A pochi giorni dal viaggio di Papa Francesco in America parla Domenico Vecchioni, ex Ambasciatore d’Italia a Cuba.
Domenico Vecchioni è stato ambasciatore d’Italia a Cuba e conosce molto bene l’isola caraibica dei Castro. Alla vigilia della visita del Papa a Cuba e negli Stati Uniti lo abbiamo intervistato per conoscere il suo punto di vista all’indomani della riapertura delle ambasciate dei due paesi con la mediazione fondamentale della Santa Sede. Secondo l’ambasciatore Vecchioni, che è anche un apprezzato storico ed esperto di intelligence, il Vaticano, grazie soprattutto alla presenza di Papa Francesco, sta lavorando in America per aprire una nuova fase ed impostare nuove strategie diplomatiche a sostegno della società civile.
La riattivazione delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti a Cuba è una vittoria della diplomazia vaticana? Certamente la Santa Sede ha svolto un ruolo determinante nel riavvicinamento tra Washington e l’Avana. Più però attraverso l’episcopato locale che mediante la diplomazia vaticana, più cioè con il Primate di Cuba, cardinale Jaime Ortega, che con la Nunziatura apostolica dell’Avana. Ortega, in effetti, è stato particolarmente attivo nella fase iniziale dei contatti compiendo numerosi viaggi “segreti” negli Stati Uniti e contribuendo ad ampliare gli orizzonti dell’accordo, inizialmente avviato unicamente per risolvere una controversia specifica (la liberazione dell’ostaggio americano Alan Gross in cambio delle spie cubane detenute negli Usa), verso la normalizzazione dell’insieme delle relazioni tra i due paesi interrotte da più di mezzo secolo. Ortega, grande amico e sostenitore di Raul Castro, ha colto al volo le propensioni al dialogo dei due contendenti, accese da differenti motivazioni, favorendone la loro concreta manifestazione. Devo dire però – è una mia opinione del tutto personale – che se in questa fase dei rapporti cubano-americani c’è stata la vittoria di una diplomazia, questa è stata senza dubbio della diplomazia cubana. Un vero trionfo di Raul Castro, che ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefisso. Ha guadagnato la liberazione degli “eroi” (spie cubane professionali condannate a pesantissime pene detentive per gravi reati di spionaggio) detenuti negli USA in cambio del rilascio di Gross. Operazione peraltro alquanto “sbilanciata”: non si scambiano spie con cooperanti! Ha ottenuto una legittimazione internazionale che nemmeno Fidel si sarebbe mai sognato di avere. Ha salvato l’economia cubana, prossima al fallimento, attirando capitali, turisti e commercio americani. Ha strappato la promessa della cancellazione dell’embargo (anche se a decidere sarà il Congresso americano, non il Presidente, trattandosi di modificare una legge federale). Ha conseguito la “sterilizzazione” della dissidenza politica interna, descritta oramai come un gruppetto senza seguito di esaltati e estremisti contrari al dialogo e promotori di oscuri interessi. Ha cancellato la Posizione Comune Europea, che condizionava gli aiuti di Bruxelles a progressi nel settore dei diritti dell’uomo. Ha fatto dimenticare le nefandezze passate del regime. Il tutto acquisito senza modificare di una sola virgola il sistema istituzionale, governativo, giudiziario, gli apparati repressivi e negatori di libertà, l’invasività e la brutalità della polizia politica. A Cuba, insomma, rimane vigente il regime politico che da più di cinquant’anni opprime il popolo. Ma chi oserà più ora criticare Raul Castro, dopo aver ottenuto il riconoscimento di Washington e la benedizione della Santa Sede? Se Castro dunque ha trionfato, gli USA sono usciti perdenti dal confronto. In effetti che cosa ha guadagnato Washington? Solo una cambiale a “babbo morto”! Cioè la vaga e incerta prospettiva che le previste aperture in campo economico-turistico spingeranno inevitabilmente il sistema politico cubano verso un’evoluzione democratica. Il che potrebbe anche avvenire in futuro, ma certamente non finché alla guida del paese ci sarà la famiglia Castro. E qui sta tutto il problema. L’accordo cubano-americano, facilitato e sponsorizzato dalla Santa Sede, ha in definitiva consolidato il regime o ha aperto vere prospettive di evoluzione democratica? Temo che per il momento la prima ipotesi sia la più realistica.
Ci saranno altre iniziative della Santa sede in America per normalizzare rapporti tra Stati che non si parlano da tempo?
Devo dire che effettivamente si nota un maggior attivismo degli episcopati nazionali che intervengono per favorire il dialogo e la riconciliazione in società spesso divise, se non spaccate. In Nicaragua il cardinale Brenes è diventato l’interlocutore privilegiato del Presidente (comunista) Daniel Ortega. Ad Haiti il cardinale Langlois si è fatto promotore di una accordo sulla legge elettorale che permetterà finalmente al paese di andare alle urne prossimamente. Ancora, a Santo Domingo il cardinale Okolo ha ottenuto la ripresa del dialogo con Haiti per trattare in maniera più umana la drammatica questione dei migranti. Insomma c’è una chiara tendenza negli episcopati latino-americani a intervenire più spesso e più attivamente nelle società civili dove operano. Anche se la strada scelta presenta qualche rischio di sbilanciamento “politico”, rispetto alla tradizionale diplomazia vaticana, quella cioè discreta e concreta delle nunziature apostoliche, comportando inevitabili prese di posizione. Prese di posizione che possono a volte suscitare consensi sul piano politico, ma causare sconcerto “religioso” tra i fedeli. Come appunto è avvenuto a Cuba, con il forte appoggio dato dal cardinale Jaime Ortega al dittatore Raul Castro. Mi auguro che il Papa argentino, abbracciando Raul Castro nel suo imminente e sicuramente trionfale viaggio a Cuba, si ricordi chi sia stato “Raul il Terribile” negli anni della Rivoluzione e abbia un pensiero per le vittime del regime, passate e presenti. Almeno questo.
I “nuovi” rapporti tra Stati Uniti e Cuba porteranno ad una occidentalizzazione dell’isola caraibica?
Immagino che per occidentalizzazione lei intenda forse dire “americanizzazione”. Cuba, in effetti, nonostante l’imposizione di un regime marxista-leninista che ha avuto per decenni come modello di riferimento l’Unione Sovietica, è sempre rimasta nell’anima una nazione latina, l’ultima ad ottenere l’affrancamento dalla Spagna, e quindi occidentale. “L’uomo cubano” è sì il risultato di un magnifico miscuglio di razze, culture e religioni dei più variegati orizzonti. Indigeni, europei, africani e persino cinesi (emigrati a Cuba alla fine del secolo XIX per tagliare la canna da zucchero) si sono mescolati in maniera inestricabile e originale. Ma l’impronta latina non è venuta mai meno. Il rischio piuttosto è che ora, con l’arrivo dei dollari americani, Cuba si lasci irretire dal modello americano, dall’ american way of life e torni in qualche modo ad essere il “cortile di casa” di Washington. Difficile fare previsioni. Anche perché nessuno sa come evolverà la situazione, verso quale modello porteranno le riforme avviate da Raul Castro. Carlos Montaner, grande scrittore cubano in esilio, parla di un sistema ibrido che si situerebbe tra un capitalismo selvaggio (con tutti gli eccessi che ne conseguono) e un socialismo senza sussidi (con tutte le frustrazioni che ciò comporta). Non so. È troppo presto per dirlo. Ciò che è certo, è che Raul sta cercando disperatamente di salvare la rivoluzione socialista (e il potere) iniettando nell’economia cubana forti dosi di vitamine capitaliste. Raul Castro guarda evidentemente alla Cina. Ma non è affatto detto che il modello cinese funzionerà a Cuba, piccolo paese devastato nelle strutture agricole e industriali da mezzo secolo di dittatura comunista e di economia totalmente collettivizzata, un paese da sempre “sussidiato” e non ancora preparato ad affrontare un mercato aperto e concorrenziale.
L’avvicinamento tra Stati Uniti e Cuba, con la riapertura delle rispettive sedi diplomatiche, lascia perplessi gli esuli cubani…
Credo che tra gli esiliati cubani negli USA, concentrati principalmente a Miami, si registrino “sentimenti misti”. I più giovani, quelli per intenderci nati negli Stati Uniti, vedono con un molto interesse le aperture che schiude il dialogo Washington-l’Avana: possibilità di recarsi più spesso nell’isola, di inviare più soldi ai parenti rimasti in patria, di ristabilire contatti familiari, di viaggiare insomma senza tante restrizioni ecc.. Per altri invece, per coloro che sono fuggiti con qualsiasi mezzo dall’inferno tropicale, Raul Castro non fornisce sufficienti garanzie di sincera evoluzione democratica e temono che dietro la facciata del nuovo buonismo raulista si nasconda, in realtà, il regime di sempre, autoritario e repressivo, che ha solo modificato volto e tattica. Un regime che non cambierà finché al potere ci sarà la famiglia Castro. Questi esuli rimproverano agli americani di non aver saputo approfittare dell’occasione per strappare qualche promessa in più circa il futuro democratico dell’isola. Qualcuno, infine, pensa che Washington sia caduta in una trappola ed è di conseguenza favorevole all’annullamento di tutte le misure adottate da Obama, fin quando non verrà stabilito un chiaro percorso di ritorno alla vita democratica. Come, ad esempio, il giovane senatore della Florida Marco Rubio, figlio di rifugiati cubani, candidato alla nomination per i repubblicani, che sta facendo la sua campagna elettorale sul rigetto di tutte le misure approvate da Obama. Senza contare l’accusa principale che gli esuli rivolgono all’attuale amministrazione statunitense: avere in pratica abbandonato la dissidenza politica presente nell’isola, messa semplicemente in un angolo e resa del tutto impotente. Per la soddisfazione e la gioia di Raul Castro.
Papa Francesco è considerato l’artefice del riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba. Il Santo Padre si sta dimostrando anche un abile diplomatico?
La diplomazia di Papa Francesco sta avendo risultati indubbiamente positivi, specialmente in America Latina dove il suo carisma è immenso e indiscusso, soprattutto tra gli strati più umili della popolazione. Risultati peraltro ottenuti, come dicevo prima, più attraverso gli episcopati locali che non mediante la diplomazia “classica”, che pure in passato segnò clamorosi successi. Come avvenne, ad esempio, all’epoca della controversia sul Canale di Beagle, tra Argentina e Cile. Una controversia che aveva indotto i due paesi sull’orlo della guerra. Grazie alla efficacissima opera di mediazione “diretta” della Santa Sede, i due contendenti non solo evitarono il conflitto armato, ma conclusero anche un accordo di Pace e di Amicizia a definitivo e immutabile regolamento delle questioni di frontiera, firmato proprio in Città del Vaticano nel novembre 1984. Un risultato straordinario della diplomazia vaticana, non a torto considerata la migliore al mondo. Si sa d’altra parte che Papa Francesco è stato più volte sollecitato ad intervenire nella storica controversia per le isole Falkland/Malvine, in vista quanto meno della riattivazione del dialogo tra Buenos Aires e Londra, da anni interrotto. Un intervento che si presenta però tutto in salita, proprio perché difficilmente potrebbe essere fatto tramite gli episcopati locali, visto che quello inglese avrebbe minore margine di manovra rispetto a quello argentino. Inoltre, il governo dell’anglicana Inghilterra ha assunto posizioni rigide e chiare sull’argomento, affermando più volte che “non c’è nulla da negoziare con gli argentini”. In questo caso, quindi, più che agli episcopati nazionali sarebbe preferibile ritornare alla diplomazia vaticana e alla sapiente e carismatica opera dello stesso Pontefice in quanto Capo di uno Stato incaricato dei buoni uffici o della mediazione, su richiesta dei due paesi interessati. Probabilmente in una simile cornice Francesco potrebbe vincere anche questa complicata sfida diplomatica, superando le innate diffidenze inglesi per il Capo – argentino – della Chiesa Cattolica.
Lei è un esperto di intelligence. L’Europa è ormai al centro del mirino dei terroristi. Quanto rischia l’Italia?
L’Italia è senza dubbio molto più esposta che in passato. Non solo perché la guerra oramai non è più così lontana dai nostri confini, ma anche perché l’estremismo islamico ha dato connotazioni sempre più religiose alla sua lotta, che non è diretta contro questo o quello Stato, questa o quella ideologia, questa o quella organizzazione politica, ma contro gli infedeli, contro i cristiani! Questo va capito. Se la seconda guerra mondiale è stata generata da contrapposte “ideologie” (democrazie contro dittature), la terza potrebbe avere origini religiose. Lo so, può sembrare una visione riduttiva, pessimistica e alquanto apocalittica. Ma non credo di essere molto lontano dalla verità. Gli estremisti islamici si muovono con una mentalità che ci porta indietro nel passato di diversi secoli. Se “la Libia è la porta dell’Italia”, come non si stanca di ripetere l’ISIS che controlla una parte del territorio libico, Roma e il Vaticano sono i veri obiettivi. E naturalmente non dobbiamo temere solo l’ISIS. Non dimentichiamoci di Al Qaeda, di Al Nusra, e Boko Haram ecc…, tutti movimenti sempre più vicini all’Europa e dove forse già dispongono di punte avanzate. Dovremo in particolare adottare misure straordinarie di sicurezza per il Giubileo: un’occasione troppo ghiotta per i terroristi islamici, i quali cercheranno certo di non mancarla! Un colpo al cuore della Cristianità sarebbe per loro una spettacolare e mediatica vittoria che saprebbero come sfruttare tra i loro adepti, presenti e futuri. Come inequivocabile segnale del “ritorno” dell’Islam in Europa, della sua rinnovata forza e del “declino” del cristianesimo. Tutte le Agenzie occidentali dovranno fornirsi reciprocamente massima collaborazione e scambi di informazione. L’unica difesa in queste battaglie “asimmetriche” e “transnazionali” rimane pur sempre l’Intelligence (che dovrebbe disporre di tutti i mezzi di cui ha bisogno), cioè la prevenzione, una prevenzione che può scaturire solo da efficaci infiltrazioni e adeguate azioni preventive… Altrimenti come potremo difendere ciascun obiettivo “sensibile” da attentati di folli kamikaze? Tutti i luoghi pubblici potrebbero essere in pericolo: dai cinema alle chiese, dalle stazioni ferroviarie ai porti. Preoccupante poi è il sospetto che dietro questo flusso biblico di migranti “indocumentati” ci possa essere una strategia, una regia che si prefiggerebbe due obiettivi principali. Inondare letteralmente di migranti vari paesi europei, l’Italia in primis, per destabilizzarli. Paesi dove diventerebbero invitabili scontri e disordini, qualora si superasse il limite massimo di assorbimento. È sintomatico al riguardo quanto sta accadendo in questi giorni in Ungheria, dove si è addirittura deciso di utilizzare l’esercito. Secondo obiettivo: piazzare in posti strategici terroristi “in sonno”, mimetizzati tra le migliaia di richiedenti asilo, per “svegliarli” e attivarli al momento opportuno al fine di arrecare il massimo danno possibile. Non ci sono evidentemente le prove di questa strategia, ma lo scenario delineato appare possibile se non probabile.
La massiccia ondata migratoria accresce i rischi di attacchi terroristici in Europa?
Credo proprio di sì. Mi pare inevitabile. L’Europa, peraltro, solo ora comincia a prendere consapevolezza della formidabile sfida che rappresenta la corretta gestione dell’ondata migratoria che la sta investendo, non solo in termini di sicurezza nazionale, ma anche da un punto di vista sociale (si rischia il “rigetto” da parte delle popolazioni di accoglienza), politico (sviluppo dei movimenti nazionalisti e xenofobi) e di ordine pubblico (aumento della delinquenza di strada). In questo contesto, per prevenire al massimo la probabilità di attacchi terroristici, i Servizi di Intelligence europei dovranno compiere ogni sforzo per acquisire nuove professionalità, sviluppare maggiori collaborazioni interne e internazionali, favorire la complementarietà tra mezzi tecnici e fattori umani, acquisire nuovi metodi di lavoro. Adattarsi insomma agli inediti pericoli che incombono. Far in modo che alla somma delle nuove minacce (quella de terrorismo islamico è una delle più pericolose e potrebbe anche insinuarsi tra le pieghe delle disperate correnti migratorie) corrisponda la somma delle nuove competenze che dovranno acquisire le Agenzie di Intelligence dei grandi paesi democratici e liberali per preservare le nostre società e il nostro modo di vivere.
Gennaro Grimolizzi