Con sentenza n. 76/2016 la Corte costituzionale ha dichiarato “l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale per i minorenni di Bologna con ordinanza del 10 novembre 2014”.
Tale decisione merita qualche approfondimento in punto di diritto sia per l’attenzione dedicatale dalla stampa quotidiana in conseguenza dell’attualità mediatica della materia interessata (adozione – attraverso il riconoscimento di una sentenza straniera – del figlio del partner in una coppia omosessuale), sia per una certa tirata d’orecchi inflitta dalla Corte tanto all’autorità giudiziaria remittente quanto all’Avvocatura generale dello Stato.
Nell’analisi che segue non s’intende esaminare se sia o meno fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale bolognese, d’altronde dalla Corte costituzionale non esaminata per effetto della pronuncia d’inammissibilità, ma, appunto, la fondatezza o non di tale pronuncia alla luce degli argomenti proposti dal Tribunale e dalla Corte a sostegno delle rispettive tesi.
Il procedimento di cui trattasi ha avuto inizio con il giudizio promosso dalla signora A avanti al Tribunale per i minorenni di Bologna al fine di ottenere il riconoscimento della sentenza con la quale un Tribunale statunitense aveva accolto la sua domanda di adozione della minore C con responsabilità genitoriale congiunta a quella della madre biologica B. Detta minore, cittadina americana come la madre biologica e quella adottiva, è nata a seguito di inseminazione artificiale quando le due donne, successivamente sposatesi in base alla legge statunitense, già convivevano da qualche anno, nell’ambito, dunque, di uno specifico progetto di genitorialità delle due madri (biologica e adottiva).
La ricorrente, oltre che di quella statunitense, gode (oggi e al momento della presentazione del ricorso in Italia, ma non alla data della pronuncia statunitense) anche della cittadinanza italiana per discendenza. come confermato dal Consolato Generale d’Italia a San Francisco. Attualmente tutte le protagoniste della vicenda vivono a Bologna.
Nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale il giudice remittente ha precisato che la domanda presentata da A non è finalizzata ad ottenere l’adozione di C, ma, anche in nome della figlia adottata, il riconoscimento, in Italia, del provvedimento statunitense di adozione della minore, per cui esso giudice ha ritenuto di dover fare applicazione dell’art. 41 legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e, per rinvio, degli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge.
Il Tribunale riconosce anzitutto la sussistenza di “tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale” richieste dalla legge per il riconoscimento del provvedimento straniero, in quanto lo stesso si è perfezionato negli Stati Uniti d’America secondo legalità e sulla base della competenza dell’autorità adita (un’asserzione che svolge un ruolo essenziale, come subito si vedrà, nella decisione della Corte costituzionale). Tuttavia – prosegue la motivazione della sentenza a quo- nel caso di specie osta al riconoscimento del provvedimento estero di adozione la sua contrarietà all’ordine pubblico, in quanto, sulla scorta di una lettura – «da ritenersi prevalente e maggioritaria, di fatto corrispondente a “diritto vivente”» degli artt. 41 della legge n. 218 del 1995 e 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983 (riguardante l’adozione, in casi particolari, del figlio del coniuge) – deve escludersi che un minore possa essere adottato da persona che sia coniuge del genitore nell’ambito di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, costituendo la necessaria diversità dei sessi un presupposto implicito e inderogabile della disciplina adottiva, “così cogente da dovere essere collocato nell’ambito di quelli che si connotano per partecipazione all’area semantica dell’Ordine pubblico interno”.
Un orientamento dal quale il Tribunale ha ritenuto di non potersi allo stato discostare, per cui, dovendo conseguentemente fare applicazione degli artt. 36/4° comma e 35/3° comma della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), avrebbe dovuto pervenire alla reiezione della domanda azionata. Un risultato, questo, ritenuto inaccettabile dai giudici bolognesi in una fattispecie come quella in oggetto, caratterizzata dalla presenza di genitori con ventennale convivenza, poi confluita in un matrimonio regolarmente celebrato all’estero, che, anche se contratto tra persone del medesimo sesso non dovrebbe più essere considerato contrario all’ordine pubblico, in quanto nel nostro ordinamento, pur improduttivo di effetti giuridici, non sarebbe inesistente, come evidenziato dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184. A dimostrazione del proprio assunto il Tribunale ha ricordato che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha qualificato “famiglia” la coppia formata da persone dello stesso sesso (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, e sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria). e che la stessa Corte costituzionale ha incluso la coppia omosessuale tra le formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 170 del 2014).
Di qui, a giudizio del Tribunale remittente (che argomenta la propria tesi con numerosi richiami giurisprudenziali, qui omessi dal momento che l’esame propostosi ha per oggetto la correttezza della pronuncia della Corte costituzionale di inammissibilità della questione proposta e non la fondatezza di quest’ultima) la necessità di proporre questione di legittimità costituzionale di disposizioni decisive ai fini di una decisione, che non riguarda – come viene espressamente precisato – il rapporto di coniugio tra persone dello stesso sesso, ma esclusivamente il rapporto genitoriale e l’interesse preminente del minore al suo riconoscimento.
Nel giudizio avanti alla Corte si è costituita, in rappresentanza del Presidente del Consiglio, l’Avvocatura Generale dello Stato, sostenendo che il Tribunale avrebbe omesso la doverosa ricerca di una soluzione costituzionalmente orientata trascurando l’applicabilità alla fattispecie della disposizione di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, che consente l’adozione “in casi particolari”, avuto specifico riguardo alla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, che si deve ritenere ricorra in presenza di ostacoli, oltre che di fatto, anche (come nel caso specifico) di diritto. Ugualmente ha provveduto a costituirsi l’ associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, esponendo le ragioni a favore del riconoscimento della sentenza statunitense in questione e comunque sollecitando l’accoglimento della questione proposta dal giudice a quo.
Dichiarata inammissibile la costituzione dell’Associazione Avvocatura LGBTI, perché carente d’interesse in causa, e definite “inconferenti” le argomentazioni svolte dall’Avvocatura generale dello Stato, la Corte ha rilevato la carenza della potestas iudicandi in capo al Tribunale remittente, che l’avrebbe malamente affrontata per non avere tenuto conto che i due comma dell’art. 41 legge 31 maggio 1995, n. 218, unitariamente richiamato, prevedono invece due ben distinti procedimenti. Il primo comma disciplina l’ipotesi, “normale” o “ordinaria”, di riconoscimento automatico della sentenza straniera, che si ha quando ricorrono tutte le condizioni di cui agli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge. Il secondo invece, facendo riferimento alla legge n. 184 del 1983 e anzitutto agli artt. 35 e 36, disciplina i casi nei quali il riconoscimento è subordinato ad un vaglio da parte del Tribunale per i minorenni.
Ne deriva, ad avviso della Corte, che, avendo espressamente riconosciuto che la sentenza statunitense rispondeva a “tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale” previste dagli artt. 64, 65 e 66 della legge n. 218 del 1995”, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda (evidentemente per carenza di giurisdizione) dal momento che il provvedimento straniero poteva/doveva essere direttamente presentato all’ufficiale di stato civile per la trascrizione. Di conseguenza, superflue tutte le considerazioni svolte in ordine ai requisiti previsti dalla normativa interna in materia di adozione di minori, con particolare riguardo all’applicazione alla fattispecie delle disposizioni, sospettate di illegittimità costituzionale, di cui agli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983, richiamati dal comma 2 del citato art. 41, comma che, appunto, disciplina un procedimento diverso da quello applicabile nel caso.
E’ quindi sulla riga e mezzo utilizzata dai giudici bolognesi per affermare la ricorrenza di tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale di cui agli artt. 64, 65 e 66 che si fonda il ragionamento di quelli costituzionali quando scrivono: “La contraddittorietà di tale percorso argomentativo risulta evidente, poiché l’applicazione della legislazione speciale in materia di riconoscimento della sentenza di adozione internazionale di minori – che richiede un previo vaglio giudiziale, ad opera del Tribunale per i minorenni – non può che escludere il contemporaneo rinvio alle disposizioni ordinarie sul riconoscimento “automatico” dei provvedimenti stranieri”.
In questo modo non si tiene però conto del valore in realtà limitativo della espressione “di carattere procedurale e processuale” utilizzato dal Tribunale, che, come chiaramente emerge dal contesto, intende evidenziare la mancanza invece di un ulteriore requisito, di per sé idoneo a escludere la possibilità di riconoscimento automatico della sentenza straniera. Difatti se l’art. 41/1° comma dispone che “i provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili in Italia ai sensi degli artt. 64, 65 e 66”, appunto queste disposizioni pongono al riconoscimento il limite dell’ordine pubblico interno.
Difatti: Art. 64 (Riconoscimento di sentenze straniere) : “La sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando (…) g) le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico”. Art. 65 (Riconoscimento di provvedimenti stranieri): “purché non siano contrari all’ordine pubblico”.Art. 66 (Riconoscimento di provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria). “Sempre che siano rispettate le condizioni di cui all’art. 65”.
Ora, ogniqualvolta vi sia un dubbio che il riconoscimento di un provvedimento straniero possa produrre effetti contrari all’ordine pubblico è evidente che la potestà decisionale può spettare solo ad un giudice e si chiude la strada del riconoscimento automatico. Nella fattispecie le prime a essere convinte quanto meno della possibilità che si presentasse il problema erano proprio le due donne interessate, che significativamente si sono rivolte al Tribunale per i Minori. Un’opinione condivisa dall’Avvocatura Generale dello Stato, che si è messa alla ricerca di una norma che consentisse il risultato voluto dalle ricorrenti pur facendo applicazione di “disposizioni delle legge speciali in materia di adozione dei minori”, come previsto dall’art. 41/2° comma.
Del resto i giudici minorili bolognesi, pur asserendo la ricorrenza delle condizioni procedurali e processuali richieste per i riconoscimento automatico, avevano evidenziato che il problema era quello dell’ordine pubblico, risolvibile solo dalla Corte costituzionale, scrivendo ben chiaro che: “la necessaria diversità dei sessi (costituisce) un presupposto implicito e inderogabile della disciplina adottiva, così cogente da dovere essere collocato nell’ambito di quelli che si connotano per partecipazione all’area semantica dell’Ordine pubblico interno”.
Una questione fondamentale, questa del rispetto dell’ordine pubblico interno, che la Corte costituzionale ha evitato di affrontare, ritenendo, in questo caso a ragione, erronea la convinzione del Tribunale di dover fare applicazione, per decidere, della disposizione di cui all’art. 36, comma 4 della legge n. 184 del 1983 e, conseguentemente, di quella di cui all’art. 35/3° comma stessa legge, che sancisce l’obbligo di osservanza dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale in materia di famiglia e minori. L’art. 36, difatti, disciplina il riconoscimento di decisioni di adozione assunte in Stati che siano parti della Convenzione dell’Aja del 29/5/1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale (resa esecutiva con legge 31 dicembre 1998, n. 476) o che abbiano stipulato con l’Italia specifici accordi bilaterali In particolare il comma 4, ritenuto applicabile dai giudici minorili bolognesi, estende il controllo del Tribunale all’ ipotesi di adozione di minori stranieri in stato di abbandono pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che dimostrino di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni. Ma tale ipotesi non ricorreva nella fattispecie, caratterizzata invece dal fatto (trascurato dai giudici bolognesi) che la ricorrente, cittadina italiana al momento del ricorso, era invece solo cittadina americana al momento dell’adozione, per di più riguardante una bambina di cittadinanza americana, per cui mancava il presupposto per l’applicazione di una norma riguardante specificamente, a fini antielusivi del divieto, i soli cittadini italiani.
La Corte costituzionale ha quindi ritenuto, in conformità alla sua costante giurisprudenza (sono ste citate, ex plurimis, le ordinanze n. 264 del 2015 e n. 116 del 2014), che “l’errata individuazione da parte del giudice rimettente, del contesto normativo determina, dunque, un’erronea qualificazione dei fatti sottoposti al suo giudizio, tale da riverberarsi sulla rilevanza delle questioni proposte”.
In altri termini, dal momento che non solo la questione di non manifesta incostituzionalità è stata sollevata da un giudice carente della potestas decidendi in materia (in realtà di questo non si fa menzione in dispositivo), ma che la decisione non dipende dalle norme sospettate di illegittimità costituzionale, la Corte ha ritenuto inammissibili le relative questioni.
Prima di concludere ancora due osservazioni.
La prima ancora di natura giuridica per ribadire che, pur ritenendo esatta la tesi della Corte di non applicabilità alla fattispecie del disposto di cui al citato art. 35/3° comma come conseguenza della non applicabilità del disposto dell’art. 36/4° comma, resta ferma la necessità del controllo, prima di procedere al riconoscimento della sentenza straniera del rispetto dell’ordine pubblico interno richiesto, secondo quanto in precedenza detto, dagli artt. 64, 65 e 66 della legge n. 218/1995.
La seconda, para- o extra-giuridica (lasciata alla riflessione di chi può esservi interessato), riguardo alla singolarità di un procedimento in cui non solo la ricorrente, ma tutte le parti, inclusa quella formalmente resistente, e la stessa Corte costituzionale sembrano preoccupate soprattutto di trovare una strada che consenta il riconoscimento della sentenza, venga o non superato il .limite dell’ordine pubblico. Il Tribunale per i minorenni di Bologna ha sollevato dichiaratamente a questo fine l’eccezione di incostituzionalità. L’Avvocatura generale dello Stato non difende la disposizione sub judice, ma rimprovera al Tribunale di avere omesso la doverosa ricerca di una soluzione costituzionalmente orientata della fattispecie sottoposta al suo giudizio, avendo in particolare trascurato la possibilità di riconoscere la sentenza straniera secondo una disposizione diversa da quelle censurate. L’associazione Avvocatura LGBTI ça va sans dire. A sua volta, la Corte costituzionale, pur senza esprimersi ex professo sul punto, sembra suggerire che si tratti di un caso di riconoscimento automatico, cioè senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento, che, nel caso, sarebbe stato erroneamente instaurato e altrettanto erroneamente non subito concluso con una decisione di inammissibilità.
Francesco Mario Agnoli