State allegri. Il Bel Paese fa ancora notizia. La baruffa sull’acqua benedetta pasquale surrettiziamente erogata a scuola nella città di Bologna, subito contestata da alcuni docenti e familiari di allievi di fieri sentimenti laici e quindi riconfermata con una sorta di stratagemma ha fatto il giro del mondo ed è arrivata a lambire le pagine dei quotidiani statunitensi (“questa è la stampa, baby, e non puoi farci nulla…”) provocando una valanga di commenti: qualcuno anche involontariamente umoristico. A tal riguardo il Guinness va a un giornale di destra sulla prima pagina del quale un elzevirista teocon (teologo-liturgista nei giorni dispari, enogastronomo in quelli pari) ha sfiorato il sublime accusando i laicisti bolognesi, rei di lesa lustrazione quaresimale, di parteggiare nientemeno che per l’ISIS del califfo al-Baghdadi. Il sottile filo logico sarebbe che l’attacco ai riti cattolici spianerebbe coscientemente o meno la strada, attraverso l’agnosticismo, al fondamentalismo musulmano. Paradossale, arditissima tesi: come avrebbe detto il Cavalier Marino, è del teocon il fin la Maraviglia…
Accontentiamoci da parte nostra di più pedestri ragioni. Ma anche così restiamo in piena iperbole. In effetti, tra l’altro, questa dell’Islam tirato in ballo (a sproposito, tanto per cambiare) al fine di attaccare le tradizioni cattoliche, è tutt’altro che nuova. Da un po’ di anni, in ogni periodo di avvento ci vuole tutta la pazienza degli imam delle varie comunità musulmane per spiegare che, da parte loro, non c’è alcuna ragione per impedire che nelle scuola si faccia il presepio: eppure, tale peraltro ovvia precisazione si rende responsabile perché c’è regolarmente qualche famiglia o qualche insegnante laicista pronto a nascondersi dietro il supposto disagio di eventuali alunni musulmani dinanzi a bue, asinello e re magi (dei quali viceversa, guarda caso, il Corano parla con devozione e simpatìa).
Ma i paradossi non finiscono qui. Anzi, investono frontalmente il nostro tempo. Viviamo un periodo di violenti fondamentalismi contrapposti, nei quali si è giunti ad uccidere nel nome di Dio con molta maggior violenza di quanto forse non si sia mai fatto quando la fede religiosa era un fatto generale, quotidiano, comune e condiviso. Al tempo stesso trionfa ed è popolare tra credenti e non, nel mondo cristiano e fuori di esso, un papa che sembra sostenere una fede soft, fluida per non dire addirittura liquida, che più che alla conversione mira al consenso: il che induce molti, troppi forse, a pensare che il tempo dei dogmi e della disciplina sia finito e che per esser cristiani – anche senza bisogno delle messe e dei sacramenti – sia sufficiente un po’ di buon senso e tanto “volemose bene”.
Attenzione, cristianucci. Un papa gesuita fino a due anni fa era qualcosa d’impossibile e d’impensabile: oggi è inaudito, nel senso etimologico del termine. Tra Cinque e Seicento alcuni bizzarri membri della Compagnia tentarono di persuadere i cinesi che si potesse arrivare al cristianesimo anche senza rinunziare a Confucio, e il papa che si potesse celebrar messa con riti confuciani. Nell’Ottocento, quei neri ipocriti pretacci restarono quasi da soli a reggere la diga della Tradizione contro montante laicismo, invadente liberalismo cristiano e modernismo d’assalto. E se questo papa gesuita applicasse da par suo (“gesuiti euclidei vestiti da bonzi…”) alla Modernità l’aurea regola della lotta giapponese, sfruttare cioè la forza dell’avversario, per riportare la Chiesa di Roma al centro del dibattito postmoderno attraverso un’apertura d’un’audacia che la vecchia sinistra cattolica che si baloccava travestendo la fede da sociologia non si è nemmeno mai sognata?
Proviamo a riconsiderarlo da questa prospettiva, l’austero rito della benedizione pasquale che tanti preti delle varie confraternite San Pio V amerebbero celebrare con austero sfarzo di aspersioni lustrali e di formule esorcistiche. In fondo, siamo alle vecchie buone abitudini della primavera, un po’ come le pulizie stagionali: che non a caso una volta si facevano in tutte le case aspettando appunto “l’acqua benedetta”. Si ha un bell’essere laici, sia ha un bel far buon viso – e ci mancherebbe altro… – a sinagoghe e moschee: le nostre radici sono là, le nostre città e le nostre campagne sono ancora dominate dall’ombra profonda dei campanili e dalle voci sonore della campane, se noialtri italiani vogliamo tanto bene alla mamma è perché resta ancora forte e sicuro l’archetipo di Maria Vergine e Madre, e non c’è dottor Freud che tenga. L’aveva ben capìto quell’austero un po’ tetro filosofo marxista sardo, per il quale era il cattolicesimo l’unica forza fondante della società italiana. L’aveva ben capìto quel tal agitatore romagnolo bestemmiatore e mangiapreti il quale si affrettò a far sì che il re al quale egli – repubblicano impenitente – aveva giurato fedeltà per meglio dominarlo si liberasse dalla scomunica, perché altrimenti l’Italia gli sarebbe scappata sempre di mano.
E’ questa profonda coscienza storica che manca agli anticlericali patetici che se la prendono con i presepi e l’acqua benedetta mostrando di non rendersi conto che in fondo si tratta di cerimonie propiziatorie e lustrali vecchie quanto il mondo; e che i miti e i riti sono sempre più forti delle pretesche giaculatorie laiciste. Il papa gaucho e gesuita, con la sua croce di metallo bianco e le sue scarpe vecchie, queste cose le sa bene: non scomunica nessuno, non diffida e non ammonisce nessuno, ostenta bonari metodi spicci e manica larga. I clericali che ancora tuonano contro l’”apostasia” del concilio vaticano II fanno solo ridere. Lui no: lui tiene aperte le porte della casa del Padre. E sa bene che quelle porte sono ampie, ma le pareti di quella casa sono più forti della morente Modernità. Questo è il suo segreto.
– …FUOCO! –
“Caricate! Puntate! Fuoco!”. Una scarica sincronica, micidiale: il condannato che si accascia mentre sulla sua camicia immancabilmente candida, all’altezza del cuore, una macchia purpurea si allarga. Ricordi romantici: il fossato di Belfiore, Castel Sant’Angelo e il cavalier Cavaradossi, Senso di Luchino Visconti, i rivoluzionari di Pancho Villa contro le milizie dei federales, “il-povero-soldato-è-condannato-a-morte-lontan-dalla consorte-vicino-al-colonnel”, freddi impettiti comandanti con la sciabola sguainata (“Maledetti-signori-ufficiali-che-la-guerra-l’avete-voluta”) e Uomini Contro che rifiutano la benda, e la famiglia dello czar innaffiata di proiettili alla rinfusa, e Ciano e De Bono a cavalcioni alla sedia fucilati alla schiena in segno di disonore, e anche i gerarchi repubblichini sulla piazza di Como, con Barracu che come medaglia d’oro pretende (invano) di venir colpito al petto e Pavolini che tenta un’ultima eroica fuga.
E frasi, frasi “storiche”, frasi “fatali”: l’ultima sigaretta e poi “Mirate al petto, risparmiate il volto!” e le ultime grida stentoree e disperate, i “Viva!” qualcosa riaffermati per l’ultima volta e una volta per tutte.
C’è tutto il Risorgimento, la Grande Guerra, la Resistenza, nella sequela di fucilazioni che comportano sempre un che di disperato eppure di romantico. Un modo spiccio, barbarico ma a modo suo più decoroso e forse meno penoso di tanti altri sistemi ideati più tardi per metter fine alla vita dei condannati alla pena capitale. Pensiamo alla tremenda sedia elettrica su cui i malcapitati “friggono” per lunghi, interminabili minuti; all’immonda garrota che spezza implacabile le vertebre del collo; all’impiccagione che soffoca brutale e che ha tanto impressionato François Villon e Fabrizio de André (“tutti morimmo a stento…tirando calci al vento”); alla camera a gas, “indolore” ed “eutanasiaca” solo per autocertificazione dei carnefici e divenuta simbolo dell’abietto massacro di massa per innocenti; alla decapitazione con i suoi in apparenza “asettici” succedanei quali la ghigliottina, che era parsa una giacobinata in fondo civile anche ai papi della Restaurazione e che il mantello rosso del celebre boia-filosofo Mastro Titta circonfondeva di una sua macabra e dignitosa, dura eppur dolente umanità (molto migliore del ritorno all’artigianato barbarico da parte dei carnefici del califfo); all’iniezione letale, propagandata come la più “civile” e forse invece la più infame di tutti, presentata in tutto il suo orribile splendore letale in un film interpretato mirabilmente da Sean Penn e Susan Sarandon.
Negli Stati Uniti d’America, gran parte dei quali permane fedele allo “spirito della frontiera” e seguace convinta del principio biblico dell’occhio-per-occhio, quanto a condanne capitali e relativi metodi ne hanno provate di tutte. Alla fine l’arcaico e ruvido stato dello Utah ritorna alla fucilazione, quindi al plotone di esecuzione. Un metodo, a modo suo, “civile”: i componenti del plotone sono tutti volontari, ma solo la metà è dotata di arma carica; nessuno sa se il suo fucile esploderà, ma tutti sono ben consci che se il condannato non muore subito saranno puniti; ciascuno prende accuratamente la mira, pregando in cuor suo di sparare a salve e ben sapendo che, per tutta la vita, si convincerà di averlo fatto; il sistema di puntamento laser, col suo freddo implacabile puntino rosso, rende sicura la mira e istantaneo (almeno si spera) il decesso, per quanto il triste privilegio del comandante, il colpo di grazia, sia un rito obbligatorio come un tempo lo era il sottile infallibile pugnale acuminato perciò stesso detto “Misericordia”. Ecco la Buona Morte, decorosa perché preceduta da un ultimo pasto che può essere succulento (beati i forti che sanno goderselo…), quindi il rituale di pacificazione (la confessione e l’assoluzione per i cattolici, l’abbraccio conciliatorio con il boia, il diritto all’ultima sigaretta e alle “ultime parole famose”. La morte addomesticata, come ci hanno insegnato Norbert Elias, Albereto Tenenti, Michel Vovelle. Anche questa è civiltà. O, almeno, così pensano nello Utah. Certo, una lunga serena vecchiaia e quindi un tranquillo trapasso nel sonno sarebbero preferibili. Ma fondo ci sono modi molto peggiori di compiere l’estremo passo. Si dice che Cesare, a chi gli chiedesse come avrebbe voluto che fosse la sua morte, rispondesse con un lapidario “Ràpida”. Gli toccarono ben ventitré pugnalate, l’ultima infertagli dal figlio adottivo prediletto. Un plotone di esecuzione sarebbe stato ben più decoroso e pietoso.
Franco Cardini
dal suo blog personale