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21-22 OTTOBRE 1866: IL PLEBISCITO DI ANNESSIONE DEL VENETO ALL'ITALIA. LA GRANDE TRUFFA. di Ettore Beggiato

Il plebiscito che sancì l’annessione del Veneto al Regno sabaudo viene liquidato dai libri di storia in poche battute visto che la storiografia ufficiale sostiene che “tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia” (1).
Pochi sanno che in realtà fu una colossale truffa, la prima di una serie infinita di truffe perpetrate dall’Italia ai danni dei Veneti.
Il nostro Veneto in realtà era già stato “passato” dalla Francia all’Italia in una stanza dell’Hotel Europa lungo il Canal Grande, il 19 ottobre. (2): i Veneti andarono a votare quando i giochi erano già stati fatti.
Il generale francese Leboeuf consegnò il Veneto a tre notabili scelti dal governo italiano: il conte Luigi Michiel, veneziano, Edoardo De Betta, veronese, Achille Emi-Kelder, mantovano e il giorno dopo sulla “Gazzetta di Venezia” apparve un anonimo trafiletto:
“Questa mattina in una camera dell’albergo d’Europa si è fatta la cessione del Veneto” (3)
E questa verità storica viene addirittura confermata sulla “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” stampata a Firenze venerdì 19 ottobre 1866, n. 288 dove sta scritto:
Al Presidente del Consiglio dei Ministri è pervenuto oggi alle ore 10 ¾ antimeridiane il seguente dispaccio da Venezia:
“La bandiera Reale italiana sventola delle antenne di piazza San Marco, salutata dalle frenetiche grida della esultante popolazione. Generale Di Revel”
Il Presidente del Consiglio dei Ministri rispose immediatamente con questo dispaccio:
“Alla rappresentanza municipale di Venezia:
Il Governo del Re saluta Venezia esultante mentre la bandiera nazionale italiana sventola dalle antenne di Piazza San Marco simbolo di Venezia restituita all’Italia, dell’Italia restituita finalmente a se stessa. Ricasoli”
E’ la prova provata che il plebiscito fu una truffa…I Veneti andarono a votare il 21 e 22 ottobre 1866 quando tutto era già stato deciso, il 19 ottobre il Veneto era già passato sotto il Regno d’Italia, e non è Ettore Beggiato a dirlo ma è la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia.
Riepilogando: un trattato internazionale (fra Austria e Prussia, 23 agosto a Praga) prevede il passaggio del Veneto alla Francia che poi lo consegnerà ai Savoja; nel trattato di pace di Vienna fra l’Italia e l’Austria del 3 ottobre si parla testualmente di “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate”:un riconoscimento internazionale al diritto all’autodeterminazione del popolo veneto che in quel momento ha la sovranità sul suo territorio.
Teniamo anche presente che c’è stata l’ipotesi, come scrisse l’ambasciatore asburgico a Parigi Metternich al suo ministro degli esteri Mensdorff-Pouilly il 3.8.1866, di arrivare a “l’indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com’era la vecchia Repubblica”
Il plebiscito avrebbe dovuto svolgersi sotto il controllo di una commissione di tre membri che “determinerà, in accordo con le autorità municipali, il modo e l’epoca del plebiscito, che avrà luogo liberamente, col suffragio universale e nel più breve tempo possibile”. Così era stato concertato dall’ambasciatore d’Italia a Parigi Costantino Nigra con il governo francese (4), che doveva svolgere il ruolo di garante internazionale sancito anche dal trattato di pace fra Prussia e Austria..
Invece i francesi rinunciano ben presto alla loro dimensione, anche per le pressioni del presidente del consiglio Bettino Ricasoli, e così uno sconsolato generale Le Boeuf scrive a La Valette il 15 settembre:
“Nutre inquietudini per l’ordine pubblico: le municipalità fanno entrare le truppe italiane o si intendono col re, che governa una gran parte: egli deve lasciar fare. Il plebiscito non si potrà fare che col re e col governo”(5)
Altro che controlli, altro che garanzie internazionali!
Lo stesso generale Le Boeuf annunciava il 18 ottobre a Napoleone III che ha protestato contro il plebiscito decretato dal re d’Italia: Napoleone gli dice di lasciar perdere. (6)
La Francia praticamente rinuncia al proprio ruolo di garante internazionale e consegna il Veneto ai Savoja.
Una quasi unanimità che venne poi rispettata al momento del voto: la lapide del Palazzo Ducale a Venezia parla di “Pel SI voti 641.758”, “Pel NO voti 69”, “Nulli 273”, numeri che impongono almeno due considerazioni: i voti favorevoli sono attorno al 99,99 %: una percentuale che non fu ottenuta neppure dai regimi più feroci, da Stalin a Hitler.
La seconda, gli abitanti che votarono effettivamente furono comunque meno di 650.000 su una popolazione di circa 2.500.000 abitanti, circa il 26 per cento: avevano diritto al voto solo i maschi con più di 21 anni.
Di sicuro il plebiscito venne “preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l’influenza che il clero manteneva nelle zone rurali dove, aveva scritto in settembre il “Giornale di Vicenza”, -i campagnoli furono lasciati nell’ignoranza o nell’apatia d’ogni civile concetto, educati all’indifferenza per ogni sorta di governo” (7)
Si scriveva ad esempio “ricordino essi (i Parroci e i Cooperatori dei ns. villaggi) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l’onore delle Venezie e dell’Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l’offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione. (8).
Questa politica intimidatoria tuttavia non ebbe grossi effetti sulla partecipazione popolare: “A Valdagno, ad esempio nonostante il plebiscito venisse decantato non come semplice formalità e cerimonia, ma una festa, una gara, solo circa il 30% sulla complessiva popolazione del Comune si recò a votare, mentre un buon 70%, per chissà quale motivo, preferì continuare ad occuparsi dei fatti propri, indifferente all’avvenimento.
Analogamente in tutti i distretti…..” (9)
E’ la conferma del fatto che il cosiddetto risorgimento fu nel Veneto un momento al quale la stragrande maggioranza del nostro popolo partecipò con grande indifferenza, passiva .
E questo ce lo conferma Mack Smith che scrive “Garibaldi si infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo”.
Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di “Malo 1866” di Silvio Eupani:
“Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col si e col no di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna”.
Degno di nota anche quanto scrive Elios Andreini, già parlamentare del PDS, studioso di una provincia di frontiera, il Polesine:
“A quel punto entrarono in campo i Commissari Regi nel tentativo di garantire, a fronte delle cocenti disfatte in battaglia, almeno uno strepitoso successo con le urne.
L’Idea di un popolo di fedeli e tranquilli servitori di Casa d’Austria andava capovolta. In elezioni regolari sarebbe stato arduo, quasi impossibile, e perciò si scelse un plebiscito-festa” (10).
E Federico Bozzini così descrive nel suo “L’arciprete e il cavaliere” quanto avvenne a Cerea:
“Come già si disse -continua il commissario- vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l’altra sopra l’altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare due misure di capacità pei grani, cioè una quarta od un quartarolo. Sopra una sarà scritto ben chiaro il SI, sopra l’altra il NO”. E più avanti:
“I protocolli sono due, -uno pei votanti che presentano il viglietto del SI, l’altro dei votanti che presentano il viglietto del NO, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all’ultimo numero progressivo del protocollo.
Nel protocollo pei viglietti del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. La piena pubblicità del voto rende inutile lo spoglio finale.” E alla fine:
“La commissione quindi conclude il presente Protocollo gridando: Viva l’Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja”.
Di particolare interesse, sempre sul volume del Bozzini, la citazione della Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866: “Si, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia”.
Una sottolineatura di straordinaria importanza: già allora qualcuno aveva capito che una cosa erano i veneti e un’altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente coincidevano con gli interessi degli altri.
Cosa che del resto aveva ben capito Napoleone Bonaparte quando consigliava al figliastro di non ascoltare chi gli suggeriva di dare a Venezia un po’ più di autonomia, invitandolo, invece, a mandare “degli italiani a Venezia e dei Veneziani in Italia” (11).
L’ubriacatura nazional-tricolore ha però breve vita.
Ecco quanto scrive “Civiltà Cattolica nel volume XI, anno 1867:
“Non erano trascorsi sei mesi, dacchè le province venete erano state annesse al beatissimo regno d’Italia, e già i diarii, eziandio ministeriali, erano costretti a registrare le prove lampanti di due fatti che mettono in bellissima luce qual guadagno abbiano fatto que’ popoli a cangiar di padrone. I fatti capitali erano questi: 1°. L’enorme dispendio che costava colà l’apparato di sicurezza quasi triplo di gendarmi e guardie, con la spesa quadrupla di numero di renitenti al servizio della guardia nazionale, da cui, massime nelle campagne, si rifuggiva con assai minor (recte: maggior) orrore che altra volta dall’essere incorporato nei reggimenti italiani dell’Austria. Affinchè si abbia un saggio del primo fatto, basta indicare che la sola Polizia di Verona, la quale costava al Governo austriaco non più di lire 22.945, ora, quando quel popolo non dovrebbe più aver bisogno di Polizia trovandosi felicemente sotto un Governo nazionale, ora costa non di meno di lire 84.400. Quasi il quadruplo!”.
Il “beatissimo regno d’Italia”, appunto…
Dalla “Civiltà Cattolica” alla voce dei massoni di Verona, “L’Arena”, il dato non cambia, e qualcosa vorrà pur dire, anche per gli “ultras” risorgimentali…
“Fra le mille ragioni per cui noi aborrivamo l’austriaco regime, ci infastidiva sommamente la complicazione e il profluvio delle leggi e dei regolamenti, l’eccessivo numero di impiegati, e specialmente di guardie e di gendarmi, di poliziotti, di spie. Chi di noi avrebbe mai atteso che il governo italiano avesse tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale d pubblica sicurezza, carabinieri, ecc. “. E’ l’Arena del 9 gennaio 1868, appena quindici mesi dopo l’arrivo dei liberatori italiani….
Ma ritorniamo a Federico Bozzini, che non è un pericoloso indipendentista veneto, ma un illuminato sindacalista della CISL scomparso qualche anno fa:
“Il Regno d’Italia, che nel 1866 acquista il Veneto, si trova in una situazione finanziaria catastrofica. Tutte le annessioni risorgimentali aveano aggiunto al debito del conquistatore il debito del conquistato. Avevano così finito per “unire in un Tesoro comune, non le loro ricchezze, ma le loro penurie”. I governi provvisori avevano accumulato debiti ingenti con una politica finanziaria e di spesa pubblica spensierata. Avevano levato imposte, concessi favori, creata una moltitudine di impieghi per premiare i simpatizzanti politici. “Cosicchè alle amministrazioni si faceva coda, come ai teatri ne’ giorni di una prima rappresentazione ansiosamente aspettata. In questa maniera di spendere furono assai più famose, che non si sa comunemente, le due Amministrazioni garibaldine di Napoli e Sicilia”. La moltitudine dei nuovi impieghi gonfia l’amministrazione immettendovi i benemeriti della rivoluzione, che divengono una folla. Così nel 1867 il debito pubblico raggiunge la cifra spaventosa di 6 miliardi e 404 milioni. Si devono pagare annualmente 320 milioni solo interessi. I suggerimenti che lo Stato italiano dichiari bancarotta “sono diventati ormai familiari e comuni. Siamo, agli occhi nostri e agli altrui, scesi a quel grado di riputazione, a cui è una signora avanti a cui i conoscenti si permettano oramai di ripetere, senza velo, ogni più sconcia cosa”.
Nel 1866 l’Italia era entrata “nella guerra, in così miseranda e dissestata condizione di finanza e di tesoro, come nessun popolo, forse, che non sia in rivoluzione, s’è trovato mai”. La guerra, che è costata la bellezza di 357 milioni, si risolve in una clamorosa ed umiliante sconfitta. Tutti indistintamente gli Stati che nell’avventura “risorgimentale” erano stati conquistati avevano accollato al nuovo padrone i loro vecchi debiti.”
C’è un unico territorio che, quando viene annesso, ha il suo bravo bilancio in attivo: il Veneto. “Iddio che ama, com’ella sa, gli spensierati, ci dava la Venezia; il cui bilancio, presentando un’entrata di circa 79 milioni di lire ed un’uscita di circa 54 per la sua interna amministrazione ed il proprio debito, ci dava un avanzo di 25 milioni, che scemavano d’altrettanto il peso della spesa comune a tutta Italia” così l’autorevole Ruggiero Bonghi. (12)
Questo risultato finanziario era dovuto all’ottima legislazione tributaria, all’amministrazione impeccabile, alla correttezza al di sopra di ogni sospetto dei funzionari pubblici del Veneto. Tutto questo patrimonio di saggezza, di tradizione, di esperienza e di civiltà viene radicalmente distrutto dall’estensione pura e semplice dell’amministrazione e della legislazione italiane. I dissesti che questa unificazione amministrativa e legislativa creano sono talmente evidenti che un amplissimo schieramento di forze venete, anche liberali progressiste e politicamente filoitaliane, insorge. Sarebbe un capitolo di storia tutto da studiare. Qui dobbiamo accontentarci dei rapidi accenni utili al nostro modesto racconto.
Uomini politici, pubblicisti, giuristi, commercianti, agrari, industriali sollevano la loro voce indignata contro la cieca distruzione di questo preziosissimo patrimonio civile. Non c’è istituzione, organismo, amministrazione che non venga toccata e sconvolta dall’arrivo delle normative e delle fameliche orde italiane.
“Le rivoluzioni, dice bene il Croce, non sono generose, ed hanno non solo molte passioni, ma anche molti appetiti da soddisfare”. E la greppia veneta fa gola a troppi. Ad esempio – ma è solo un esempio – una radicale epurazione politica colpisce gli alti gradi dell’università padovana. Professori autorevoli e prestigiosi vengono allontanati dalla loro cattedra e sostituiti da mezze tacche che ostentano un improbabile passato cospirativo, e delle solide aderenze con le nuove autorità italiane. La politica è una scusa: “basta occupare, per correre il rischio di essere “dimessi”, un posto, che fosse agognato da qualcuno degli aderenti al Comitato segreto (…), quasi tutti massoni”. Tutti gli alti gradi dell’esercito e della burocrazia italiana sono occupati da piemontesi.
“Questo favoritismo – protesta fierissimo un deputato veronese – pesò e pesa anche il Veneto, poiché dal dì della liberazione si ritolò entro una nuvola d’impiegati italiani tra cui molti piemontesi, i quali col para grandine di esservi posti a guide per ben conoscere i nuovi sistemi, a poco a poco vi si vanno insediando stabilmente nelle cariche più cospicue, ed ai poveri veneti vi si lasciano gli antichi crostoli a rosicchiare. Crede il governo che i veneti non abbiano gente capace di porsi a capo di qualunque amministrazione, lasciando loro il tempo di studiarne per pochi mesi così praticamente che teoricamente la nuova organizzazione?
(…) Si crede il Veneto una vallata Savoiarda di cretini? che la si ritenga la Beozia d’Italia? (13)
I Savoja nel Veneto si propongono come i continuatori dell’infame rapinatore chiamato Napoleone….Pensiamoci bene, una pesantissima coscrizione militare obbligatoria (attraverso la quale si sottraggono alla nostra agricoltura migliaia e migliaia di possenti braccia), la riproposizione dell’odiosa tassa sul macinato, una vera e propria tassa sulla fame, proprio come quella imposta da Napoleone ai primi dell’ottocento, e poi tasse sul sale, sul caffè, sullo zucchero, sul petrolio, tasse giudiziarie e via discorrendo….
E così anche un popolo con un forte senso dello stato, civile e rispettoso come il nostro popolo veneto, si ribella e scende in piazza. E’ particolarmente interessante l’interpellanza presentata il 21 gennaio 1869 dall’on. Giuseppe Ferrari, illuminato federalista, che chiede lumi rispetto alle manifestazioni che hanno toccato la nostra regione: “Il Veneto, il pacifico Veneto (ilarità della Camera) non è esente dalle agitazioni. …Chiedo se sia tranquilla la campagna di Rovigo o quella di Oderzo o quella di Vicenza; e saranno ventitre località nominate nei giornali sulle quali si desiderano spiegazioni esatte”.
Quali fossero i sentimenti nei confronti degli italiani nelle campagne venete lo racconta in maniera splendida Domenico Pittarini.
Poeta e commediografo, nato a Sandrigo (Vi) nel 1829, laureato in farmacia a Padova, membro del “Comitato liberale vicentino” e per questo arrestato dalle autorità austriache, si accorge presto di aver semplicemente cambiato padrone e di aver cambiato in peggio.
Nella “Politica dei villani”, popolarissima commedia che per anni è stata tramandata oralmente dalla nostra gente, ecco come, attraverso le parole della contadina “Andola”, tratteggia i “liberatori” italiani:
“Ghe cago ai talgiani”, “ste sènache poche” (sènache, persone magre e patite), “i ne monde, i ne tosa, i n’inciòa, gnancora saemo un fiol de na scroa” (ci mungono, ci tosano, ci inchiodano come un figlio di una scrofa), “marsoni” (massoni), “dente salvadega che magna i cris-ciani, pì pedo dei Truchi e dei Luterani” (gente selvaggia che mangia i cristiani, peggio dei turchi e dei luterani).(14)
Per non parlare di quanto scrive il contemporaneo Matio Zocaro, pseudonimo di Pietro Zenari, parroco di Caldiero (Vr) che in un’altra commedia fa dire al contadino Zelipo
“Coss’ela sta Italia, sta patria, compare
coss’ele ste cose che ghemo da amare?”

1) A. Saitta – Storia illustrata 06/1966 Mondadori
2) G. Distefano – G. Paladini – Storia di Venezia 1797-1997 – Venezia 1996 pag. 274
3) Thaon di Revel Genova – La cessione del Veneto – Firenze 1906
4) M.A.E., Corr. pol., Consults Autrische, vol 27, pagg. 225-229
5) Les Origines, Xii, 297 ss, n. 2596-2597
6) M.A.E. Corr. pol., Consults Autrische, vol 27, pag. 284
7) E. Franzina – Vicenza storia di una città- Vicenza p. 700
8) A. Navarotto – Ottocento vicentino Padova 1937
9) A. Kozlovic – Immagini del risorgimento vicentino – Schio 1982
10) E. Andreini – I mitici albori del Polesine Sabaudo – Rovigo pag. 92.
11) A. Zorzi – Venezia Austriaca pag.32 – Bari 1985
12) R. Borghi – “Storia della finanza italiana dal 1864 al 1868. Lettere di Ruggiero
Borghi al comm. Giuseppe Saracco senatore del regno” – Firenze 1868 pag. 12
13) F. Bozzini – “L’arciprete e il cavaliere” – Roma 1985
14) S. Lanaro (a cura di) – “Il Veneto” – Torino 1984

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