“La Repubblica” in data 2 maggio 2016 ha pubblicato un articolo di Maria Novella De Luca dal significativo titolo “Dopo il primo sì alle coppie di fatto cinque sentenze per la stepchild”. Riferendo vari casi di adozioni del figlio del partner in coppie omosessuali. la De Luca commenta: “Da quando è stata bocciata in parlamento, il 25 febbraio scorso, la stepchild adoption è diventata una realtà sempre più radicata dentro e fuori le aule di Giustizia. Venti sentenze in un anno e mezzo, e poi un’accelerazione. Quasi ci fosse l’urgenza di dare ai figli delle coppie omosessuali dei diritti che difficilmente diventeranno legge in tempi brevi. Con il paradosso che mentre la legge sulle unioni civili verrà approvata grazie anche allo stralcio dell’articolo sulla stepchild adoption, una coppia di padri (…) e quattro coppie di madri sono diventate “famiglia”. Addirittura con l’adozione incrociata dei figli, così come è avvenuto a Roma e a Napoli tra marzo e aprile. Utilizzando semplicemente l’attuale legge sulle adozioni, all’art. 44, là dove si prevedono i “casi speciali”.
Più che giustificato, quindi, l’intervento, che vorrebbe essere un monito, del ministro (per gli Affari regionali con delega alla Famiglia) Enrico Costa, che, di fronte a segnali di segno opposto provenienti se non dal suo partito dalla maggioranza parlamentare di cui fa parte, in un intervento sul tema al ”Forum delle associazioni familiari”.si è affrettato a dichiarare: “Sia chiaro che non può rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta: in tema di stepchild adoption fino a oggi la giurisprudenza ha dato delle interpretazioni colmando un vuoto normativo. Ora quel vuoto non c’è più, c’è una norma chiara che esclude la stepchild adoption, a maggior ragione alla luce dei lavori parlamentari, e quindi mi attendo di vedere chiusa una fase di interpretazione creativa”.
La promotrice della legge, la senatrice del PD Monica Cirinnà, gli ha obiettato che non vi è nessuna giurisprudenza creativa, ma una “giurisprudenza che, davanti alla scelta del legislatore di non decidere, continua ad applicare la norma esistente che è la legge sulle adozioni che è richiamata esplicitamente al punto 20 del maxi-emendamento del governo“.
Sostanzialmente concorde con la sua compagna di partito il ministro della Giustizia Orlando: “Non è nostro compito dire come devono intervenire i magistrati con le sentenze. Siamo noi a chiedere con la legge ai giudici di svolgere la loro attività interpretativa, che non è comprimibile“. E ancora: “Essendo al centro l’interesse del minore, la legge chiede ai magistrati di apprezzare il caso concreto“.
Infine, intervistato da Avvenire (13 maggio), il presidente emerito della Corte costituzionale (nonché vicepresidente del Consiglio Superiore nel quadriennio 1986-1990), pur muovendo da premesse diverse rispetto alla Cirinnà e fortemente critico nei confronti della procedura seguita per il varo della legge sulle unioni civili, che sospetta di incostituzionalità, alla domanda dell’intervistatore “Sulle adozioni c’ è chi ritiene che lo stralcio porrà un freno alle sentenze innovative, e chi è dell’idea opposta”, non ha condiviso l’ottimismo del ministro Costa. “In realtà – ha risposto – è stata solo rafforzata la prassi giurisprudenziale già in atto, cresciuta – non a caso – dopo l’approvazione delle unioni civili al Senato in prima lettura. Alcune di queste sentenze sono state impugnate, così invece viene data una legittimazione normativa a queste interpretazioni più audaci. Le sentenze hanno stimolato il legislatore e il legislatore è intervenuto a coprire le sentenze, così il cerchio si chiude”.
Chi scrive, avendo in più occasioni criticato la propensione di una parte dei giudici ad invasioni di campo e ad addossarsi un’azione di supplenza e a volte di vera e propria correzione del potere legislativo, non può non condividere, in via di principio, le critiche implicitamente (neanche tanto) rivolte dal ministro Costa e dal prof. Mirabelli alla cosiddetta giurisprudenza creativa. Questa rappresenta l’ultimo stadio della cosiddetta interpretazione evolutiva, oggetto quarant’anni fa di molte critiche e di molti dibattiti e oggi nobilitata col nome di “interpretazione costituzionalmente orientata”, che in realtà sarebbe accettabile o addirittura doverosa se troppo spesso non si dimenticasse che non può definirsi “costituzionalmente orientata” una giurisprudenza che disapplica il principio fondamentale sancito dall’articolo primo della Costituzione repubblicana: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, quindi, in una repubblica parlamentare, in linea di massima attraverso i rappresentanti da lui eletti Parlamento.
E’ a questa sovranità del popolo che si richiama il ministro Costa quando, dopo avere constatato che le sentenze precedenti al varo della legge sulle unioni civili coglievano l’occasione dell’esistenza di un vuoto legislativo, esclude l’ammissibilità che si prosegua su questa strada ora che ”quel vuoto non c’è più, c’è una norma chiara che esclude la stepchild adoption”. In realtà nel testo della legge non si rinviene alcuna norma, più o meno chiara, che espressamente la vieti. Probabilmente il ministro fa riferimento, ma a torto, al punto 20 del testo normativo richiamato anche, a opposti fini, dalla senatrice Cirinnà. In effetti tale norma, dopo avere disposto che “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”, precisa che tale disposizione “non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184”. Tuttavia in cauda venenum, perché il punto 20 si chiude con l’aqffermazione che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, cioè, appunto dalla legge n. 184/1983.
Ne consegue che, alla stregua della norma di cui al punto 20, anche i partners di un’unione civile possono fare ricorso alle disposizioni di cui alla legge n. 184/1983. A differenza dei coniugi, ai quali non vengono in questo caso parificati, non potranno utilizzare la cosiddetta “adozione legittimante”, ma potranno comunque avvalersi della disposizione riguardante i “casi speciali” di cui all’art. 44/1° comma lettera d) così come sostituito dalla legge n. 149/2001, appunto la norma utilizzata, già prima dell’approvazione della legge sulle unioni civili, dalle criticate sentenze “creative” per consentire anche nelle coppie omosessuali l’adozione del figlio del partner.
Ha, quindi, ragione il prof. Mirabelli nell’affermare che con la legge Cirinnà si è solo rafforzata la prassi giurisprudenziale già in atto, perché si è data una legittimazione normativa a queste interpretazioni più audaci, che proprio perché tali erano state oggetto di impugnazioni, adesso destinate all’insuccesso. ”Le sentenze hanno stimolato il legislatore e il legislatore è intervenuto a coprire le sentenze, così il cerchio si chiude”.
Pienamente azzeccata anche la previsione del prof. Mirabelli sull’esito delle impugnazioni proposte dalle Procure contro le sentenze ammissive dell’adozione. Il 26 maggio la Corte d’Appello di Torino, giustificando le decisioni con la necessità di dare tutela a situazioni di fatto in essere, ha rigettato il gravame e confermato le due sentenze impugnate.
In realtà occorre rendersi conto che l’argomento dell’interesse del minore a crescere in un nucleo familiare caratterizzato dalla presenza di un padre e di una madre spesso inviocato dagli oppositori della stepchild adoption, pur se antropologicamente valido, se applicato sul piano giuridico comporterebbe non la semplice reiezione della domanda di adozione, che lascerebbe comunque il minore nella situazione, ritenuta pregiudizievole, di convivenza con il partner del genitore naturale, ma la dichiarazione del suo stato di adottabilità al fine di renderne possibile l’inserimento in un diverso nucleo familiare in grado di assicurargli condizioni più adeguate al suo regolare sviluppo. Ora, a tanto si potrà eventualmente giungere, alla stessa stregua di quanto avviene per i nuclei eterosessuali, in singoli casi per porre riparo a situazioni di fatto particolarmente disastrate, ma difficilmente un provvedimento così radicale (per altro, a quanto risulta, da nessuno proposto in via generale) potrà essere motivato sulla base della convivenza del minore con una coppia omosessuale. Questa, difatti, per effetto della legge sulle unioni civili, è non semplicemente tollerata o ritenuta indifferente, ma invece riconosciuta dallo Stato come meritevole di tutela e promozione attraverso l’attribuzione alla coppia di una serie di diritti del tutto analoghi a quelli spettanti alle coppie unite dal vincolo del matrimonio. Diritti che ovviamente trovano la loro giustificazione nel valore positivo riconosciuto a questa “formazione sociale”.
Si tratta anzi di un riconoscimento che, in prospettiva, potrà rendere difficile mantenere ferma la limitazione ai soli “casi speciali” del ricorso all’adozione da parte delle coppie omosessuali.
Un ulteriore problema è se la “chiusura del cerchio” comporti anche, di qui a breve, la legittimazione della pratica dell’utero in affitto (ovviamente sotto il termine più asettico di “maternità surrogata” o altro simile). Lo dà per certo il cardinale Bagnasco, che, d’accordo col prof. Mirabelli, ritiene già acquisita nel nostro ordinamento giuridico, per via giudiziaria, l’adozione del figlio del partner. Lo teme anche il deputato del Pd Giuseppe Lauricella, che tuttavia fa dipendere questo ulteriore esito dall’eventuale approvazione della stepchild adoption da parte del parlamento. Afferma, difatti, che “la stepchild adoption rischia di condurre a pratiche inaccettabili eticamente e socialmente, soprattutto per mancanza di rispetto della condizione delle donne che prestano (o sono costrette a prestare) il loro corpo”, sicché “se prima non si affermerà con norma che la maternità surrogata (o utero in affitto) è reato, non si potrà in alcun modo pensare di introdurre nel sistema la stepchild adoption“. Anzi “il reato dovrà essere previsto non solo per chi “affitta” l’utero ma anche per chi commissiona la maternità surrogata anche fuori dall’Italia. Occorre scongiurarne la pratica sotto ogni punto di vista e nei confronti di qualunque posizione soggettiva ed oggettiva, sia nei riguardi di chi si presta, sia di chi compra. Continuare a nascondere l’equivoco significa voler assecondare non l’interesse del bambino (che non esiste) ma soltanto l’egoismo della pretesa di genitorialità”.
Evidentemente, a differenza di Bagnasco e Mirabelli, il Lauricella, che, quale rappresentante del potere legislativo, vorrebbe escludere intromissioni di quello giudiziario, crede che la situazione sia ancora nella disponibilità del Parlamento, in grado di bloccare la pratica dell’utero in affitto anche restando passivo, cioè non sanzionandola come reato dovunque venga effettuata (quindi anche fuori dal territorio nazionale), essendo sufficiente che non autorizzi l’adozione del figlio del partner (sembra di dovere intendere non solo ai contraenti delle unioni civili, ma a tutte le coppie non unite in matrimonio).
Il fatto è che, come si è visto, a differenza di quanto pensa l’on. Lauricella, la stepchild adoption è già presente nel sistema. Di conseguenza, che la legge Cirinnà rappresenti allo stato attuale un’incentivazione, in particolare per le coppie omosessuali maschili dotate di consistenti mezzi economici, al ricorso alla pratica dell’utero in affitto in quanto apre ai genitori surrogati la strada per l’adozione del “prodotto”, è un innegabile dato di fatto. Il parlamento potrà porvi rimedio solo intervenendo sulla legge che già oggi la vieta in modo da renderla punibile anche se praticata all’estero. Si tratta però di un intervento legislativo indubbiamente più che opportuno, ma richiesto soprattutto dalla tutela della salute e della dignità della donna, ma tutt’altro che risolutivo per quanto riguarda i problemi posti l’adozione del figlio del partner, sia pure nella forma non legittimante elaborata dalla giurisprudenza, se non altro perché inciderebbe unicamente sulle coppie omosessuali maschili.
Francesco Mario Agnoli