflitto, da un lato senza indebolire troppo l’Austria, dall’altro mantenendo l’impegno con l’Italia di assicurarle il possesso del Veneto. A sua volta, l’Austria, che non aveva rapporti diplomatici con l’Italia e non voleva riconoscersi vinta da un paese battuto tanto per terra – Custoza- quanto, soprattutto, per mare – Lissa-, non intendeva cedere il Veneto direttamente a Vittorio Emanuele II. A questo punto Napoleone III, forte del ruolo attribuitosi già durante le manovre per evitare la guerra (anche attraverso accordi più o meno segreti tanto con la Prussia quanto con l’Austria), si offrì di superare la difficoltà ricevendo dall’Austria il Veneto per girarlo poi all’Italia.
Per dare maggior peso al proprio ruolo e al tempo stesso evidenziare agli occhi dell’intera Europa la sua qualità di “Imperatore democratico”, rispettoso della volontà dei popoli, l’Imperatore – non “di Francia”, ma, appunto, “dei francesi” – pretese che l’annessione del Veneto all’Italia fosse preceduta da un plebiscito popolare, ma si trattava per l’appunto di uno dei plebisciti di quel secolo: ad esito scontato. Non vi fu, quindi, alcun “dono”, ma più semplicemente l’adempimento di un obbligo internazionalmente assunto. Soltanto in Francia un giornale l’Union, forse in omaggio alla tradizionale Grandeur o per piaggeria, pose come reale, attribuendogli una inesistente facoltà di scelta, il problema di cosa avrebbe fatto del Veneto cedutogli dall’Austria l’Imperatore. Anche a non tenere conto del fatto che il passaggio di sovranità dall’Austria alla Francia avvenne, secondo la procedura voluta dallo stesso Napoleone III, in contemporanea a quello, per così dire intermedio, dalla Francia ai Rappresentanti Veneti, non era affatto così. L’esito, al quale la Prussia, che voleva mantenere quanto pattuito con l’alleato italiano, aveva un interesse diretto, non poteva che essere quello dell’annessione al Regno sabaudo. La stessa Austria, nonostante la sua permanente ostilità, pattuì, con largo anticipo sullo svolgimento delle votazioni, con i rappresentanti di Vittorio Emmanuele II, e non con quelli di Napoleone III o di altri, tutte le regole del passaggio riguardanti anche i reciproci rapporti finanziari, il ritiro delle sue truppe ancora presenti a Venezia, Mantova e Verona, e il destino dei funzionari imperial-regi.
Formalmente il quesito plebiscitario proposto: “Dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo monarchico-costituzionale del re Vittorio Emanuele e d’ suoi successori”, ammetteva anche la risposta negativa. Tuttavia, nell’assoluta certezza che si trattava di un’ipotesi impossibile, non era stata prevista alcuna alternativa all’annessione nonostante fosse ben chiaro a tutti, Napoleone III incluso, che un risultato diverso avrebbe avuto ripercussioni molto difficili da gestire, col rischio di rimettere in discussione lo stesso trattato di pace fra Prussia e Austria e di causare una ripresa della guerra su entrambi i fronti. In realtà nessuno se ne preoccupò perché era pacifico che il plebiscito si sarebbe svolto, esattamente come era accaduto cinque anni prima per Nizza e la Savoia, quando le truppe italiane avessero occupato l’intero territorio veneto e pressoché tutte le amministrazioni locali fossero rette da sostenitori dell’annessione.
Per rispondere in breve alla domanda, dopo questa troppo lunga motivazione: nel 1866 col plebiscito i Veneti non ebbero una concreta libertà di scelta nel decidere le sorti della propria terra.”
Domus Europa ringraziano il dott. Francesco Mario Agnoli per la disponibilità