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TERMINI DI PRESCRIZIONE DEI REATI E DURATA DEL PROCESSO PENALE. di Francesco Mario Agnoli

Quanto all’allungamento dei tempi di prescrizione non  riesco a condividere gli entusiasmi dei miei colleghi (o,  se si preferisce, ex-colleghi dato il mio status di pensionato).

   Sia che si scelga  lo strumento di un intervento  diretto sui tempi di prescrizione  sia che si preferisca aggravare le sanzioni  dettate per figure di reato che restano nella sostanza invariate (come si sa, in  linea di massima   la durata della prescrizione è  correlata alla misura della pena prevista) o si inventino congelamenti temporanei del suo decorso  dopo ogni fase processuale (in questo senso il disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Orlando  il 30 a agosto 2014) dubito si tratti della strada   migliore per  conseguire i risultati voluti, in particolare se  includono   una maggiore efficienza, quindi anche una maggiore celerità, del sistema processuale penale.

  La prescrizione di un reato rappresenta sempre  una grave sconfitta per la  Giustizia o anche soltanto, se si odiano le maiuscole e si preferisce tenersi  terra  terra, per l’amministrazione  giudiziaria, che negli ultimi decenni di queste  sconfitte  ne ha subite un numero esorbitante. Ma proprio per questo, per la necessità  di evitarle (e anche di evitare  le conseguenze comunque sgradevoli che possono seguirne per la carriera), al momento di compilare i ruoli delle singole udienze il magistrato competente (in genere il presidente della sezione penale o il magistrato calendariamente designato alla presidenza del collegio d’udienza) è spesso suo malgrado  costretto, come sa bene chi ha avuto occasione di svolgere questo ingrato compito, a dare la precedenza  non ai processi di maggior rilievo, ma a quelli più prossimi alla prescrizione. Di conseguenza, l’elevatissima  probabilità che   al prolungamento dei tempi di prescrizione corrisponda un  allungamento dei tempi processuali, in particolare proprio per i processi    riguardanti i reati  (fra questi in primo piano, nell’attuale momento storico, quelli corruttivi e in genere contro la pubblica amministrazione) per i quali, al fine di evitarla, si  è previsto un più lungo termine prescrizionale.   Si tratta di rischi che dovrebbero essere tenuti ben presenti da quegli esponenti della classe politica  che,  mentre proclamano  di  nutrire la massima fiducia nei giudici che indagano sui loro compagni di partito,  pretendono  risultati, quindi, sentenze, in tempi brevi, anzi brevissimi.

   Tuttavia non è questa la ragione di fondo del dissenso  (agli inconvenienti e ai rischi di cui si è detto si potrebbero probabilmente trovare rimedi  sul piano organizzativo), che sta invece  nel contrasto radicale fra la funzione dell’istituto della prescrizione e termini che le riforme in discussione davanti al parlamento in alcuni casi porterebbero oltre  la soglia (davvero traumatica) dei vent’anni.

    Quale che sia la ragione per la quale  venne a suo tempo introdotta nei vari  ordinamenti giuridici, attualmente in uno Stato di diritto, democratico e  vincolato dal rispetto dei  diritti garantiti dalla Costituzione e dalle Dichiarazioni sui diritti dell’Uomo, la prescrizione ha soprattutto (ma si potrebbe anche parlare di quasi-esclusività)  la funzione di coniugare le esigenze della giustizia  con la libertà (in tutte le sue espressioni)  di ogni essere umano, che non può essere tenuto troppo a lungo nello stato comunque di limitazione  e di soggezione  inevitabilmente conseguente (anche se non accompagnato –  il che, per altro, di raro avviene – da altre, specifiche misure) ad una procedura processuale penale  fin dalla ricezione dell’avviso di garanzia. Già sei-sette anni possono essere sufficienti a  spezzare una carriera, a disgregare una famiglia, a modificare un’esistenza, ma dopo vent’anni è la vita intera ad essere totalmente stravolta e non vi è sentenza di assoluzione e (eventuale) conseguente risarcimento pecuniario  che possa porvi davvero riparo.

     A ben guardare, mentre è perfettamente comprensibile che l’ordinamento   voglia giungere  ad una sentenza  di colpevolezza o d’innocenza   e consideri una  sconfitta il mancato conseguimento   di questo risultato, tuttavia  quando per raggiungerlo si comprimono  oltre misura e  per troppo lungo tempo anche uno solo dei diritti fondamentali di ogni essere umano (ma nel caso del processo penale sono coinvolti tutti o quasi gli aspetti dell’esistenza) si fa applicazione  di  un principio diverso ed opposto a quello sancito dall’art. 27 Cost.: alla presunzione d’innocenza si sostituisce quella di colpevolezza. Difatti, consapevolmente o inconsapevolmente, si parte dal presupposto  che con l’applicazione della prescrizione non solo e non tanto si rinuncia alla ricerca della  verità, ma si sottrae alla giusta pena un quasi sicuro colpevole (qualcuno, evidentemente convinto di vivere nel paese di Utopia e senza tener conto  dello stato di  prostrazione in cui  può trovarsi chi, soprattutto se innocente, viene per così dire “incorporato” nell’impietoso ingranaggio giudiziario, si giustifica dicendo che se non fosse colpevole  l’imputato rinuncerebbe alla prescrizione)

     Si tratta di aspetti che, nonostante l’imperante clima a favore  del prolungamento dei termini prescrizionali (nonché, contraddittoriamente,  di processi veloci), vedo essere qua e là presi in considerazione da politici (ed es. il ministro dell’agricoltura Enrico Costa), giuristi e opinionisti (Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 28 aprile). Vengono anche proposti rimedi che, in genere, non rinunciano ad interventi sui termini di prescrizione, ma tentano di attenuarne gli aspetti  meno accettabili (a dispetto del moralismo giustizialista del momento, che invece, almeno per alcune ipotesi di reato, li favorisce), come la durata ultraventennale. Nella maggior parte dei casi si tratta di rimedi  cosiddetti “compensativi”, che tuttavia, per quanto avallati anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, incidono  in misura  minima sulla sostanza del problema. Quando, a compensazione dell’eccessiva durata del processo si punta  su risarcimenti pecuniari  oppure, in caso  di sentenza finale di condanna, su sconti di pena  proporzionali  alla misura  dell’irragionevole durata si trasforma in norma ordinaria quelli che dovrebbero essere  rimedi per le (sperabilmente rare) patologie. Senza dire che lo sconto di pena  non può trovare applicazione quando la sentenza finale è di proscioglimento, quindi proprio  nei casi più gravi, perché non esiste situazione peggiore di  quella di un innocente  costretto ad aggirarsi per quindici o vent’anni nei  kafkiani labirinti processuali. Quando poi si propone  che i termini  prescrizionali smettano definitivamente di decorrere dopo la sentenza di primo grado (o addirittura, come vorrebbe l’ANM, dopo il rinvio a giudizio) non ci si rende conto che si tratta del modo  migliore  per fondare il rischio di un processo  sine die, cioè eterno  (per  tentare di evitare questo rischio si potrebbe, è vero,  fissare  al processo, come voleva il progetto Gasparri, tempi certi, ma  più le soluzioni sono complicate, più sono a rischio di inapplicabilità e di fallimento).

   In conclusione,  fra le proposte fino ad oggi avanzate la più ragionevole sembra quella che, lasciandone immutati  i termini massimi  (o comunque non eccedendo i 6-7 anni), fa partire il calcolo della prescrizione non, come oggi avviene, dalla data di commissione del reato, ma dal momento in cui qualcuno viene indagato.  E’ quanto sta realizzando in Francia la giurisprudenza di quella Corte di Cassazione. La politica  potrebbe raccogliere l’input giurisprudenziale (viene d’oltralpe  sicché nemmeno vi sarebbe la temuta  subalternità dei  politici  ai giudici italiani) e tradurlo in norma di legge.

Francesco  Mario Agnoli

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