È costato caro il “pesce d’aprile” non voluto che ha visto protagonista Joe Biden, Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America. Proprio in quella data, infatti, quest’ultimo ha incontrato a Washington il Presidente della Repubblica Armena, Serzh Sarkisian, e il corrispettivo azerbaigiano, Ilham Aliyev. In questa occasione Biden ha auspicato una risoluzione pacifica del conflitto nel Nagorno-Karabakh felicitandosi dei progressi che ci sono stati nei due Paesi in termini di sicurezza, democrazia, libertà eccetera eccetera. Nella giornata di sabato, invece, mentre i due presidenti erano ancora negli Stati Uniti a discutere di non proliferazione, le ostilità sono tragicamente riprese in una maniera la cui portata non ha eguali dalla tregua del 1994 che ancora, formalmente, permane.
Come accade negli ultimi anni, le parole spese dai governi delle maggiori potenze mondiali in favore della pace, si traducono in un inasprimento del conflitto citato: quasi una maledizione per quelle popolazioni in questo momento in crisi, dall’Ucraina alla Siria. Così è stato anche questa volta e Baku e Yerevan si accusano l’un l’altro di aver scatenato quest’ultima escalation: Yerevan (tramite Bako Sahakyan, Presidente del Nagorno-Karabakh, Stato non riconosciuto neanche dall’Armenia) accusa il lancio di missili Grad dal confine azerbaigiano verso obbiettivi civili, mentre Baku accusa le truppe armene di aver sparato colpi di artiglieria al di là del confine azerbaigiano e di aver risposto al fuoco con truppe militari regolari. La risposta militare di Baku ha portato a un sostanziale avanzamento delle proprie truppe sul territorio del Nagorno-Karabakh che, supportate da massicci bombardamenti di artiglieria, hanno conquistato posizioni tatticamente vantaggiose ma, secondo diverse fonti, ufficiali e non, queste manovre militari sono costate l’abbattimento di un elicottero, tre carri armati, due droni e l’uccisione di una dozzina di militari da una parte e dall’altra (con diverse accuse di omicidio ai danni di civili).
La crisi era ampiamente prevedibile per tre ragioni fondamentali: 1- Il cambio della strategia militare armena in Artshak (nome armeno per il Nagorno-Karabakh) che, secondo quanto dichiarato lo scorso febbraio dal ministro della Difesa armeno, David Tonoyan, si sarebbe dovuta basare sul concetto di “deterrenza”: questo ha portato, oltre all’implementazione dell’unificazione del sistema di difesa aereo con Mosca, a una spesa complessiva per il riarmo di circa 500 milioni di dollari nell’ultimo anno. Inoltre, la situazione politica, sociale ed economica interna allo Stato armeno non è delle migliori, ed esternamente Yerevan sta soffrendo un forte isolamento politico che ne giro degli ultimi 36 mesi l’ha portata, anche se più volente che nolente, all’adesione all’Unione Euroasiatica con Russia, Bielorussia e Kazakistan e alla Cooperazione di Shanghai (tra l’altro, insieme all’Azerbaigian). 2- Il budget militare dell’Azerbaigian, forte di una economia in crescita (grazie soprattutto all’esportazione di idrocarburi), ha viaggiato su numeri estremamente elevati negli ultimi anni: tra i 4 e i 5 miliardi annui, più di tutto il PIL dell’Armenia. 3- Già dal 2009 il cessate il fuoco ha assunto le sembianze di un conflitto a bassa intensità, con continue violazioni da una parte e dall’altra che hanno visto anche la morte di diverse guardie di confine. Conseguentemente, internamente (ed esternamente) l’opinione pubblica e i giornali azerbaigiani e armeni hanno molto radicalizzato la rivalità tra i due Paesi. Le potenzialità del conflitto sono deleterie soprattutto in virtù di questi tre fattori riassumibili in a) enormi disponibilità militari da una parte e dall’altra e b) radicalizzazione delle opinioni pubbliche e delle posizioni politiche.
La Russia ha subito fatto appello al cessate il fuoco entro 48 ore per evitare che il conflitto si riaccenda in questo momento di profonda crisi mondiale che sta colpendo principalmente le aree di influenza e interesse di Mosca. Difatti, il Cremlino ha da sempre ottimi rapporti con entrambi i Paesi: l’Armenia è controllata de facto economicamente e militarmente (e, quindi, anche politicamente), mentre con l’Azerbaigian, fondamentale partner economico e strategico, ha instaurato una eccellente cooperazione tecnico-militare. Quindi, è chiaro chi, al di fuori delle due parti in conflitto, avrebbe le maggiori ripercussioni negative.
Nonostante la lunga negoziazione russa e cinese per l’ingresso di entrambi i Paesi nella Cooperazione di Shanghai (che si è dimostrato un ottimo foro politico di risoluzione delle controversie tra Stati membri), il conflitto non pare voler trovare una soluzione che trascenda l’uso dello strumento militare. Per il momento, l’unica svolta sostanziale e (forse) non violenta potrebbe essere la caduta di una o di entrambe le élites politiche al potere a Baku o Yerevan, ma esse si sono dimostrate solide nei momenti di crisi interna degli ultimi anni. Oggi, non resta che attendere gli sviluppi di questa crisi annunciata, sperando che non si inasprisca ulteriormente questo scenario da troppi anni trascurato dalle diplomazie internazionali.
Marcello Ciola