Vedo che si continua a parlare con stupore della conversione alla rovescia di Umberto Eco, in realtà tutt’altro che sorprendente se la si contestualizza. Quelli della sua e mia generazione (sono di appena due anni più giovane – o meno vecchio -) sanno benissimo che i fermenti che portarono poi al famoso Sessantotto si manifestarono assai prima (il concilio Vaticano II è del 1962) nel mondo cattolico, dove il sempre latente pauperismo aveva cominciato a strizzare l’occhio al marxismo e prima ancora nella sua punta più irrequieta, anche perché più giovane, la Giac (Gioventù italiana di azione cattolica).
Nella Giac i primi contrasti, riguardanti soprattutto l’impegno politico a fianco della D.C. cominciarono a manifestarsi già agli inizi degli anni Cinquanta, portando (siamo nel 1952) alle dimissioni dell’allora presidente Carlo Carretto (che effettuò in prima persona e in modo radicale la “scelta religiosa” (con ripudio totale del collateralismo politico), che negli anni successivi venne fatta propria dall’intera Azione cattolica.
A Carlo Carretto succedette Mario Rossi, che, in pieno contrasto con il presidente dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda (il creatore dei Comitati civici, essenziali per la vittoria elettorale della D.C. nel 1948), sotto l’apparenza della scelta religiosa in realtà diede alla Giac una netta spinta a sinistra, determinando all’interno vivaci polemiche, che, nonostante l’appoggio del futuro pontefice Paolo VI, lo costrinsero alle dimissioni nel 1954 (rimase così vincitore Luigi Gedda, al quale però nel dicembre del 1958 Giovanni XXIII non rinnovò l’incarico).
Sono cose che sanno tutti e chi non le conosce può facilmente apprenderle da Wikipedia. La differenza è che io le ho vissute personalmente come membro, già da piccolo ”aspirante”, del circolo di Azione cattolica allora esistente presso la parrocchia salesiana del Sacro Cuore in Bologna (nel ’48 partecipai anche all’attività del Comitato civico del quartiere “Bolognina”come manovalanza – avevo 14 anni – addetta all’affissione, in ora notturna, di manifesti elettorali). Fui quindi direttamente coinvolto nelle polemiche conseguenti alle prese di posizione di Carlo Carretto e, se ben ricordo la data, già nell’inverno 1951-52, lasciai l’Azione Cattolica. Solo che, a differenza di altri, pur continuando a frequentare la parrocchia (qualche anno dopo divenni presidente del Circolo Universitario salesiano), presi, invece che a sinistra, a destra, senza peraltro formali adesioni a partiti o movimenti .
Tutto questo per dire che chi ha vissuto quegli anni non può trovare nulla di singolare nella conversione di Umberto Eco. Si trattò, difatti di una crisi profonda (ricordo bene i dubbi che mi tormentarono, nonostante all’epoca fossi tutt’altro che riflessivo e incline ai colpi di testa, prima di decidere per l’abbandono). A me non accadde, ma non pochi con l’Azione cattolica abbandonarono anche la fede (ho ancora ben vivo alla mente il caso di un giovane universitario – quindi poco più grande di me – ne rammento perfettamente il cognome e i tratti del volto, con gli occhiali da intellettuale – che impegnatissimo fino a quel momento nell’insegnamento catechistico, con una decisione che in quel momento giudicammo improvvisa, si fece comunista e ateo dichiarato, lasciando, assieme alla fede cristiana, anche la cattolicissima fidanzata).
Quello che invece rimane un mistero (ad un livello ancora maggiore del Nobel a Dario Fo) è la fama mondiale conquistata da Umberto Eco, probabilmente non paragonabile, dal dopoguerra ad oggi, a quella di nessun altro intellettuale italiano, incluso forse lo stesso Pasolini (per tanti aspetti a lui nettamente superiore).
Difficile attribuirla alla sua attività nel campo della semiotica, a meno che questa materia non rivesta oltre confine un’ importanza molto più grande che nel nostro paese.
Forse si è trattato di un caso, del grande, inaspettato successo del “Nome della rosa”, che, grazie al film che ne è stato tratto, ha lanciato il nome di Eco a livello mondiale, così spingendo, assieme al lustro derivantegli dal suo ruolo accademico presso la più antica università d’Europa nella rossa Bologna (all’epoca modello per il più importante partito comunista fuori del confini dell’Europa soggetta all’URSS), l’intellettualismo marxista-progressista a farne il proprio campione.
Personalmente trovo “Il nome della rosa” un buon romanzo, scritto bene e di piacevole lettura (francamente il fatto che noi cattolici non ne condividiamo contenuto e scopi non ha peso nella sua valutazione ai fini ceh qui interessano, dal momento che per altri gli aggiungono invece pregio), così come “Il pendolo di Foucault”, che ho letto più di una volta (mentre considero gli altri praticamente illeggibili, con la parziale eccezione del “Cimitero di Praga”, tuttavia una rimasticatura di altri libri).
Mi sembra però un po’ poco per tanta fama. Resta, quindi, almeno in parte il mistero. Forse per risolverlo bisognerebbe penetrare più a fondo nei circuiti, nei meccanismi, nelle consorterie dell’intellegencija mondialista, che, dopo essere stata marxista e perfino maoista, ha creato, fiancheggiando il liberalcapitalismo statunitense (servendolo o servendosene – anche questo a me non è del tutto chiaro -), il politicamente corretto e si è fatta paladina e guardiana del pensiero unico). Servirebbe un “pentito” di altissimo livello.
Francesco Mario Agnoli