Nel pensiero condivisibile di Luigi Ghirri “la fotografia è testimonianza di ciò che si è veduto, ma è anche reinventare quello che si è veduto. La fotografia rimane un linguaggio per porre delle domande sul mondo. Il grande ruolo che oggi ha la fotografia, dal punto di vista comunicativo, è quello di rallentare la velocizzazione dei processi di lettura delle immagini”.
La fotografia nasce dalla corrispondenza della realtà esterna con un moto interiore, con il bisogno o la volontà di rappresentare un evento, un affetto, un’idea, una spinta atavica nell’uomo, fin dai primordi della vita umana e dalle incisioni sulla roccia. Generalmente si riconosce che la fotografia sia arte perché ci fa partecipare di un’emozione o di un’idea attraverso un’estetica, e le si riconosce il ruolo di documento perché ci informa su qualcosa. La pretesa di un codice chiaro, di un linguaggio la cui sintassi non sia opinione, che possa essere colto da ognuno distintamente, è una rivendicazione legittima se si pone l’accento sul fatto che la fotografia debba informare su qualcosa: questa informazione diviene memoria, la fotografia ingiallita dei nonni che si tiene nel cassetto, la fotografia di un giornale che racconta del ricordo di un evento, la fotografia di una architettura, ecc.
Composizione, esposizione, bilanciamento, sono tutti criteri tecnici che vengono presentati come necessari ma che al più testimoniano un certo modo di intendere e vedere, una certa consuetudine, non sono definitivi per giudicare un’immagine. Non siamo nell’oggettività di una scienza, siamo immersi in un modo di sentire: la fotografia sarà riuscita quando questo sentire, emozionale o estetico, sarà condiviso, ovvero siamo nel campo della soggettività, che elabora grazie alla sensibilità peculiare di ciascuno.
Fotografia significa etimologicamente scrivere con la luce: l’immagine ritratta è esistita nel momento in cui è stata impressa sulla pellicola – o nei processori digitali – grazie alla luce. Tentando di estenderne ulteriormente la definizione, se da una parte la fotografia è riproduzione della realtà esterna dall’altra può anche essere la ricerca di un’immagine che evochi altro, ciò che non si vede nell’immagine stessa. Apparentemente questa potenzialità evocativa si scontra con il senso immediato dell’immagine: l’immagine non è aperta, anche se fa parte di una sequenza narrativa – cosa a cui alcuni autori vorrebbero relegarla – deve necessariamente essere sufficiente e soddisfacente in se stessa, costituire un mondo. L’astratto entra di diritto in questa possibilità, emarginare un particolare dalla realtà e ritrarlo, ovvero, nell’affermazione di Franco Fontana, cancellare l’insieme per eleggere un particolare come fosse un tutto: si astrae per il bisogno di cercare nuove forme, meno consunte dall’abitudine, e per trovare un simbolo aperto verso la vastità della vita. Una fotografia può infatti essere sintesi di un insieme di significati poggianti su un retroterra culturale e sulla memoria, e far vedere ciò a cui l’immagine richiama, ciò a cui allude, anche senza che venga ritratto.
Normalmente si crede che nella fotografia tutto si concentri nell’attimo dello scatto e che si reagisca d’istinto ad una sollecitazione esterna, portando così ad un’idea intransigente che dovrebbe essere l’alfa e l’omega di ogni tentativo fotografico e che si fonda sul “momento decisivo” bressoniano. Appare piuttosto come una semplice preferenza la pretesa di essere pronti ad un dato momento fatidico, quell’attimo più significativo di un’azione o di un’espressione di un volto che escluderebbe gli altri attimi. La fotografia rimane per definizione la produzione di un’immagine soggettiva – l’inquadratura è sempre una determinata inquadratura, è in sé una soggettiva – dove le opportunità di scelta sono molteplici: ad esempio si può creare una connessione emotiva con un luogo, cosa che richiede tempo, a ricercare i momenti in cui la luminosità naturale è più favorevole, o ancora a conoscere personalmente gli individui da fotografare frequentando gli ambienti della quotidianità che sono loro famigliari e che divengono nello scatto tutt’uno con il ritratto.
Nel postmodernismo si rifiuta l’autorialità, gli scatti non ricercano alcuna estetica, rifiutano l’idea dello stile, la professionalità, il mestiere; il referente non deve essere inquadrato con un criterio di intelligibilità, piuttosto l’evento dello scatto deve essere fortuito e non creare volontariamente alcuna gerarchia visibile nelle informazioni contenute. Questo modo di intendere la fotografia, che ricerca all’estremo una pretesa neutralità, destituisce di importanza l’intenzione e l’estetica. Nell’epoca digitale l’ostacolo di possedere un’abilità tecnica è vinto dalla macchina fotografica stessa, dalla sua evoluzione tecnologica che sopprime molti inconvenienti e rende immediate delle soluzioni. Anche il lavoro di post-produzione, in passato legato alla camera oscura ed alla stampa, quindi al compimento vero e proprio della fotografia, ha acquisito nuove e più facili opzioni, rendendo facilmente fattibili le innumerevoli variazioni di cui è suscettibile un’immagine. Tutta questa accessibilità, ottenuta grazie all’evoluzione tecnologica, è sotto una certa prospettiva un’apertura, l’opportunità per ognuno di dedicarsi ad un’attività creativa, dall’altra è sovraproduzione di immagini fatte per essere consumate, una sovrabbondanza banale, senza che corrisponda ad una vera e profonda necessità interiore.
P.A.