Si è concluso alcuni giorni fa a Miami l’undicesimo round dei negoziati relativi al TTIP, per esteso Transatlantic Trade and Investment Partnership, ovverosia il partenariato commerciale transatlantico tra Stati Uniti e Unione Europea. Laddove venisse definito, tale accordo commerciale condurrebbe alla costituzione di una macro-area di libero scambio attraverso l’integrazione di due mercati (statunitense ed europeo), che messi assieme rappresentano quasi la metà del PIL mondiale, da attuarsi per mezzo della rimozione del maggior numero di ostacoli, tariffari e non, agli scambi e agli investimenti.
L’idea di una zona di libero scambio comune a Usa e Europa non è nuova. Nasce a metà degli anni ’90 del secolo scorso, dalla volontà degli Stati Uniti di frenare l’imminente ascesa economica dell’Asia. Basato sul modello dell’accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico (NAFTA), il partenariato commerciale con l’Europa, inizialmente denominato Trans-Atlantic Free Trade Area (TAFTA), avrebbe dovuto permettere, secondo i piani americani, di conservare la propria leadership mondiale nel settore dell’economia e del commercio e non solo. I dialoghi intrapresi, tuttavia, si conclusero rapidamente, per poi essere ripresi in seguito allo scoppio della crisi economica del 2008 abbattutasi su ambedue le sponde dell’Oceano Atlantico e ufficialmente riaperti nel luglio del 2013.
In due anni di trattative negoziali si sono riscontrate non poche difficoltà dovute, in parte all’ambizione di un complesso processo di armonizzazione di normative e sistemi istituzionali profondamente differenti tra loro, in parte alle forti perplessità prodotte in seno all’opinione pubblica, particolarmente scettica in merito all’eccessiva segretezza caratterizzante lo svolgimento delle contrattazioni.
Invero, i negoziati sono condotti ufficialmente dai rispettivi organi istituzionali di Stati Uniti e Unione Europea, per conto di quest’ultima dalla Commissione europea sulla base di un mandato conferitole dal Consiglio, non di certo dai cittadini, come si è fatta finanche scappare di bocca, alcuni giorni fa, una stizzita Cecilia Malmstrom, commissario Ue al commercio, durante un’intervista. Vero è che l’accordo finale, affinché possa entrare in vigore dovrà essere approvato dal Parlamento europeo prima e dai Parlamenti nazionali poi, tuttavia pare scarsa tale garanzia se comparata alla rilevanza e agli effetti che un simile accordo avrebbe sulla vita dei singoli cittadini, non adeguatamente informati nel merito e, quindi, resi incapaci di opporsi a quanto avviene.
Ciò detto, ben si comprendono le ragioni dei dubbi mossi dall’opinione pubblica nei confronti di un accordo le cui trattative subiscono la forti pressioni di società multinazionali e gruppi di pressione che hanno tutto da guadagnare dall’apertura totale e incondizionata di nuovi mercati privi di qualsivoglia barriera normativa di tutela di consumatori e lavoratori. Pertanto, il timore principale investe proprio il seguente contesto: un’area enorme di libero scambio il cui apparato normativo di regolazione viene dettato da lobby affaristiche prive di qualsivoglia legittimazione e controllo democratico.
I punti critici risultano essere molteplici. Partendo dalle norme di tutela dei consumatori, passando per gli standard qualitativi di produzione, soprattutto alimentare, sino ad arrivare alla vexata quaestio relativa al meccanismo di risoluzione delle controversie giuridiche fra investitori e Stati.
Quest’ultimo argomento è stato, senza alcun dubbio, quello sinora più discusso, in seno alle istituzioni e non. Nello specifico, si tratta di una clausola dell’accordo sul TTIP per mezzo della quale si vorrebbe istituire un arbitrato internazionale unico utile a risolvere le dispute tra gli Stati e le multinazionali. Considerata eccessivamente favorevole proprio a queste ultime, la clausola relativa all’ Investor-State Dispute Settlement (ISDS) è stata più volte oggetto di accese discussioni in seno al Parlamento europeo, ove si è finora registrata una forte attività contraria in relazione al suo accoglimento.
Nonostante la Commissione Ue abbia avanzato la proposta di un nuovo sistema di risoluzione delle controversie Stato-investitore “soggetto a principi più democratici”, i dubbi in merito permangono, poiché un simile meccanismo permetterebbe agli investitori privati di citare in giudizio i governi nazionali dinanzi a una corte privata d’arbitrato, dal momento in cui i primi dovessero ritenere che le leggi locali minaccino i loro interessi. Ciò si tradurrebbe in un vero e proprio attacco alla sovranità degli Stati, costretti a una posizione di inferiorità rispetto alle grandi multinazionali, in grado di minacciare l’esercizio della suddetta clausola come ricatto per dirigere e influenzare le scelte di politica interna dei singoli Stati. È evidente, dunque, il rischio a cui si andrebbe incontro dal momento che si replicherebbe quel rapporto di forza esistente oggi tra Stati fortemente indebitati e colossi finanziari che sono i maggiori compratori dei loro stessi titoli di Stato.
Ciò emerge con chiarezza in relazione al settore pubblico dei servizi (istruzione, sanità, etc.), costantemente a rischio privatizzazione. Sebbene, finora sia stato escluso che i servizi pubblici facciano parte delle materie del negoziato, è facile immaginare come le grandi multinazionali possano sfruttare il funzionamento della clausola ISDS per chiedere consistenti risarcimenti ai governi ogni qual volta essi modifichino le proprie politiche sull’accesso ai pubblici servizi.
Infine, a destare forti timori sono le previsioni negoziali in merito agli standard di produzione e di sicurezza alimentare in particolar modo, in ordine all’ingresso in Europa di carne trattata con ormoni e prodotti agricoli geneticamente modificati (OGM), già presenti sul mercato statunitense. La commercializzazione di prodotti alimentari geneticamente modificati è, al momento, regolata con attenzione in Europa, tant’è che, nel corso delle trattative, gli Stati Uniti hanno palesato la volontà di superare i rigidi controlli europei sui prodotti delle grandi multinazionali americane agritech. Tuttavia, il punto resta fra i più controversi, date le resistenze di molti Stati europei (Germani, Francia, Paesi Scandinavi e soprattutto Italia) nel consentire un simile cambio di rotta nella legislazione sulla sicurezza alimentare. L’importanza della materia è d’altro canto giustificata dagli ulteriori problemi che porrebbero settori contigui all’agroalimentare, a cominciare da quello medico-farmaceutico. Si è cercato di tranquillizzare, così, i timori avanzati dall’opinione pubblica in merito, affermando che l’intento principale che sta alla base del partenariato commerciale con gli Usa resta la facilitazione degli scambi, ma nel rispetto delle rispettive regole in materia.
Eppure, appare difficile pervenire ad una completa integrazione dei mercati senza lo strumento dell’armonizzazione normativa. D’altronde, il rafforzamento della compatibilità tra la regolamentazione dell’Unione Europea e quella degli USA è sempre stato uno degli obiettivi che ha sin da subito caratterizzato i negoziati, in quanto ritenuto elemento indispensabile nel processo di implementazione degli scambi commerciali, superando per quanto possibile le differenze normative che ostacolano i traffici commerciali e generano costi aggiuntivi. Giungere a una maggiore compatibilità consentirebbe, dunque, alle imprese di conquistare nuovi mercati, amplierebbe, inoltre, la scelta dei consumatori, ma, d’altro canto, vi è il serio rischio che conduca a un abbassamento dei livelli di protezione in materia di salute, sicurezza, ambiente e tutela dei consumatori stessi. Senza contare i timori relativi alle denominazioni di origine controllata, non riconosciute negli USA, e ai danni che potrebbero subire le piccole e medie aziende operanti nel settore, facilitando invece l’attività dei colossi multinazionali dell’agri-business.
Claudio Giovannico