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LA DIPLOMAZIA ITALIANA DINANZI AGLI ORIENTI. di Franco Cardini

Domenica 24 gennaio 2016 – III Domenica del Tempo Ordinario

L’accoglienza degli ambasciatori veneziani a Damasco (Anonimo, Venezia 1511 – Museo del Louvre, Parigi)

Il 2 settembre del 31 a.C., nelle acque del promontorio di Azio in Grecia, all’entrata del golfo di Acarnania, non lontano dalla punta settentrionale dell’isola di Leucade, la flotta della repubblica romana comandata da Ottaviano inflisse una decisiva sconfitta a quella egizio-romana di Antonio. Fino da allora le due parti in conflitto si distinsero come “occidentale” e “orientale”: la Roma del vincitore era egemonizzata dalle famiglie senatoriali, orgogliosamente legate alla loro cultura repubblicana e quiritaria e sospettose nei confronti delle aperture all’“Oriente”, presenti in quella ch’era stata la visione di Giulio Cesare ereditata da Antonio e radicata nel modello “occidentale-orientale” di Alessandro Magno, implicitamente connesso con la “regalità sacra” d’origine egizia per un verso, parto-persiana per un altro. Azio fu in qualche modo la rivincita postuma di Pompeo su Cesare: e l’Impero nacque quindi nel segno del principatus augusteo appoggiato dall’aristocrazia senatoria ma costantemente insidiato dalla tentazione regale-sacrale che finì col prevalere fra III e IV secolo. Si può dire che già da allora i termini “Occidente” e “Oriente”, al di là del loro valore in quanto indicazione di due punti cardinali, presero ad assumere anche due opposti significati politico-culturali, del resto già adombrati dalla tradizione ellenica come ben si vede nei Persiani di Eschilo. A occidente la Libertas, a oriente il Dominium; di qua la ragione, di là il sogno e la fantasia; di qua la critica e la scienza, di là il misticismo e la magia; di qua le misure certe e ordinate delle città e delle campagne, di là le immensità degli oceani e dei deserti; di qua i sedentari e gli agricoltori che hanno bisogno di limiti e di confini, che ne sono insofferenti; di là i nomadi e i pastori; di qua l’ordinata forza delle fanterie degli opliti e dei legionari, di là l’impeto dei guerrieri e dei cacciatori a cavallo. E’ uno schema, naturalmente, con tutta la genericità e le contraddizioni che gli schemi inevitabilmente comportano: eppure, è uno schema forte e al tempo stesso flessibile, che ancor oggi sopravvive e domina immaginazione e inconscio collettivo.
Il meridiano che passava vicino ad Azio o uno ad esso prossimo, più o meno il 20° ad est di quello di Greenwich, restò nei secoli la linea divisoria scelta a distinguere, con Diocleziano prima e quindi, definitivamente, con Teodosio poi, la pars Occidentis dalla pars Orientis dell’impero: una linea verticale che passava presso Adrianopoli, oggi Edirne nella Turchia trace, e che per il canale d’Otranto giungeva a distinguere, in Africa, la Sirte dalla Cirenaica. L’Italia si trovava, con il suo litorale sudorientale, a lambire questo confine: tutta decisamente inclusa nella pars Occidentis, quella “latina”, era tuttavia segnata dal destino storico di servire da confine tra le due aree. La lunga penisola italica è in effetti un gigantesco molo che si sviluppa in direzione nordovest-sudest e che divide il Mediterraneo, il Mare nostrum, in due bacini comunicanti attraverso il canale di Sicilia, quello d’Otranto e lo stretto di Messina; essa è stata nei secoli il piano ora d’insediamento ora di scorrimento terrestre-marittimo di genti e di culture diverse e comunicanti, con tutto il corredo di esperienze, di scambi, d’incontri e di scontri etnici, religiosi e politici che ciò fatalmente comportava. La penisola appare, già dalla preistoria e quindi dagli albori dell’età storica, visitata e insediata da genti provenienti soprattutto da est e da sud, ma anche da nord, attraverso i passi alpini e lungo la cresta appenninica nonché attraverso il suo lunghissimo litorale ricco di approdi: etruschi, greci, indoeuropei denominati generalmente “italici”, illirici, quindi celti e germani, poi ancora greci e illirici, quindi arabo-berberi, prima che le vicende dei secoli VI-XIX comportassero più o meno massicci nuovi arrivi di conquistatori e di egemoni germanici, francesi, catalano-aragonesi, austro-tedeschi. A partire dal Cinquecento, nel sistema degli Stati assolutistici europei e quindi in quel che per quanto ci riguarda è stato definito quello degli “Stati preunitari”, la questione diplomatica (non meno di quelle militare, marittima, economico-commerciale) si era già andata variamente proponendo sulla base di due principali parametri: primo, la più o meno diretta o indiretta dipendenza di quasi tutti gli Stati italici (con l’eccezione dei territori dipendenti dalla Chiesa romana e dalla Repubblica di Venezia) da questa o quella potenza d’Oltralpe – principalmente la Monarchia di Spagna, quella d’Austria e il Regno, quindi Repubblica, quindi ancora Impero di Francia -; secondo, i rapporti con l’Impero ottomano e con quei territori che da esso in un modo o nell’altro dipendevano, dall’Asia Minore al Vicino Oriente fino al Maghreb.
Non è d’altronde certo il caso di lasciarsi condizionare da esclusive considerazioni geostoriche e geopolitiche, e tantomeno di abbandonarsi a schemi evolutivi deterministici sulla base dell’alternanza/convivenza delle istanze di continuità e di quelle di discontinuità-rottura. Il processo storico che ha caratterizzato le vicende della penisola, caratterizzata da un forte policentrismo e tutt’altro che vocazionisticamente avviata a un “destino” unitario (ma di “italiani”, non genericamente di “italici”, parla già in pieno Trecento Giovanni Boccaccio), ci ha fatti assistere al prevalere per ragioni politiche e militari – ma anche economiche, commerciali e produttive sulla base degli interessi delle sue élites – di una scelta istituzionale maturata nel corso del sesto decennio dell’Ottocento che ha condotto alla fondazione di un Regno centralistico secondo il modello giacobino-bonapartista coerente con il primo grande patron straniero di esso, l’imperatore dei francesi Napoleone III, l’alleanza con il quale fu tuttavia abbandonata dopo la guerra franco-austriaca del 1859 (che gli italiani ordinariamente conoscono con l’impropria espressione di “Seconda Guerra d’Indipendenza”) per essere sostituita con quella britannica che dava garanzie d’appoggio al giovane Regno d’Italia nella prosecuzione del processo unitario, tappa importante del quale appariva la cancellazione dello Stato pontificio che Napoleone – sostenuto nel suo paese dai cattolici – non avrebbe mai potuto consentire. D’altronde, gli inglesi avevano ormai da quasi un secolo, vale a dire dal tardo Settecento, sviluppato una quantità d’interessi e d’investimenti in Sicilia, un’isola tanto prossima alla linea marittima dei loro possessi mediterranei, Gibilterra e Malta. Dopo la Guerra dei Sette Anni Sua Maestà Britannica controllava ormai saldamente il subcontinente indiano, gestito in modo indiretto attraverso la “Compagnia delle Indie” fino al 1858 e quindi in termini diretti all’indomani della grande “rivolta dei sepoys” di quell’anno. Ma la necessità di circumnavigare il continente africano era, per le flotte inglesi, intollerabile a causa dei tempi e dei costi: bisognava accedere direttamente all’Oceano Indiano attraverso l’Atlantico. Ciò era possibile grazie al controllo dello stretto di Gibilterra, ma a patto di tagliare l’istmo di Suez. E il fatto era che, in ciò, i francesi erano arrivati prima.
Il canale di Suez fu difatti inaugurato il 17 novembre del 1869 a Porto Said, alla presenza dell’imperatrice Eugenia consorte di Napoleone III. La gigantesca opera era stata condotta sulla base di un progetto francese e l’appoggio del khedivé Ismail Pascià formalmente governatore dell’Egitto per conto del sultano d’Istanbul.
Intanto Napoleone aveva progressivamente ritirato il suo appoggio dal progetto unitario italiano gestito dai Savoia, che avrebbe fatalmente strangolato il potere temporaneo della Chiesa: e la regina Vittoria – che durante la guerra austro-franco-piemontese del 1859 aveva mantenuto un atteggiamento filoaustriaco, opposto a quello di lord Palmerston – si era resa ben conto che non era più il caso di appoggiare il Regno borbonico delle Due Sicilie, ma ch’era giunto il momento di cambiar cavallo. Ecco quindi che diplomazia e capitali inglesi si andarono sostituendo a quella e a quelli francesi nell’appoggio al Regno di Sardegna-Piemonte che stava diventando regno d’Italia: il “molo naturale” costituito dalla penisola italica, con i suoi porti, i suoi armatori e il suoi industriali, nonché naturalmente le sue banche, sarebbero stati uno splendido sistema d’attracco sulla via imperiale britannica dall’Inghilterra all’India. Il “cugino brutale” dell’Inghilterra, la Prussia, si sarebbe incaricato con la guerra del 1866 di tenere a bada l’Austria impedendole di pretendere a sua volta una parte se non modestissima nelle faccende mediterranee, di eliminare la potenza imperiale napoleonica (il che avvenne a Sédan nel 1870) e di guidare egemonizzandola la politica italiana che, con la sinistra, era divenuta sempre più filoprussiana, quindi filoinglese. Intanto, procedendo sul filo delle acque del Mar Rosso, l’Italia si rendeva conto che i suoi interessi, collegati ormai più all’Inghilterra che alla Francia, potevano guardare verso il Corno d’Africa: la baia di Assab, la Somalia, l’Eritrea, magari perfino la lontana Etiopia.
E qui la nostra storia risorgimentale e protocoloniale incontra l’archeologia, l’arte e – perché no? – un misterioso pizzico di profezia. E siamo naturalmente all’Aida di Giuseppe Verdi, scritta su libretto di Antonio Ghislanzoni ma dietro spunto e suggerimento del grande archeologo ed egittologo Auguste Mariette. L’opera era stata scritta su commissione del khedivé per l’apertura del canale di Suez. Ma la “Prima” di essa, che avrebbe dovuto essere il trionfo di Napoleone III e dell’imperatrice Eugenia, andò invece in scena al teatro khedivale del Cairo il 24 dicembre 1871, quando il canale era saldamente in mano inglese, mentre l’intero Egitto, col consenso del sultano di Istanbul, si apprestava a divenirlo. Da allora, gli italiani cominciarono a sognare la patria della “celeste Aida”. Il resto è storia nota: la sconfitta di Adua del 1896 e la “rivincita” del maggio 1936 con la proclamazione dell’impero italiano che, nella retorica fascista, avrebbe dovuto ricollegarsi direttamente a quello romano mentre, nella realtà coloniale del tempo, s’ispirava piuttosto a quello angloindiano proclamato nel 1876. E l’Inghilterra, il “Grande Nemico” del fascismo italiano dopo il ’35-’36, era in realtà il modello colonialistico-imperialistico al quale l’Italia di Mussolini s’ispirava.
Peraltro, il discorso sulla politica estera fascista – che fu ben lungi dall’esaurirsi nel velleitaristico esperimento colonialista maturato tardivamente – potrebbe condurre molto più lontano di quanto lo spazio qui disponibile con consenta. L’Italia aveva senza dubbio tratto vantaggi – e ancor più abbondanti avrebbe potuto trarne – dal fatto che il canale di Suez era caduto in mano britannica. Le rotte tra Gibilterra e Suez sfioravano fatalmente le coste i porti italiani: le prospettive di sviluppo in termini portuali, cantieristici, navali, ferroviari e industriali erano ampie, per quanto direttamente i più grandi porti italiani (Genova, Livorno, Napoli) non ne venivano direttamente investiti. Una “falsa partenza” fu quella del 1882, allorché gli italiani si accinsero a collaborare con i francesi per l’occupazione della Tunisia ma ne furono da quelli estromessi, il che provocò l’adesione dell’Italia all’alleanza austrotedesca che non risolse comunque i contrasti con l’Austria-Ungheria e che fece del nostro paese obiettivamente la “maglia fragile” della catena tripartita. La stessa guerra italoturca per il possesso di Tripolitania e Cirenaica, che s’insinuavano così tra i possessi nordafricani inglesi (l’Egitto) e francesi (Tunisia) sfruttando la rivalità tra le due potenze pur amiche in Africa nordoccidentale, preluse all’atteggiamento ambiguo durante le guerre balcaniche di un’Italia che anche in quel settore avanzava rivendicazioni e aspirazioni nonostante la sua condizione di alleata della Germania dovesse consigliarla a non assumere posizioni che avrebbero potuto nuocere all’alleanza con il sultano ottomano. Al di là dei “giri di walzer” denunziati e satireggiati dalla diplomazia austrungarica, l’Italia era stata alleata preziosa della Germania bismarckiana, ma la politica estera “delle mani libere” imposta dal nuovo Kaiser Guglielmo II l’aveva progressivamente avvicinata all’Intesa francobritannica. Esito di tutto ciò fu il pur tardivo e tutt’altro che universalmente approvato ingresso del paese in guerra a fianco delle potenze liberali e della Russia, la delusione per i trattati di Versailles che consentivano in parte l’adempimento delle speranze italiane riguardo allo scacchiere giuliano-istriano-dalmata ma frustravano le sue aspirazioni egemoniche sul Mare nostrum e le prospettive d’espansione coloniale verso le isole greche, l’Asia Minore e il Vicino Oriente.
La politica estera, marinara e coloniale dell’ex-anticolonialista Mussolini non fu, al riguardo, semplicemente revisionistica nei confronti dei trattati di Versailles (come si vide nel ’24 con il trattato di Roma che vide Fiume finalmente assegnata all’Italia): il Duce comprese che non era il caso di contrastare la fortunata rivoluzione nazionale e occidentalizzatrice turca di Mustafa Kemal e si accontentò nell’Egeo di Rodi e del Dodecaneso; in cambio sviluppò una decisa politica egemonica sul piano tanto diplomatico quanto economico nei confronti del mondo balcanodanubiano, appoggiandosi a una decisa amicizia nei confronti dell’Austria e dell’Ungheria e diretta all’assorbimento dell’Albania, nel ’39, nel “sistema imperiale” italiano; frattanto mostrava di prendere molto sul serio i titoli di pretesa sovranità della dinastia sabauda sul Regno “di Cipro e di Gerusalemme” che avrebbe potuto venir restaurato e, in questo contesto, conduceva una politica amichevole in senso antibritannico nei confronti del mondo arabo – a sua volta profondamente deluso in seguito al trattamento ricevuto durante la Prima Guerra Mondiale con i patti segreti Sykes-Picot –, del movimento sionista e dell’Iran occidentalizzante di Reza Shah. Le prospettive colonialiste e revisioniste del Duce andavano peraltro ben oltre: miravano a un accordo settoriale con l’Unione Sovietica, a una penetrazione nell’Asia centrale e orientale (in ciò egli si giovò con intelligenza dell’appoggio di un gruppo di antropologi-esploratori che gli servirono anche da tramite diplomatico e tra i quali spicca la figura di Giuseppe Tucci), a una presenza nella stessa Cina che si espresse nell’invio a Shanghai come ambasciatore del suo stesso genero Galeazzo Ciano. Il rapporto di progressivo avvicinamento alla Germania di Hitler, la pericolosità della quale Mussolini aveva lucidamente compreso già dall’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss nel ’34 e inutilmente denunziato nella conferenza di Stresa dell’aprile dell’anno dopo ai diplomatici francesi e britannici, fuorviati invece dal pregiudizio che faceva di Hitler il salvatore della Germania dal pericolo comunista, si trasformò com’è noto in un’alleanza strettissima che fu, per il Duce, un abbraccio letale. All’atto comunque dell’entrata dell’Italia, ancora una volta in ritardo come nel ’15, in quella che il Duce riteneva una guerra già virtualmente finita con la disfatta della Francia mentre divenne invece la Seconda Guerra Mondiale, le sue prospettive coloniali e imperiali erano più che ambiziose: all’indomani dell’immancabile vittoria all’Italia sarebbe spettato il possesso o comunque l’egemonia di un’area vicino-orientale ed afroasiatica amplissima, costituita da un sistema di paesi sottoposti al diretto governo italiano o costituiti in regimi satellitari oppure in protettorati, mentre il controllo sull’Egitto e il Sudan nonché l’ampliamento dei possessi ad est di Tripoli verso quella Tunisi che gli italiani agognavano fino dal 1882 avrebbe fatto di tutta l’area nordoccidentale del continente dalla Tunisia all’Etiopia un immenso Impero. Quanto al Mediterraneo, il celebre discorso del 10 giugno del ’40 dal fatale balcone di Palazzo Venezia era chiaro ed esplicito: si trattava di spezzare la catena che, tesa tra Gibilterra, Malta e Suez, vincolava l’Italia, rendendoci – come dicevano i versi di una nota canzone di guerra del tempo – “prigionieri del nostro domani”.
Dopo il ’45, l’amministrazione fiduciaria accordata all’Italia per la Somalia rappresentava comunque il riconoscimento da parte della comunità internazionale che il nostro paese non aveva perduto del tutto credito. I governi della Prima Repubblica si sforzarono, nel contesto degli esiti della guerra disastrosamente perduta, di mantenere un minimo di dignitosa autonomia diplomatica (per quanto di effettiva sovranità, in questo come in altri campi, non si possa certo parlare). Al di là della condizione di vinti che ci legava le mani, tre fattori rendevano complessa l’azione diplomatica italiana nello specifico vicino- e mediorientale: la Guerra Fredda, che obbligava ad accettare senza possibilità di negoziati l’obiettiva eliminazione di sovranità diplomatico-militare accettata con l’adesione alla NATO egemonizzata da una potenza che controllava il Mediterraneo senza che un centimetro di costa di quel mare le appartenesse, gli Stati Uniti d’America; l’insorgere del problema israeliano-palestinese, complicato dalla circostanza eticamente e politicamente sui generis della memoria della Shoah; il peso crescente della questione dell’estrazione e della commercializzazione del petrolio. Pure, l’Italia della Prima Repubblica seppe far fronte con sostanziale originalità e con tutta la libertà che le veniva in qualche modo consentita alla situazione, anche giovandosi della “diplomazia parallela” di uomini coraggiosi e geniali: come l’impreditore Enrico Mattei, che pagò forse con la morte in un “incidente”, nel 1962, le sue scelte audaci in materia di rapporti con i produttori di petrolio, tra cui alcuni paesi arabi e la stessa URSS; o come Giorgio La Pira, i “Colloqui Mediterranei” promossi dal quale a Firenze prospettarono soluzioni spesso esemplari alle questioni del Vicino, Medio ed Estremo Oriente e svolsero un’azione culturale e religiosa straordinaria. Tali Colloqui sarebbero un’iniziativa da rilanciare oggi: e in termini particolarmente opportuni nell’Italia di oggi, con un giovane presidente del consiglio che si vanta di definirsi allievo e figlio spirituale di La Pira. Alla linea di Mattei e di La Pira s’ispirò profondamente uno die più autorevoli uomini politici italiani che l’Italia del dopoguerra abbia conosciuto, Amintore Fanfani; e, più tardi, linee analoghe vennero riprese in modo diverso e con differente efficacia non solo da Giulio Andreotti e da Bettino Craxi, ma sotto qualche riguardo perfino – sia pure in modo velleitario, incoerente, capriccioso e dilettantesco – dallo stesso Silvio Berlusconi, a proposito del quale si è costretti ad affermare che, piaccia o meno, aveva intuito molti aspetti corretti nei problemi dei nostri possibili rapporti con la Russia di Putin, con la Repubblica islamica dell’Iran, con la Libia del pur avventuristico e contraddittorio Gheddafi: tre realtà politiche, e tre nodi problematici, rispetto ai quali i governi occidentali hanno agito in modo nel complesso talmente inadeguato da determinare almeno in parte una serie di salutari perse di posizione palinodiche da parte del presidente statunitense Obama.
Il secondo mandato di Obama volge però al termine in un contesto vicino-orientale ed afroasiatico molto complesso e pericoloso, dominato almeno in apparenza dalla questione dello “Stato Islamico” del califfo al-Baghdadi e delle posizioni diplomatiche e militari assunte nei suoi confronti, che non sono state finora né chiare, né portatrici di effetti positivi; mentre fra le altre urgenti questioni dominano su tutte la fitna sunnita a antisciita scatenata e sostenuta da alcuni governi della penisola arabica, l’ancora irrisolta questione israelo-palestinese sulla quale si stende una preoccupante coniuratio ad tacendum, l’altra irrisolta questione dell’indipendenza e dell’unità dei curdi che sarebbe sacrosanta ma che dà fastidio a troppi, l’ambiguità della posizione della Turchia di Erdoğan e anche di quella dell’Egitto di al-Sisi, il disastroso velleitarismo protagonistico della Francia in larga parte responsabile dal 2011 in poi della crisi libica e poi di quella siriana, il caos vicino-orientale che con ogni probabilità vedrà una nuova fase – a sua volta né soddisfacente, né definitiva – in una ridefinizione degli assetti e dei confini di Siria e Iraq che cancellerà le inique scelte imposte da Francia e Gran Bretagna all’indomani del conflitto ’15-’18 ma che potrebbe imboccare strade perfino ancor peggiori di quelle. E Dio ci assista nella nuova faccenda della scoperta dei bacini petroliferi sottomarini tra Cipro, costa turco-libanese-siriano-israeliana ed Egitto: potrebbe nascerne un nuovo imbroglio del quale è difficile intravedere i possibili esiti.
Lampi d’azzurro nel tempestoso cielo orientale-mediterraneo? Qualcuno se ne vede. L’intervento riequilibratore, ad esempio – se ne dica quel che si vuole –, della Russia di Putin alla quale non si può negare uno sbocco mediterraneo anche dal momento che, affacciandosi su quel golfo mediterraneo che è il Mar Nero, paese mediterraneo essa è già in effetti. Il disgelo dell’Iran che esce dal lungo embargo e che già, con una poderosa commessa di aerobus ordinati in Francia, ha fatto sì che Parigi si sia immediatamente ammorbidita nei confronti dell’Iran al punto che la stampa francese non ha dedicato nemmeno una riga alle più recenti smanie antiraniane di Netanyahu. La normalizzazione della situazione libica, Turchia ed Egitto permettendolo (ma lo permetteranno?), la quale comporta per prossimità/analogia anche il rilancio della sospesa questione siriana a proposito della quale andrebbero sentiti anche i siriani stessi prima di stabilire, da Washington o da Parigi – nobilissime capitali, che non risultano però sorgere in territorio siriano –, che “Assad deve andarsene”: il che sarà pure un problema del popolo siriano prima che di chiunque altro. E Dio benedica il presidente Renzi, che pure non pone la politica estera al culmine dei suoi pensieri, per essersene uscito qualche settimane fa con quella battuta in apparenza estemporanea, che l’Italia non ha nessuna voglia e nessun bisogno, a proposito della Siria, di cacciarsi nell’avventura di una “Siria bis”. Proprio così, bravo Matteo: va avanti su questa strada, lascia perdere Blair e ripensa a Mattei e a La Pira.
Franco Cardini

Domus Europa ringrazia il blog www.francocardini.it

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