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AMORE DI PATRIA E IDENTITA’ NELLA PREDICAZIONE DI JORGE MARIO BERGOGLIO. Di Fernando Massimo Adonia.

Vige un rapporto stretto tra cattolicesimo e il sentimento «dell’amor di patria»: una relazione sinergica, concreta e necessaria che ha attraversato i secoli e che fa parte a pieno titolo della dottrina e del sentire costante della Chiesa universale. Non è un caso, infatti, se i pontefici dell’epoca contemporanea – l’età della mondializzazione dei rapporti politici e della globalizzazione – abbiano distribuito perle di sapienza in tal senso, scolpendo riflessioni cariche di entusiasmo e pathos. Tra questi c’è papa Francesco, che sul tema si è espresso con particolare sentimento e ratio, sebbene il suo messaggio sia stato spesso messo in secondo piano o frainteso dagli analisti.
In fondo, quando si accenna alla patria, e a quanto di virtuoso da essa proviene, si investe certamente una sfera dai tratti profondamente umani e, allo stesso tempo, sacri che meritano di essere esplorati. Cosa possiamo dire, in via preliminare, sulla patria prima di sfogliare l’insegnamento degli ultimi papi della Chiesa di Roma e le coordinate della Tradizione? Certamente che la Patria non è soltanto la terra su cui si nasce e neanche il suolo che si calpesta sin dalla tenera età. È di più: un lievito. L’ingrediente, cioè, che consente a una porzione inanimata di reale – perché di questo si tratta a livello fenomenico – di favorire l’attivazione di una dinamica relazionale che, nella sua espressione più semplice, lega – e non divide – le persone che vivono al suo interno.
La patria è quel luogo dove ogni essere umano sperimenta per la prima volta e senza bisogno di mediazioni, astrazioni o edulcorazioni la dimensione multidimensionale della fraternità. Orizzontalmente: perché ogni fratello di sangue è – va da sé – un fratello, coinvolto nelle medesime origini, memorie e bisogni. Verticalmente: perché è anche con i propri genitori che si sperimenta quel medesimo legame di fratellanza, seppur a più alta intensità, che va poi riproporsi nel rapporto con i nonni e – dilatando e forzando i limiti corporali e temporali – con i propri antenati. Una trasfigurazione sì, ma dalle basi concrete e che non può prescindere dalla tangibilità dei rapporti storici.
La fraternità nella fede e la figliolanza spirituale non annullano i rapporti di sangue, semmai li portano a perfezione in quel movimento, tipico del pensare cristiano, che lega assieme particolare e universale, necessità e libertà, interno ed esterno. Dio e uomo. Una forma mentis che non ammette salti, ma relazioni via via sempre più estese, inclusive e convergenti. E non deve stupire se l’idea di patria abbia a che fare con la religione: in un certo senso, dovrebbe meravigliare semmai il contrario, poiché entrambe le entità tendono all’unità. E immaginare il sacro senza addentellati con lo spazio e con il tempo priverebbe l’uomo di un possibile ancoraggio con il divino, limiterebbe la sua dignità.
È dentro i confini della madrepatria (espressione composta e densa di significato) che, in primo luogo, si fa esperienza concreta di chi sia il prossimo. San Tommaso
D’Aquino spiegava che «i legami che abbiamo con la parentela e con i compatrioti sono più connessi di altri legami con il principio del nostro essere e [della nostra esistenza]» e che meritano «speciali riguardi». E se di esistenza bisogna parlare, occorre ricordare che la patria terrestre non è altro che l’immagine della «casa del Padre» a cui ogni essere umano è escatologicamente chiamato a entrare e risiedere – secondo l’insegnamento cristiano – in eterno.
In Memoria e Identità (2005), l’ultimo libro di Karol Wojtyła, il papa polacco ebbe a dire: «Se ci si chiede quale posto occupi il patriottismo nel Decalogo, la risposta non dà luogo a titubanze: si colloca nell’ambito del quarto comandamento, il quale ci impegna a onorare il padre e la madre. È infatti uno di quei sentimenti che la lingua latina comprende nel termine pietas, sottolineando la valenza religiosa sottesa al rispetto e alla venerazione dovuti ai genitori. Dobbiamo venerare i genitori, perché essi rappresentano per noi Dio Creatore. Dandoci la vita, partecipano al mistero della creazione e meritano perciò una venerazione che rimanda a quella che tributiamo a Dio Creatore. Il patriottismo contiene in sé questo genere di atteggiamento interiore, dal momento che anche la patria è per ciascuno, in modo molto vero, una madre. Il patriottismo spirituale che ci è trasmesso dalla patria ci raggiunge attraverso il padre e la madre, e fonda in noi il corrispettivo dovere della pietas».
Le parole del papa polacco vanno affiancate, certamente, ai pensieri carichi di delicatezza che Benedetto XVI ha fissato nel proprio testamento spirituale, scritto nell’agosto del 2006 e reso pubblico il 31 dicembre 2022, giorno della morte: «Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino; per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua bontà. E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede».
Fede, patria e popolo. Papa Ratzinger lega assieme, in uno sguardo d’insieme pregno d’affetto, tre categorie entro un medesimo perimetro che è allo stesso tempo spirituale e concreto, metafisico e storico. Papa Leone XIII amplierà la gerarchia delle entità a cui il cristiano deve amore, includendo anche la comunità ecclesiale, la Chiesa. Nella Sapientiae cristianae, enciclica del 1890, ha infatti spiegato: «Si deve amare la patria dalla quale abbiamo ricevuto il dono di una vita mortale: ma è necessario anteporle nell’amore la Chiesa, alla quale dobbiamo una vita che durerà in perpetuo: perché bisogna anteporre i beni dell’anima a quelli del corpo; i nostri doveri verso Dio sono molto più santi che non quelli verso gli uomini. D’altra parte, se si vuole giudicare rettamente, l’amore soprannaturale per la Chiesa e l’amore naturale per la patria sono entrambi figli della stessa sempiterna fonte, poiché hanno come causa e autore Dio stesso, dal che consegue che un dovere non può essere in contraddizione con l’altro».
Patria celeste e patria terrena, Chiesa e città. Si tratta di un rapporto che procedere armonicamente, ma che riserva anche delle insidie pericolose. Soprattutto quando l’espediente patriottico si pone al servizio di egoismi nazionali, arbitrii statali e ideologie antireligiose.
In tale senso, nel 1958, nell’enciclica Ad Apostolorum principis, un più che preoccupato Pio XII scrisse ai cattolici in sofferenza della Repubblica popolare cinese di Mao, fissando dei paletti invalicabili: «È Nostro dovere ricordare a tutti, ancora una volta, che è proprio la dottrina della chiesa che esorta e spinge i cattolici a nutrire un sincero e profondo amore verso la loro patria terrena, a prestare l’ossequio dovuto, salvo il diritto divino naturale e positivo, alle pubbliche autorità, a dare il loro contributo generoso e fattivo ad ogni intrapresa che conduca ad un vero, pacifico e ordinato progresso, ad un genuino bene della patria comunità. La chiesa mai si è stancata di inculcare ai suoi figli l’aurea norma ricevuta dal suo divin Fondatore: «Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio» (Lc 20,25); massima che si fonda sul presupposto che nessun contrasto può esistere tra i postulati della vera religione e i veri interessi della patria».
E continua: «Ma bisogna subito aggiungere – scriveva papa Pacelli – che se il cristiano, per dovere di coscienza, deve rendere alle autorità umane quello che loro spetta, non può l’autorità umana reclamare dai cittadini un ossequio nelle cose in cui esso è dovuto a Dio e non a lei stessa; tanto meno può esigere una loro obbedienza incondizionata quando intende usurpare i sovrani diritti di Dio, ovvero costringe i fedeli ad agire in contrasto con i loro doveri religiosi, o a staccarsi dall’unità della chiesa e dalla sua legittima gerarchia. Allora il cristiano non può che rispondere, serenamente ma fermamente, come già san Pietro e gli apostoli ai primi persecutori della chiesa: “Bisogna obbedire a Dio, più che agli uomini” (At 5,29)».
Dal punto di vista cristiano, l’ideale patriottico è sì da incoraggiare, ma allo stesso tempo da maneggiare con cura. Anche papa Francesco, che non ha mai tenuto nascosto il particolare sentimento per la patria argentina e la terra sudamericana (La Patria Grande), si muove in tale direzione. Si tratta di uno degli argomenti più frequenti, ma meno indagati, del suo pontificato. Tanto quanto la difesa dell’umanità migrante e l’opzione preferenziale per i poveri. Argomenti che soltanto davanti a una lettura superficiale, ideologizzata e strumentale sembrano porsi in una reciproca e insanabile contraddizione. Ma le cose non stanno così, anzi. L’insegnamento di Bergoglio, anche nei tratti più originali, prende le mosse da quanto ha già espresso la Chiesa cattolica in merito alle realtà umane e ai rapporti sociali.
Il patriottismo di Bergoglio è un sentimento inequivocabile, fiero e allo stesso tempo aperto al calcolo delle identità. Ecco le parole di Bergoglio quando, ancora cardinale, fu intervistato da Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin (El Gesuita, 2010): «Mi piace parlare di patria, non di Paese né di Nazione. Il Paese è, in fondo, un mero dato
geografico, e la nazione è un fatto legale, costituzionale. Invece la patria è ciò che ci conferisce un’identità. Di una persona che ama il luogo dove vive non si dice che è un “paesista” o un nazionalista, ma che è un patriota. Patria viene da padre; ed è la patria, come ho già detto, a ricevere la tradizione dei padri, a portarla avanti, a farla progredire. La patria è l’eredità dei padri nel presente, che spetta a noi far crescere. Per questo sbagliano sia quelli che parlano di una patria slegata dall’eredità sia quelli che vorrebbero ridurla all’eredità e non le permettono di farla crescere».
Incontrando i giovani cileni, il 17 gennaio 2018, nel Santuario Nazionale di Maipù, Francesco ha esordito parlando di patria e valori nazionali. Si tratta di uno dei discorsi più intensi e carismatici pronunciato dal pontefice argentino sul tema. Eccolo: «Ho voluto iniziare dal riferimento alla patria perché il cammino in avanti, i sogni che devono essere realizzati, il guardare sempre all’orizzonte si devono fare con i piedi per terra, e si inizia con i piedi sulla terra della patria. E se voi non amate la vostra patria, io non credo che possiate amare Gesù e che possiate amare Dio. L’amore per la patria è un amore per la madre: la chiamiamo “madre patria” perché qui siamo nati; ma essa stessa, come ogni madre, ci insegna a camminare e si dona a noi perché la facciamo vivere in altre generazioni. Per questo ho voluto iniziare con questo riferimento alla madre, alla madre patria. Se non siete patrioti – non nazionalisti, patrioti – non farete nulla nella vita. Amate la vostra terra, ragazzi e ragazze, amate il vostro Cile!».
Meritano di essere citate anche le parole dette, durante le prime fasi della guerra tra russi e ucraini, apprezzando il valore di chi ha impugnato le armi per respingere l’esercito occupante. «Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama», ha detto. Sono parole tutt’altro che vaghe e che vanno inserite in un contesto ben determinato e allo stesso tempo drammatico: perché, nel caso specifico, non accennano a un sentimento edulcorato e accomodante, ma a una molla interiore che impone il rischio del sacrificio personale, della morte fisica.
Nel lessico bergogliano, l’idea di patria non va mai da sola, ma è orientata a un impegno concreto per la comunità, anche di carattere politico, dove la politica è intesa come costruzione di uno spazio da abitare entro i confini della dignità della persona umana.
Nel discorso pronunciato per i duecento anni dall’indipendenza della nazione argentina e pubblicato in Italia con il titolo Noi come cittadini, noi come popolo (Jaca Book, 2013), ha messo assieme in un solo piano programmatico l’interesse della patria con la ricerca della giustizia, della solidarietà e il riscatto dei più poveri. A conclusione, nella Preghiera per la patria, ha scritto: «Gesù Cristo, Signore della Storia, abbiamo bisogno di te. Vogliamo essere nazione, una nazione la cui identità sia la passione per la verità e l’impegno per il bene comune».
Gli stessi concetti li ha poi ripresi scrivendo a monsignor José María Arancedo, presidente della Conferenza Episcopale Argentina, in occasione della ricorrenza bicentenaria:
«[In questo momento] voglio stare accanto a quanti soffrono: i malati, quanti vivono nell’indigenza, i detenuti, quanti si sentono soli, quelli che non hanno lavoro e sperimentano ogni sorta di bisogno, quanti sono o sono stati vittime della tratta, del commercio umano e dello sfruttamento degli esseri umani, i minori vittime di abusi e tanti giovani che subiscono il flagello della droga. Tutti loro portano molto spesso il duro peso di situazioni limite. Sono i figli più feriti della Patria».
E sottolinea: «Sì, figli della Patria. A scuola ci hanno insegnato a parlare della Madre Patria, ad amare la Madre Patria. Proprio qui si radica il senso patriottico di appartenenza: nell’amore per la Madre Patria. Noi argentini usiamo un’espressione audace e insieme pittoresca quando ci riferiamo a persone senza scrupoli: «questo si venderebbe pure la madre!»; ma sappiamo e sentiamo profondamente nel cuore che la Madre non si vende, non si può vendere… e neppure la Madre Patria».
Prendendo spunto dagli interventi del papa si può notare come l’aggettivo patriottico esprima un accrescitivo delle realtà umane, una parola da utilizzare sempre in una accezione positiva. Ecco un esempio. Il 20 settembre 2023, quando ormai era prossimo al trapasso, ecco cosa ebbe a dire riferendosi al presidente emerito della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano: «Vi esorto a un pensiero per il presidente Napolitano, che è in gravi condizioni di salute. Che lui abbia conforto, questo servitore della patria». Dalle parole espresse, è chiaro il giudizio del pontefice su chi ha guidato, da ex comunista, per ben due volte il Quirinale. Un giudizio evidentemente positivo che rivela anche un convincimento personale: per Bergoglio, il buon politico, il leader avveduto, non può non essere un patriota. Si tratta di una sfumatura, ma che rivela quanto il patriottismo – nell’ottica del papa argentino – sia una dimensione chiamata a qualificare, e non deprimere, il valore autentico di un operato.
Guardando ancora al recinto italiano, meritano di essere citate le parole pronunciate davanti a una problematica specifica che da tempo mette in affanno le previsioni sul futuro nazionale. «C’è un inverno demografico in Italia», ha osservato Francesco criticando chi preferisce fare un viaggio piuttosto che fare un figlio. «Italiani, fate figli. La patria ha bisogno di figli. Meno egoismo», ha insistito. Anche in questo caso, la dimensione patriottica assume un valore semanticamente positivo che fa il paio con quello spirito generativo che è proprio della morale cristiana.
In questa sede intendiamo citare un altro intervento papale che può aiutarci ad abbozzare un altro aspetto della predicazione papale in merito al rapporto tra identità, patria e poveri.
Parlando, nel 2014, ai movimenti popolari, il papa ha fatto un riferimento assai preciso su ciò che può minacciare la sana relazione con il proprio territorio. Incontrando, per la prima volta, i movimenti popolari ha detto: «Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi
con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione».
Anche in questo caso Bergoglio fa riferimento alla situazione concreta di chi è costretto, per dinamiche economiche non distributive, a rinunciare al proprio territorio, che non è solo patria, ma luogo di nutrimento effettivo, strumento di sviluppo, crescita e vita. Si tratta di una denuncia che si accompagna alle tante altre denunce lanciate durante il pontificato circa le iniquità dei sistemi economici dominanti, che privano i territori dei loro abitanti e li costringono a emigrare, elidendo il diritto – difeso dalla Dottrina sociale della Chiesa – a non abbandonare la propria terra.
Non è questa la sede per affrontare il tema delle diseguaglianze, le critiche «alla globalizzazione dell’indifferenza», all’individualismo, al liberismo e al capitalismo non soltanto finanziario che hanno qualificato la predicazione di Francesco. Tutti temi affrontati con chiarezza e forza dall’attuale pontefice, fino al limite di essere accusato di «comunismo». Una semplificazione che non tiene conto di tantissimi fattori, compreso il retroterra politico e culturale di Bergoglio, dove gesuitismo sudamericano, peronismo di sinistra e Teologia del popolo hanno rappresentato una diga davanti alle derive marxiste di un determinato e discutibile attivismo ecclesiale.
Al centro della predicazione di Bergoglio, sia da vescovo di Buenos Aires che da pastore della Chiesa universale, c’è l’idea di popolo, una nozione «mitica e non logica» che merita un approfondimento a parte, perché decisiva per decriptare una vasta parte del suo programma pastorale.
In questa sede vogliamo segnalare però un ingrediente che fa sicuramente il paio con l’idea patriottica e che integra quanto precedentemente affermato nella nozione aperta e dialogante delle identità, dove la dimensione locale si rende disponibile ad accogliere e edificare il principio della fratellanza umana in un moto che va dal particolare all’universale, tenendoli assieme senza però annullarli. I brani che stiamo andando a citare sono tra i meno frequentati dell’enciclica sociale Fratelli tutti dell’ottobre 2020.
Il locale, se non ripiegato su sé stesso – insegna Papa Francesco – compensa quanto «il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà». E consente l’incontro con l’altro, ma a partire da identità certe, non annacquate. Perché senza i propri tesori umani e culturali è impossibile incontrare l’altro: «Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base
posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti».
Basterebbe questo brano a smentire quanti ritengono che il Bergoglio sia un globalista. Perché gli ingredienti che introduce, anche nel dialogo, presuppongono un ancoraggio umano che, ad esempio, le narrazioni provenienti dalla cultura illuminista, in ultimo, non riescono a garantire se non al prezzo di azzerare le differenze tra uomini, popoli e fedi.
Davanti a derive che possano aprire le porte a un certo relativismo, anche nella dimensione dell’incontro, se non addirittura al nichilismo, papa Francesco offre il «sapore del locale» quale rimedio per sgonfiare ogni tentazione che sia omologante e intenta a guardare al globo, al massimo, come a un unico grande mercato dove ogni scambio e possibile, persino se umano.
«L’esperienza di vivere in un certo luogo e in una certa cultura – scrive il pontefice argentino – è la base che rende capaci di cogliere aspetti della realtà, che quanti non hanno tale esperienza non sono in grado di cogliere tanto facilmente. L’universale non dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro e risulterà disgustosa. È la tentazione che emerge dall’antico racconto della torre di Babele: la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo non esprimeva l’unità tra vari popoli capaci di comunicare secondo la propria diversità. Al contrario, era un tentativo fuorviante, nato dall’orgoglio e dall’ambizione umana, di creare un’unità diversa da quella voluta da Dio nel suo progetto provvidenziale per le nazioni (cfr Gen 11,1-9)».
Universale sì, omologazione no. «C’è una falsa apertura all’universale, che deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di penetrare fino in fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un risentimento non risolto verso il proprio popolo. In ogni caso, «bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio».
***
Cerchiamo di tirare le somme del discorso appena affrontato sul tema della patria e delle identità nella predicazione bergogliana, cercando di abbozzare, seppur in maniera provvisoria e non esaustiva, una serie di conclusioni.
La prima – e non ammette emendamenti – è che papa Francesco sia un sincero patriota argentino, dalla forte identità popolare, innamorato della sua storia nazionale, ma anche della sua vicenda familiare (anche se qui non l’abbiamo affrontata in maniera diretta) e, persino, di quartiere.
Altra certezza è che nel dizionario del pontefice l’attributo patriota abbia esclusivamente un’accezione luminosa e positiva, ingrediente che lo rende – per intenderci – distante dalla cultura liberal di stampo occidentale, che sul patriottismo tende a porre un’ombra di biasimo confondendo un sentimento benevolo con le derive nazionaliste. Un’operazione equivoca che, sfruttando un esempio preso in prestito dallo stesso Bergoglio, tende a confondere il «polmone con la polmonite».
Papa Francesco, certamente, non è un nazionalista: tutt’altro. La centralità del discorso patriottico, nella predicazione di Bergoglio, deve essere necessariamente affiancata alle lezioni sul popolo, sul lavoro, sul bene comune, sui poveri e sugli ultimi. Francesco è interprete di una fede dal tratto comunitario e umano. Un uomo che ha messo il dialogo al centro della propria missione pastorale, un esercizio che presuppone sia l’accoglienza che il contenuto (l’identità personale e collettiva) dell’altro; che punta all’unità senza rinunciare alle particolarità, in un moto armonico che tiene assieme le polarità senza renderle nulle, ma facendole lievitare, semmai, in nuove identità, sempre rinnovate, sempre crescenti. Che poi, in fondo, è la grande lezione della storia umana: perché ogni popolo, anche quelli dalle radici più antiche, devono la loro sopravvivenza alla capacità di armonizzare i cambiamenti che le condizioni storiche gli hanno posto davanti.
In ultimo, Bergoglio è un pontefice che prova orrore davanti ai processi di omologazione. Perché lui, in certo senso, immagina una umanità coesa e in pace, nella consapevolezza che questa visione sia di per sé escatologica, ed ha in mente anche una figura geometrica capace di tradurre questa visione. E non è la sfera, che ha tutti i punti della superficie uguali ed equidistanti dal centro. Bergoglio vede nel poliedro l’immagine che può tradurre il suo ideale di fratellanza, dove ogni spicchio di identità non deve rinunciare a sé stesso per poter partecipare all’Uno.

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