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IL PENSIERO MAGICO DI MILTON FRIEDMAN.

CAMBRIDGE – Il prossimo anno segnerà il centesimo anniversario della nascita di Milton Friedman. Friedman è stato uno dei principali economisti del ventesimo secolo, vincitore del premio Nobel e fautore di importanti contributi alla teoria monetaria e alla teoria del consumo. Egli in realtà verrà ricordato principalmente come il visionario che ha dotato della forza di fuoco intellettuale gli entusiasti del libero mercato nella seconda parte del secolo, e come l’eminenza grigia dietro al drammatico cambiamento nelle politiche economiche verificatosi a partire dal 1980.

Milton Friedman (1912-2006)

In un tempo dove lo scetticismo riguardo i mercati era rampante, Friedman spiegò in un linguaggio limpido e accessibile che l’impresa privata è il fondamento della prosperità economica. Tutte le economie di successo sono basate sulla parsimonia, sul duro lavoro, e sull’iniziativa individuale. Egli si scagliò contro la regolamentazione statale che intralcia l’imprenditoria e vincola i mercati. Ciò che fu Adam Smith per il diciottesimo secolo, Friedman lo è stato per il ventesimo.
Quando andava in onda nel 1980 la storica serie televisiva di Friedman “Free to Choose”, l’economia mondiale era alle prese con una singolare trasformazione. Ispirati dalle idee di Friedman, Ronald Reagan, Margaret Thatcher e molti altri capi di governo iniziarono a rimuovere i vincoli e regolamenti accumulatisi nei decenni precedenti.
In Cina venne abbandonata la pianificazione centrale e fu permesso ai mercati di emergere – prima per i prodotti agricoli e, a seguire, per i prodotti industriali. In America Latina vennero drasticamente ridotte le barriere al commercio e fu avviata la privatizzione delle aziende statali. Quando cadde il Muro di Berlino nel 1990, non c’era dubbio riguardo alla direzione che le economie pianificate avrebbero preso: verso il libero mercato.
Ma Friedman ha anche prodotto un lascito meno felice. Con il suo zelo nel promuovere il potere dei mercati, finì per marcare una distinzione troppo netta tra il mercato e lo Stato. A tutti gli effetti, presentò il governo come nemico del mercato. E ci rese dunque ciechi di fronte all’evidente realtà che tutte le economie di successo sono, di fatto, delle economie miste. Sfortunatamente, l’economia mondiale si sta ancora confrontando con quella cecità in seguito ad una crisi finanziaria risultata, in misura non trascurabile, dall’aver lasciato i mercati finanziari troppo liberi di correre.
La prospettiva friedmanita sottovaluta largamente i prerequisiti istituzionali dei mercati. Lasciate ai governi il semplice compito di far rispettare i diritti di proprietà ed i contratti, e – presto! – i mercati faranno la magia. In realtà, i mercati di cui le moderne economie necessitano non si auto-generano, auto-regolano, auto-stabilizzano, o auto-legittimano. I governi devono investire in reti di trasporto e comunicazione; devono controbilanciare asimmetrie di informazione, esternalità, e disparità del potere contrattuale delle parti; moderare il panico finanziario e le recessioni; e rispondere alle richieste della popolazione per quanto riguarda reti di protezione, e assistenza sociale.
I mercati sono l’essenza di un’economia di mercato così come i limoni sono l’essenza della limonata. Il succo di limone puro è quasi imbevibile. Per fare una buona limonata, vanno aggiunti acqua e zucchero. Ovviamente, cosí come se ci si mette troppa acqua si finisce per rovinare la limonata, allo stesso modo un’eccessiva ingerenza da parte dello Stato può danneggiare il funzionamento dei mercati. La soluzione non è quella di eliminare l’acqua e lo zucchero, ma di azzeccare le proporzioni. Hong Kong, che Friedman portó come caso esemplare di società di libero mercato, rimane l’eccezione alla regola dell’economia mista, e perfino lì il governo ha giocato un ruolo importante, ad esempio nel provvedere terreni per le abitazioni.
L’immagine di Friedman che la maggior parte delle persone conserverà sarà il sorridente, minuto, umile professore che regge una matita di fronte alle telecamere di “Free to Choose” per illustrare la forza dei mercati. Ci sono volute migliaia di persone in tutto il mondo per fare questa matita, diceva Friedman – per estrarre la grafite, tagliare il legname, assemblare i componenti, e immettere nel mercato il prodotto finale. Nessuna singola autorità centrale ha coordinato le loro azioni; questa impresa è stata compiuta grazie alla magia del libero mercato e del sistema di prezzi.
Più di trent’anni dopo, possiamo trovare un’interessante epilogo alla storia della matita (che a dire il vero era basata su di un articolo dell’economista Leonard E. Read). Oggi giorno, la maggior parte delle matite nel mondo sono prodotte in Cina – un’economia che è un mix peculiare di impresa privata e direzione statale.
Un Friedman dei nostri giorni si domanderebbe come la Cina sia riuscita a dominare l’industria delle matite, così come molte altre industrie. Ci sono migliori giacimenti di grafite in Messico e Corea del Sud. Vi sono riserve forestali più estese in Brasile ed Indonesia. La Germania e gli Stati Uniti possiedono tecnologie più avanzate. La Cina possiede un sacco di mano d’opera a basso prezzo, ma così anche il Bangladesh, l’Etiopia, e molti altri paesi poveri e popolosi.
Senza dubbio, il credito più grande va all’iniziativa degli instancabili imprenditori e lavoratori cinesi. Ma la storia della matita oggi giorno risulterebbe incompleta se non venissero citate le industrie statali cinesi, che hanno fatto l’investimento iniziale in tecnologia e formazione della mano d’opera; lasse politiche di gestione delle foreste, che hanno artificialmente mantenuto a basso prezzo il legname; generosi sussidi alle esportazioni; e l’intervento statale nel mercato delle valute, che dona ai produttori cinesi un significativo vantaggio in termini di costi. Il governo cinese ha sussidiato, protetto e stimolato le sue aziende per assicurare una rapida industrializzazione, alterando dunque a suo favore la divisione globale del lavoro.
Friedman stesso avrebbe osteggiato queste politiche governative. Eppure, decine di migliaia di lavoratori occupati nelle fabbriche di matite cinesi sarebbero rimasti con ogni probabilità poveri contadini se il governo non avesse dato una piccola spinta alle forze del mercato per far decollare l’industria. Dato il successo economico della Cina, è difficile negare il contributo delle politiche governative di industrializzazione.
Il posto nella storia del pensiero economico degli entusiasti del libero mercato resta al sicuro. Ma i pensatori come Friedman lasciano un’eredità ambigua e sconcertante, perché sono stati gli intervenzionisti ad avere successo nella storia economica, laddove conta davvero la realtà.
da Project Syndacate

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