Quanto all’allungamento dei tempi di prescrizione non riesco a condividere gli entusiasmi dei miei colleghi (o, se si preferisce, ex-colleghi dato il mio status di pensionato).
Sia che si scelga lo strumento di un intervento diretto sui tempi di prescrizione sia che si preferisca aggravare le sanzioni dettate per figure di reato che restano nella sostanza invariate (come si sa, in linea di massima la durata della prescrizione è correlata alla misura della pena prevista) o si inventino congelamenti temporanei del suo decorso dopo ogni fase processuale (in questo senso il disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Orlando il 30 a agosto 2014) dubito si tratti della strada migliore per conseguire i risultati voluti, in particolare se includono una maggiore efficienza, quindi anche una maggiore celerità, del sistema processuale penale.
La prescrizione di un reato rappresenta sempre una grave sconfitta per la Giustizia o anche soltanto, se si odiano le maiuscole e si preferisce tenersi terra terra, per l’amministrazione giudiziaria, che negli ultimi decenni di queste sconfitte ne ha subite un numero esorbitante. Ma proprio per questo, per la necessità di evitarle (e anche di evitare le conseguenze comunque sgradevoli che possono seguirne per la carriera), al momento di compilare i ruoli delle singole udienze il magistrato competente (in genere il presidente della sezione penale o il magistrato calendariamente designato alla presidenza del collegio d’udienza) è spesso suo malgrado costretto, come sa bene chi ha avuto occasione di svolgere questo ingrato compito, a dare la precedenza non ai processi di maggior rilievo, ma a quelli più prossimi alla prescrizione. Di conseguenza, l’elevatissima probabilità che al prolungamento dei tempi di prescrizione corrisponda un allungamento dei tempi processuali, in particolare proprio per i processi riguardanti i reati (fra questi in primo piano, nell’attuale momento storico, quelli corruttivi e in genere contro la pubblica amministrazione) per i quali, al fine di evitarla, si è previsto un più lungo termine prescrizionale. Si tratta di rischi che dovrebbero essere tenuti ben presenti da quegli esponenti della classe politica che, mentre proclamano di nutrire la massima fiducia nei giudici che indagano sui loro compagni di partito, pretendono risultati, quindi, sentenze, in tempi brevi, anzi brevissimi.
Tuttavia non è questa la ragione di fondo del dissenso (agli inconvenienti e ai rischi di cui si è detto si potrebbero probabilmente trovare rimedi sul piano organizzativo), che sta invece nel contrasto radicale fra la funzione dell’istituto della prescrizione e termini che le riforme in discussione davanti al parlamento in alcuni casi porterebbero oltre la soglia (davvero traumatica) dei vent’anni.
Quale che sia la ragione per la quale venne a suo tempo introdotta nei vari ordinamenti giuridici, attualmente in uno Stato di diritto, democratico e vincolato dal rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione e dalle Dichiarazioni sui diritti dell’Uomo, la prescrizione ha soprattutto (ma si potrebbe anche parlare di quasi-esclusività) la funzione di coniugare le esigenze della giustizia con la libertà (in tutte le sue espressioni) di ogni essere umano, che non può essere tenuto troppo a lungo nello stato comunque di limitazione e di soggezione inevitabilmente conseguente (anche se non accompagnato – il che, per altro, di raro avviene – da altre, specifiche misure) ad una procedura processuale penale fin dalla ricezione dell’avviso di garanzia. Già sei-sette anni possono essere sufficienti a spezzare una carriera, a disgregare una famiglia, a modificare un’esistenza, ma dopo vent’anni è la vita intera ad essere totalmente stravolta e non vi è sentenza di assoluzione e (eventuale) conseguente risarcimento pecuniario che possa porvi davvero riparo.
A ben guardare, mentre è perfettamente comprensibile che l’ordinamento voglia giungere ad una sentenza di colpevolezza o d’innocenza e consideri una sconfitta il mancato conseguimento di questo risultato, tuttavia quando per raggiungerlo si comprimono oltre misura e per troppo lungo tempo anche uno solo dei diritti fondamentali di ogni essere umano (ma nel caso del processo penale sono coinvolti tutti o quasi gli aspetti dell’esistenza) si fa applicazione di un principio diverso ed opposto a quello sancito dall’art. 27 Cost.: alla presunzione d’innocenza si sostituisce quella di colpevolezza. Difatti, consapevolmente o inconsapevolmente, si parte dal presupposto che con l’applicazione della prescrizione non solo e non tanto si rinuncia alla ricerca della verità, ma si sottrae alla giusta pena un quasi sicuro colpevole (qualcuno, evidentemente convinto di vivere nel paese di Utopia e senza tener conto dello stato di prostrazione in cui può trovarsi chi, soprattutto se innocente, viene per così dire “incorporato” nell’impietoso ingranaggio giudiziario, si giustifica dicendo che se non fosse colpevole l’imputato rinuncerebbe alla prescrizione)
Si tratta di aspetti che, nonostante l’imperante clima a favore del prolungamento dei termini prescrizionali (nonché, contraddittoriamente, di processi veloci), vedo essere qua e là presi in considerazione da politici (ed es. il ministro dell’agricoltura Enrico Costa), giuristi e opinionisti (Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 28 aprile). Vengono anche proposti rimedi che, in genere, non rinunciano ad interventi sui termini di prescrizione, ma tentano di attenuarne gli aspetti meno accettabili (a dispetto del moralismo giustizialista del momento, che invece, almeno per alcune ipotesi di reato, li favorisce), come la durata ultraventennale. Nella maggior parte dei casi si tratta di rimedi cosiddetti “compensativi”, che tuttavia, per quanto avallati anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, incidono in misura minima sulla sostanza del problema. Quando, a compensazione dell’eccessiva durata del processo si punta su risarcimenti pecuniari oppure, in caso di sentenza finale di condanna, su sconti di pena proporzionali alla misura dell’irragionevole durata si trasforma in norma ordinaria quelli che dovrebbero essere rimedi per le (sperabilmente rare) patologie. Senza dire che lo sconto di pena non può trovare applicazione quando la sentenza finale è di proscioglimento, quindi proprio nei casi più gravi, perché non esiste situazione peggiore di quella di un innocente costretto ad aggirarsi per quindici o vent’anni nei kafkiani labirinti processuali. Quando poi si propone che i termini prescrizionali smettano definitivamente di decorrere dopo la sentenza di primo grado (o addirittura, come vorrebbe l’ANM, dopo il rinvio a giudizio) non ci si rende conto che si tratta del modo migliore per fondare il rischio di un processo sine die, cioè eterno (per tentare di evitare questo rischio si potrebbe, è vero, fissare al processo, come voleva il progetto Gasparri, tempi certi, ma più le soluzioni sono complicate, più sono a rischio di inapplicabilità e di fallimento).
In conclusione, fra le proposte fino ad oggi avanzate la più ragionevole sembra quella che, lasciandone immutati i termini massimi (o comunque non eccedendo i 6-7 anni), fa partire il calcolo della prescrizione non, come oggi avviene, dalla data di commissione del reato, ma dal momento in cui qualcuno viene indagato. E’ quanto sta realizzando in Francia la giurisprudenza di quella Corte di Cassazione. La politica potrebbe raccogliere l’input giurisprudenziale (viene d’oltralpe sicché nemmeno vi sarebbe la temuta subalternità dei politici ai giudici italiani) e tradurlo in norma di legge.
Francesco Mario Agnoli