A novant’anni dal genocidio degli armeni a opera dei turchi, il riconoscimento ufficiale di esso da parte di Ankara è ancora lontano, ma qualcosa nella società turca comincia a muoversi. Intervista con il professor Boghos Levon Zekiyan, docente di Letteratura armena presso l’Università Ca’ Foscari.
Padre Boghos Levon Zekiyan è uno tra gli studiosi armeni più in vista nel nostro Paese. Formatosi nella Congregazione dei Padri Mechitaristi di Venezia, docente di Lingua e letteratura armena presso l’università Ca’ Foscari, è anche un profondo conoscitore della società turca. Lo incontriamo per fare con lui il punto su un tema che alla fine di aprile ha riempito le colonne dei quotidiani di tutto il mondo: il novantesimo anniversario dello sterminio del popolo armeno perpetrato dal governo turco di allora, nel pieno della Grande Guerra. Fu il primo genocidio del XX secolo: un genocidio che tuttora la Turchia, pur bussando alle porte dell’Europa, non ha ufficialmente mai riconosciuto e continua a negare, nonostante le pressioni di buona parte della comunità internazionale. Tuttavia, nella società turca da qualche tempo a questa parte qualcosa comincia a muoversi. E lo scorso ottobre a Venezia, su iniziativa della Fondazione Cini, in cui anche padre Zekiyan ha avuto una parte di rilievo, studiosi turchi e armeni si sono incontrati per la prima volta per dibattere delle secolari relazioni tra i due popoli. Ivi compreso l’evento tragico e cruciale che il popolo armeno chiama Metz Yeghérn, il “Grande Male”.
Perché, a novant’anni di distanza, la Turchia continua in un atteggiamento “negazionista” di fronte al genocidio del 1915?
BOGHOS LEVON ZEKIYAN: Nella società turca, fino a venti o trent’anni fa, c’era come una volontà di azzeramento della storia. E questo non solo in rapporto alla “questione armena”. Per fare solo un esempio, il passaggio dall’alfabeto ottomano a quello latino, negli anni Venti, ha rappresentato una vera e propria cesura col passato, la volontà di creare un “nuovo inizio”, in nome della “purezza” della nazione turca, nata sulle ceneri dell’Impero multietnico, che veniva presentato come un modello di oscurantismo. Tutto ciò che riguardava l’ottomanità, salvo la gloria militare, era deriso, ridicolizzato, compresa la grande tradizione di convivenza tra la maggioranza turca e le minoranze cristiane in seno all’Impero. Il genocidio rappresentò la prima, tragica premessa della costruzione di una “nuova era” per la nazione turca. La sua negazione si è prodotta quindi in un contesto culturale che in parte è attivo ancora oggi, con conseguenze aberranti.
Anche a livello di storiografia “non ufficiale”?
ZEKIYAN: Molte società mediorientali sono caratterizzate dalla quasi totale assenza di una tradizione storiografica indipendente dalla propaganda di Stato. Nelle scuole turche, negli anni Cinquanta, quando già vigeva una democrazia parlamentare, ancora s’insegnava che tutti i popoli antichi del Vicino Oriente – Accadi, Sumeri, Hittiti – erano di razza turca. Mettere in discussione queste cose, fino a poco tempo fa, significava correre gravi rischi. Oggi però la società si sta evolvendo, la presenza di voci autonome, che parlano apertamente anche del genocidio armeno, è cresciuta poco a poco. È un fenomeno nuovo, che tuttavia incontra ancora molte resistenze. Ad esempio, quanto è successo poche settimane fa a Istanbul, con l’inattesa disdetta del convegno sulla questione armena organizzato per il 25-27 maggio da alcune università tra le più prestigiose del Paese – in seguito al discorso dai toni fortemente accusatori e minatòri del ministro della Giustizia Çiçek, il quale non ha esitato ad apostrofare come “traditori” gli organizzatori e i relatori del convegno –, è un fatto che non può non allarmare e preoccupare, anche per la sorte delle singole persone coinvolte. E che dimostra che il pericolo di un ritorno al passato non è purtroppo ancora scongiurato.
Come si spiega la durezza di simili prese di posizione?
ZEKIYAN: In Turchia c’è un’idea di sicurezza dello Stato che va ben oltre ciò cui gli occidentali sono abituati. Lo Stato, per parafrasare un proverbio turco, è come un “padre”: qualcosa di sacro e intangibile. C’è un senso dell’autorità, una venerazione per i simboli della nazione, che ha i tratti di una vera e propria “religione laica” e guarda con diffidenza a manifestazioni indipendenti di pensiero. La richiesta di riconoscimento del genocidio è percepita come una minaccia ai sovrani interessi nazionali, agli stessi “miti di fondazione” dello Stato.
Come è nato storicamente questo atteggiamento?
ZEKIYAN: Al tramonto dell’Impero ottomano, il Paese si pose il problema di una nuova identità, diversa dalla vecchia struttura multietnica con il suo sistema dei millet, le minoranze nazionali inserite nella compagine dell’Impero. Il modello che prevalse fu quello dello Stato-nazione, che i Giovani Turchi, formati nelle università europee, al potere dal 1908, mutuavano dall’ideologia della Rivoluzione francese. Uno Stato monoetnico, radicalmente diverso da quello che volevano seppellire. Uno schema che da allora si ripropone – spesso tragicamente, sotto forma di pulizia etnica – ogniqualvolta si cerchi di dare un’identità a un nuovo soggetto politico-territoriale. Basti pensare a quanto è successo nella ex Iugoslavia dopo il 1989. La decisione di eliminare gli armeni nacque dalla volontà di rifondare lo Stato su questa base.
Non fu dunque la motivazione religiosa a provocare il genocidio degli armeni?
ZEKIYAN: Non credo. Non almeno nel senso del movente primario e fondamentale del progetto. I Giovani Turchi erano sostanzialmente agnostici. La religione musulmana servì piuttosto da pretesto per infiammare le masse contro la minoranza cristiana, per cementare l’unità di turchi e curdi – questi ultimi impegnati massicciamente sul piano esecutivo – su questo obiettivo. Ma la prospettiva era quella di “rifondare” l’Impero, ormai sfaldato soprattutto sul versante europeo, guardando a Est, nell’orizzonte ideale dell’unità etnica dei popoli turchi che vivevano oltre l’Anatolia orientale e non conoscevano una realtà di Stato: azeri, kirghisi, uzbeki e così via, oltre il Caspio, fino ai confini della Mongolia. Gli armeni erano l’ostacolo maggiore a questo progetto. Situati sul versante orientale dell’Anatolia, essi interrompevano la continuità geografica con le popolazioni turche situate più a Oriente. Inoltre, sin dalla prima metà dell’Ottocento, gli armeni avevano acquisito un ruolo preminente in seno all’Impero, sia a livello economico che politico. Nella prospettiva “panturca” la gestione dello Stato doveva invece essere controllata esclusivamente dalla maggioranza etnicamente dominante.
La sconfitta nella Prima guerra mondiale, però, vanificò questo sogno “panturco”.
ZEKIYAN: Sì. Le potenze vincitrici, nel Trattato di Sèvres del 1920, avevano ipotizzato la creazione, nell’Anatolia orientale, di un’Armenia e di un Kurdistan indipendenti, ponendo l’Anatolia occidentale sotto il controllo dei greci e riducendo la Turchia vera e propria a un territorio molto ridotto intorno ad Ankara. Allora Kemal Pascià, il padre della Turchia moderna, riuscì a catalizzare il sentimento nazionale, guidò la guerra contro i greci e ottenne l’appoggio dei bolscevichi e degli inglesi. Il Trattato di Losanna, nel 1922, concesse alla Turchia i confini attuali. La questione armena fu messa a tacere senza appello. Negli anni seguenti Kemal si dedicò a una “occidentalizzazione” radicale del Paese, non però in senso democratico: in quel momento i modelli dominanti in Europa, oltre allo Stato-nazione classico, erano le grandi dittature a partito unico, di stampo fascista.
Che ruolo ebbe la Chiesa in quegli anni così drammatici?
ZEKIYAN: Colpisce innanzitutto la prontezza con cui la diplomazia vaticana, sia pure nell’impossibilità di avere un peso politico di qualche rilievo nel quadro di una guerra già scoppiata, colse le dimensioni della tragedia che si stava abbattendo sugli armeni. Le deportazioni ebbero inizio il 24 aprile 1915, e nonostante le comunicazioni fossero precarie e difficili, Benedetto XV, che aveva molto a cuore l’Oriente cristiano – fu lui a dare vita al Pontificio Istituto orientale di Roma –, fece il suo primo intervento pubblico sulla questione il 6 dicembre, al Concistoro dei cardinali, pronunciando una frase che è quasi una definizione ante litteram del termine genocidio: «Miserrima armenorum gens ad interitum prope ducitur» («L’infelicissimo popolo armeno è condotto alla soglia dell’annientamento»). La lettera che indirizzò al sultano è un capolavoro di delicata abilità diplomatica [vedi box, ndr], benché fosse chiaro che il sovrano era ormai un fantoccio nelle mani di altri. E non va dimenticato neppure il contributo dato da Pio XI al ricovero di tanti orfani armeni dopo la guerra, per i quali aprì la villa di Castel Gandolfo. A un prelato che gli faceva osservare che stava dando ospitalità a “figli di eretici”, il Papa rispose, battendo energicamente il pugno sul tavolo, che si trattava piuttosto di figli di martiri.
Dopo la Seconda guerra mondiale la Turchia opera delle riforme democratiche…
ZEKIYAN: Quando si trattò di ammetterla nella Nato, gli Stati Uniti chiesero alla Turchia di favorire un’evoluzione democratica in seno al Paese. Venne così la democrazia parlamentare e il bipartitismo. Ma, per citare ancora un’espressione turca, la democrazia è una “virtù”, non è qualcosa che si può imporre per decreto dall’esterno; deve essere assimilata, metabolizzata, in un processo di lunga e difficile gestazione. Inoltre gli stessi membri del Partito democratico d’opposizione erano eredi della stagione politica dei Giovani Turchi. Uno dei loro capi, che morì centenario, si vantava d’aver eliminato personalmente un gran numero di armeni. La moglie del secondo presidente della Repubblica era la sorella di Talat Pascià, il ministro che ideò e coordinò spietatamente il genocidio. Poi sono venuti tre colpi di Stato militari. Solo negli ultimi vent’anni, grazie soprattutto al processo di avvicinamento all’Europa, il Paese si è avviato lentamente verso una forma di democrazia più compiuta, nel senso che comincia a farsi strada il tema della libertà di pensiero e dei diritti umani, che è il vero banco di prova di una democrazia.
Il fatto che il premier turco Erdogan abbia dichiarato, a proposito del genocidio armeno, che è una questione da affidare agli storici, le è parso un segno di apertura?
ZEKIYAN: Su questo punto mi pare abbia già risposto il governo della Repubblica armena indipendente, con una lettera garbata ma chiara. Sarebbe come se il governo tedesco dichiarasse che devono essere gli storici a stabilire se c’è stato o no un Olocausto durante la Seconda guerra mondiale. Il genocidio è una ferita aperta che, credo, solo il riconoscimento da parte turca potrà in parte lenire. Ma quando ciò avverrà, e mi auguro presto, sarà il risultato di un’evoluzione interna alla società turca, in cui i diritti umani e la libertà di espressione avranno finalmente piena cittadinanza. Ed è su questo obiettivo che l’Europa, a mio parere, può e deve operare. Non va comunque dimenticato che la generazione oggi al potere in Turchia è la prima a non avere legami diretti con l’ideologia e la storia dei Giovani Turchi.
Che impressione le ha fatto riuscire a incontrare studiosi turchi a Venezia e discutere del genocidio?
ZEKIYAN: Un piccolo passo in direzione di una speranza. Negli anni Sessanta la Radio italiana trasmetteva a puntate il romanzo di Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, sullo sterminio degli armeni. Le trasmissioni furono interrotte dopo poche puntate per la protesta dell’ambasciatore turco. Oggi il romanzo di Werfel può essere letto anche in Turchia. Ed è notizia recente che la nipote di Talat abbia reso noti in Turchia i diari del nonno, da cui emergono cifre relative alla “deportazione” che vanno ben oltre i calcoli più ampi ammessi finora dagli stessi turchi. Certo, la strada da percorrere è lunga, ma la situazione è quanto mai in movimento.
Il ministro degli Esteri armeno Oskanian ha dichiarato recentemente che l’Armenia non è contraria all’ingresso della Turchia in Europa. La frase ha colto di sorpresa alcuni osservatori.
ZEKIYAN: Sì, ma ha aggiunto anche che gli armeni sognano una Turchia pienamente europea, in tutti i sensi. Oggi le frontiere tra Turchia e Armenia sono chiuse. È necessario avviare un processo di normalizzazione. E l’Armenia non ha mai posto al governo turco la condizione preliminare del riconoscimento del genocidio per l’avvio di un dialogo. D’altra parte, la storia dei rapporti tra turchi e armeni ha conosciuto anche momenti di pace e periodi felici. Questo va ricordato, perché anche gli armeni corrono il rischio di cadere in uno stereotipo: essere identificati solo ed esclusivamente come il popolo sterminato nel 1915. Mentre abbiamo una storia millenaria e una ricchezza di cultura e di spiritualità che non possono essere dimenticate. Credo che anche la Turchia, nonostante la sua forza economica e militare sia imparagonabile con quella dell’Armenia – e questo va tenuto in debito conto –, trarrebbe vantaggi dall’apertura di una nuova stagione di rapporti costruttivi in un’area cruciale dal punto di vista geopolitico.
Di G. Ricciardi
*tratto da 30 Giorni, n. 06 – 2005