Il 24 giugno avviene un concentramento di forze austriache sulla zona collinare ad est del Mincio, con avanzata sulla linea Sommacampagna-Oliosi; vi sono poi 15 Squadroni di Cavalleria sul fianco sinistro, verso la pianura.
I posti di osservazione italiani, che avevano già avuto notizia di movimenti austriaci, avvistano in lontananza, tra Verona e Peschiera, nuvole di polvere sollevate dai reparti nemici in marcia, ma nessuno attribuisce importanza al fatto e il Comando supremo non viene informato.
Sempre il 24 giugno tutto (o quasi) sembra pronto per l’ “energica azione” del La Marmora: una divisione al di qua del Mincio, per tenere sotto osservazione Peschiera e tre oltre il fiume: una a circuire Peschiera dalla riva sinistra, le altre due ad occupare le colline sulla direttrice Peschiera- Verona.
Al centro, il III Corpo, su quattro divisioni, schierato sulla direttrice Sommacampagna-Custoza e la campagna a sud di Villafranca. Al II Corpo viene affidato il compito di tenere Mantova sotto scacco: due Divisioni a nord della città, se necessario pronte a muovere a sostegno delle forze schierate in prossimità di Villafranca e due Divisioni a sud di Mantova, tra Curtatone e Borgoforte Po. La Divisione di Cavalleria di riserva, deve fungere da collegamento tra il III e il II Corpo.
Tale piano, con forti assonanze con quello che aveva portato alla sconfitta nel 1848, è lacunoso e carente. E’ stato infatti osservato che il tutto sembrava più un dispositivo di marcia che un dispositivo di battaglia; le artiglierie di riserva lasciate dietro il Mincio, con grosse difficoltà di manovra per rapidi interventi in linea. Non era stata nemmeno individuata la migliore posizione ove approntare il Comando Supremo che, alla fine, viene piazzato presso Goito.
Le truppe sono però schierate su un fronte troppo ampio, con considerevoli soluzioni di continuità, con scarse riserve e gravi difficoltà di collegamento.
L’ ”energica azione” del La Marmora inizia così alle tre e mezzo del mattino del 24, quando il Generale lascia il Quartier Generale di Goito e si dirige verso Valeggio; vi giunge alle cinque e mezzo accompagnato da un Ufficiale d’ordinanza e scortato solo da due cavalleggeri. Sembra più un giro d’ispezione allo schieramento, per apportare eventuali aggiustamenti, che non l’inizio di un’ importante azione militare. Alle sei incontra il Comandante del I Corpo, a cui dà alcune disposizioni; prosegue verso Peschiera e incontra la 3^Divisione del Generale Durando diretta a Sona, sulla direttrice di Verona, e la fa improvvisamente deviare verso sud, per raggiungere le colline di Monte Croce e Monte Torre, presso Custoza, sottoponendola però ad un inteso tiro delle artiglierie nemiche.
Mentre il La Marmora, precedendo i reparti, sale a sua volta a Monte Torre per osservare lo scenario, sono già in atto i primi scontri intorno a Peschiera.
Tra le sei e le otto, i due eserciti vengono quindi a contatto. Le colonne in marcia sono però rallentate dai civili che stanno riparando in zone più sicure; i collegamenti italiani sono carenti, ed è poco curata l’azione esplorativa. Regna grande confusione.
Il La Marmora pensa di potersi inserire tranquillamente tra le fortezze del Quadrilatero, attrarre verso di sé ingenti forze nemiche, smuovendole dalle salde posizioni a margine delle colline moreniche ad est del Mincio, e quindi sopraffarle. Sottovaluta però il nemico che in quel settore dispone di forze superiori, più concentrate e meglio dirette: 70.000 austriaci contro solo 50.000 italiani. Difficile poi un’ eventuale azione di supporto dagli altri settori, con truppe sparpagliate intorno a Mantova e prive di collegamenti, mentre il Cialdini se ne sta tranquillo al di là del Po (cfr. P.Pieri, op.cit).
Poco dopo le sei del mattino, la Divisione Cerale, che doveva circondare Peschiera dalla riva sinistra del Mincio, è preceduta, per errore, dall’avanguardia della Divisione Sirtori (una delle due inviate sulla direttrice Peschiera – Verona). L’avanguardia, che marcia priva di collegamenti con i reparti in movimento in quel settore, entra in contatto col nemico e costringe la Cerale ad intervenire; gli austriaci vengono respinti ma intanto le operazioni vengono rallentate, con stravolgimento dei piani di battaglia. Intanto la Sirtori, priva dell’avanguardia, continua da sola la marcia verso Sommacampagna e Valeggio. Si susseguono accesi scontri con le forze austriache, sempre più numerose, e le due Divisioni, Sirtori e Cerale, continuano ad avanzare senza alcun collegamento. Devono fronteggiare, con 16.000 uomini e 24 cannoni in tutto, 32000 austriaci con 64 pezzi di artiglieria.
Nella mattinata mezza Divisione Sirtori si sfascia, mentre due Divisioni di Cavalleria, nei pressi di Villafranca, respingono i ripetuti assalti della Cavalleria austriaca, costretta ad arretrare.
La 3^ Divisone, nella quale sono inquadrati il 1° e il 2° Reggimento Granatieri di Sardegna, viene fatta convergere, come visto, su Monte Croce e Monte Torre, nei pressi di Custoza, sotto un violento attacco dell’artiglieria nemica. I Granatieri raggiungono e tengono l’obbiettivo ma, grazie alla rapidità di manovra degli austriaci, in grado di far convergere le forze necessarie nei settori più critici, la Divisione si sfascia. Si distingue anche, con grande sacrificio, il reparto a cavallo dei Carabinieri, di scorta alla Divisione, che si lancia in due cariche di alleggerimento, che tuttavia non possono mutare la situazione.
Tutto sommato, nonostante la sorpresa per il rapido precipitare degli eventi, lo schieramento italiano tiene; nella mattinata, all’ala destra, la Cavalleria Italiana aveva respinto la Cavalleria austriaca, e anche nel settore di sinistra gli austriaci erano stati costretti ad arretrare. Al centro, la zona di Custoza, su cui erano affluiti reparti italiani di rincalzo, è ora in mano italiana.
Nel corso della mattinata però le posizioni italiane si indeboliscono e, nel primo pomeriggio, l’Arciduca Alberto si prepara a sferrare l’attacco finale verso Custoza, dove resisteva solo la 9ª Divisione del Generale Govone.
Costui alle 16 chiede rinforzi al Generale Della Rocca, suo diretto superiore, che, timoroso, non vuole prendere iniziative senza la preventiva approvazione del Capo di Stato Maggiore. Mentre il Della Rocca cerca di mettersi in contatto col La Marmora, 15.000 austriaci avanzano contro poco più di 8.000 italiani, per di più digiuni dal giorno precedente, grazie alle gravi carenze logistiche.
Intanto tre Divisioni di Cavalleria, la Principe Umberto, la Bixio e quella di riserva, quasi intatte, restano ferme ed inoperose, nonostante lo stesso Vittorio Emanuele esorti il Generale Della Rocca ad impiegarle per un contrattacco nella pianura. Il Della Rocca fa però presente al Sovrano che il La Marmora aveva “raccomandato caldamente” di tenere quei reparti attestati davanti a Villafranca.
Il Re quindi, dopo il colloquio col Della Rocca si dirige verso Custoza; presso Valeggio si imbatte nei primi sbandati che cerca di riordinare. Intanto il Lamarmora, senza lasciare disposizioni, si dirige da Valeggio verso Goito e a Vittorio Emanuele, che voleva appunto vedere il Generale, non resta che avviarsi, a sua volta, verso il Quartier Generale.
Alle 17,00 Custoza è perduta: l’infausta Custoza, dove già nel 1848 i piemontesi erano stati messi in rotta !
Ritenendo ormai tutto perduto, lo Stato Maggiore italiano, incapace di valutare la reale situazione e adottare adeguate contromisure, invece di far convergere le forze al centro dello scontro ritira le truppe sulla riva destra del Mincio, facendole poi arretrate fino al basso Oglio, in previsione di un eventuale ripiegamento oltre il Po e l’Adda. E Cialdini non si muove.
Interessante lo scambio di telegrammi. Alle 16,45 del 24 giugno, quando la situazione a Custoza è ormai prossima al tracollo, il Re fa telegrafare al Cialdini l’ordine di passare il Po; il Generale risponde che lo avrebbe passato l’indomani, 25, secondo i piani precedentemente stabiliti.
Successivamente, Vittorio Emanuele, che inizialmente aveva disposto un temporaneo ripiegamento a destra del Mincio, al fine di far riposare le truppe per poi riprendere l’azione, fa nuovamente telegrafare al Cialdini per metterlo al corrente della manovra e sollecitarlo a passare il Po per sostenere la controffensiva. Il Cialdini, che stava già valutando di non muoversi, risponde: ““Risultato battaglia d’oggi è grave e mi pone in grande perplessità”.(cfr.P.Pieri, op. cit.)
Cialdini non solo non passa il Po, ma, a sua volta, intraprende una ritirata sulla sponda sinistra del Panaro. Il 26 mattina, La Marmora chiede (non ordina) a Cialdini di non abbandonare le sue posizioni, ricevendone un rifiuto. L’episodio mette in luce ancora una volta il dissidio tra i due generali, ma soprattutto la debolezza del Capo di Stato Maggiore, a cui non resta che rassegnare le dimissioni. Dimissioni che però Re e Governo respingono. Cialdini e La Marmora si incontrano quindi il 29 e Cialdini, finalmente, attraversa il Po, dirigendosi verso la testa di ponte austriaca di Borgoforte, a sud di Mantova. L’assedio, che il Cialdini aveva garantito di risolvere rapidamente, si protrae invece dal 5 al 18 luglio; un’altra sosta che non consente il congiungimento delle due Armate in tempo utile.
Il Bismark, alquanto irritato per l’inconcludenza degli italiani, teme che l’Austria, visti i successi a sud, possa procedere ad un parziale disimpegno in quel settore e far confluire rinforzi sul fronte tedesco.
Il 14 agosto il Re presiede un Consiglio di Guerra a Ferrara; l’articolazione delle forze di terra su due Armate viene confermata ma al Cialdini viene affidato il comando autonomo di 14 divisioni, con le quali procedere a marce forzate verso l’Isonzo e, da là, eventualmente, proseguire per Vienna. L’altra Armata, su sei divisioni sotto il diretto comando del Re e con La Marmora Capo di Stato Maggiore, deve tenere le posizioni a protezione delle linee di operazione e prepararsi a cingere d’assedio Verona. Il piano prevede inoltre l’invio di una Divisione in Valsugana, in supporto a Garibaldi che coi suoi volontari sta per entrare in Trentino. I piani prevedevano poi che le truppe garibaldine, una volta assicuratesi il Trentino, avrebbero dovuto proseguito per Trieste e da là spingersi in avanti per provocare rivolte antiaustriache in Croazia e in Ungheria.
La complessa operazione doveva essere supportata dall’ immediata apertura delle ostilità sull’Adriatico e all’ Ammiraglio Carlo Pellion di Persano, viene quindi ordinato di attaccare la Flotta Imperiale in Adriatico, entro otto giorni, pena l’immediata destituzione(cfr. P.Pieri-op.cit.)
Questa perentoria disposizione dimostra la stima che circondava l’Ammiraglio, lo stesso che, tempo prima, al largo della Sardegna, era riuscito a far incagliare la goletta “Governolo”, con la famiglia reale a bordo.
La sconfitta di Custoza fu quindi frutto delle incapacità del Comando italiano. Il La Marmora, che in fondo pensava di arrivare ad un accordo con l’Austria e annettere i territori del nord-est italiano senza ricorrere alla guerra, arrivò alla vigilia del conflitto senza un preciso piano, dimostrando così le sue carenze, sia come politico che come stratega.
Diversa la situazione in Prussia, dove il Bismark e il genio militare di von Moltke operavano all’unisono, integrandosi a vicenda (P.Pieri ,op.cit.).
Come già evidenziato, c’erano poi state le deleterie incomprensioni e rivalità tra Cialdini e Lamarmora; inoltre, ad un certo momento il Lamarmora entrò in confusione e, ingigantendo nei suoi dispacci la sconfitta, ordinò, senza reali motivi, la ritirata di truppe ancora sostanzialmente intatte e col morale ancora alto, impedendo quindi a Vittorio Emanuele, anche lui poco incisivo e quasi succube dei suoi Generali, di disporre dei reparti necessari per contrattaccare, lasciandogli solo le truppe sufficienti a far quadrato intorno al giovane Principe Umberto.
Da parte sua il Cialdini, rifiutando di fornire il suo appoggio, contribuì a trasformare la ritirata in una rotta che consentì agli austriaci di avanzare senza più resistenze(cfr P.Pieri,op.cit.).
Se un’indicazione la possiamo desumere dalle forze lasciate sul campo, ci furono da parte italiana poco più di 700 morti e di 2500 feriti, contro più di 1100 caduti e quasi 4000 feriti tra gli imperiali. Ma i prigionieri e i dispersi italiani superarono i 4000 uomini, contro i 2800 austriaci.
Qualche anno più tardi il Generale Pollio, Capo di Stato Maggiore tra il 1908 e il 1914, osserverà che il 24 giugno 1866 c’era stato un susseguirsi di episodi scollegati, dove tutti sembravano condurre ciascuno una propria battaglia.
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