Un segno linguistico, come ad esempio “tavola” o “sole”, ha una duplice funzione, in quanto designa qualcosa o un’insieme di cose, ed in quanto significa qualcosa. E’ conosciuto il caso più incerto del pronome personale “io”, che a differenza della “tavola” o del “sole” non rimanda ad alcuna designazione, ad un’esistenza indipendente dal segno linguistico: in altri termini, “io” non indica altro che colui che lo pronuncia. Esiste un significato generale nella parola “io” evidente a tutti coloro che la pronunciano? Non si può che rispondere negativamente, “io” è decifrabile solo soggettivamente, è una convenzione linguistica legata all’aspettativa che questo “io” continui.
Ognuno di noi ha dei ricordi, delle emozioni, ognuno di noi afferma l’esistenza e singolarità di questo “io” che abbiamo contribuito a formare nel nostro pensarci, nel desiderare, nel volere o nel non volere; connaturato a questo processo di formazione del “io” è il sopprimere tutto ciò che può negarne la naturale aspirazione alla continuità d’esistenza. Evidentemente questo “io” esiste, ma diremo che esiste solo grazie ad un corpo, il continuum della coscienza è possibile solo in virtù della sua individuazione corporea. Nella medicina tradizionale cinese questo processo è da millenni conosciuto, mente e corpo sono inscindibili, in continua e reciproca influenza e relazione. In Oriente si dice che il corpo pensa ed ha memoria – non a caso la memoria è anche un certo tipo di condotta – e la mente prende nomi differenti a seconda degli organi in cui svolge una specifica funzione. E’ comunque fondamentale capire che il corpo-mente è sintesi del mondo materiale e di quello spirituale ma non è un sistema chiuso, è microcosmo che comunica ininterrottamente con il macrocosmo. Questa omologia è alla base di tutte le dottrine orientali, dove i cinque elementi, alla base della diagnostica e terapeutica tradizionale cinese, si traducono in altrettanti sistemi quinari della realtà. Nel buddismo si insegna che l’essere umano è costituito da cinque soffi, mentre cinque sono le vie di Budda in corrispondenza alle sue cinque differenziazioni primarie, non da considerare come deità remote di altri mondi, quanto potenzialità immanenti l’essere umano e che si estrinsecano nelle cinque fondamentali passioni e nei cinque sensi.
L’omologia microcosmo-macrocosmo è ovviamente fondante le pratiche spirituali buddiste: si deve convincere anche il corpo. Le tecniche meditative e contemplative sono molteplici e possono variare per il fatto che il buddismo abbraccia popoli differenti, e nelle varie etnie sono stati assimilati precedenti substrati culturali e religiosi corrispondenti a certe attitudini ed abitudini; di fatto esistono diverse correnti e scuole con le loro particolari inflessioni, talvolta differenze consistenti ma, per come sono state sistematizzate, le pratiche meditative hanno una base comune, la corretta postura corporea e la concentrazione sulla respirazione, e per la loro piena efficacia bisognano normalmente della benedizione di una guida, di un’influenza spirituale. Utilizzo la parola benedizione e non iniziazione perché più vicina alla sensibilità orientale: la benedizione non è necessariamente collegata ad un rito, è una forza che si trasmette da cuore a cuore, forza percepibile organicamente nel pericardio, la membrana protettiva del cuore, e che induce una sensazione di profonda pace e beatifico benessere. Ma anche questa benedizione, concreta sul piano fisico e non immaginaria, rientra nell’ambito dell’impermanenza dei fenomeni, per quanto a lungo la sua influenza possa sottilmente mutare l’efficacia dell’azione di colui che ne è permeato. In un passato non troppo lontano, la benedizione veniva continuamente ricercata, nei monasteri o nei romitaggi di asceti, e perfino oggetti appartenuti a maestri ormai scomparsi generavano un vero e proprio feticismo, considerati ancora veicolanti una certa forza spirituale; non meno devozione era rivolta ai pellegrinaggi, alla ricerca di quella stessa forza nei luoghi in cui individui fuori dal comune avevano predicato o praticato la meditazione, in cui si era raccontato di guarigioni miracolose o accadimenti prodigiosi, in quel mistico abbandono alla trasparenza metafisica di cui il mondo materiale non è mai privo. Tra le condizioni che rendono l’esperienza di questa forza spirituale trasmissibile ve ne sono sia di psicologiche che di fisiche: non a caso l’enfasi è posta sulla respirazione, essendo l’attività fondamentale che mantiene l’essere umano in vita ed al contempo collega stati emotivi e tensioni corporee. Il corpo-mente è una possibilità spirituale, è la “porta stretta” che può venire attraversata durante la vita, questa vita, in questo mondo naturalmente soprannaturale.
La parola anima deriva etimologicamente da anemos, il vento, inteso come “soffio”, principio organizzatore della vita, ed assimilabile al respiro; non differentemente la parola greca psyche, anch’essa tradotta con anima, deriva da psychein che significa respirare. La parola anima è stata spesso utilizzata come sinonimo di spirito anche se, precisando meglio, si potrebbe distinguere, in quanto l’anima è legata all’individualità mentre lo spirito è impersonale. L’anima è lo spirito quando si riveste di una forma; dicendo forma si dice anima, e l’essere una forma è la qualità precipua di un individuo. Una volta abbandonata la forma, l’anima ritorna ad essere spirito. Il problema della sopravvivenza dell’anima è quantomeno ambiguo se si considera che, in un sentimento generale e prevalente, le cui ragioni sono emotivamente immediate e facili da comprendere, la sopravvivenza dell’anima è stata assimilata alla sopravvivenza del “io”.
Nel buddismo si insegna la non sostanzialità di un “io” metafisico, l’impermanenza di qualsiasi fenomeno – cosa che ognuno può facilmente constatare nella vita – non vi è alcun “io” che trasmigra di esistenza in esistenza. Il corpo-mente è l’individuo, dal latino individuus, cioè indivisibile, la cui separazione è la morte. L’immagine che tradizionalmente esprime la dottrina della reincarnazione è quella di una candela che nel suo spegnersi, accende un’altra candela; la candela non è la stessa candela, è l’archetipo-forma corrispondente alla natura essenziale e non accidentale della candela, anima e non ” io”, mentre la natura del fuoco è invariabile ed impersonale.
Madame Janus