Paola Cortellesi è un’attrice italiana di qualche fama, onnipresente nelle noiosissime fiction sempre politically correct prodotte dalla Rai (un sistema per inoculare subdolamente l’ideologia mainstream in un pubblico sedato con programmi di apparente intrattenimento) che ha recentemente diretto e interpretato un film-mattone nel più cupo stile neo-realista, intriso del più bieco femminismo, che, ahinoi, ha persino avuto qualche riscontro nel pubblico. Orbene, costei è stata invitata dalla confindustriale università Luiss a intrattenere docenti e studenti con il discorso di inaugurazione dell’anno accademico. Non commentiamo la scelta dell’università: in tempi normali il discorso di apertura, una vera e propria lectio magistralis, veniva richiesto a docenti o comunque intellettuali di fama. Oggi spesso, per fortuna non sempre, la moda è quella di invitare volti noti delle televisioni, cantautori, guitti, comici e così via.
Ciò che ci interessa è il contenuto del sermoncino propinato dalla Cortellesi al pubblico dell’università romana. Un attacco feroce alle fiabe, anzi, alla Fiaba, inzuppato di greve sarcasmo femminista, di condanna del “sessismo”, del “patriarcato”, del “maschilismo”, degli “stereotipi di genere” (tutte falsificanti parole-trappola inventate dai progressisti come strumento linguistico per l’imposizione della loro dittatura culturale). Il tutto condito con battute bar, la cui elevata qualità può essere qui giudicata: “Biancaneve faceva la colf ai sette nani”; “Siamo sicuri che se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe salvata lo stesso?”; “Il principe aveva per forza bisogno della scarpetta per riconoscere Cenerentola, non poteva guardarla in faccia?” e via sproloquiando, nel goffo e mal riuscito tentativo di far ridere con una provocatoria irrisione delle fiabe e dei loro significati. D’altronde l’attacco alle fiabe non è neppure una stravolgente novità: è da decenni ormai, dal ’68 e dai suoi velenosi frutti, che il mondo progressista cerca di calunniare, diffamare, ridicolizzare le fiabe non solo quale forma letteraria che si è trasmessa nelle civiltà e nei secoli, che ha educato al Bene e al Bello intere generazioni con significati simbolici, valoriali e persino metafisici nascosti dietro trame avvincenti. La miserabile cancel culture generatasi in quella incubatrice della decivilizzazione rappresentata dal ceto intellettuale e accademico statunitense, ma a cui non è stato estraneo l’apporto del decostruzionismo e dell’antiautoritarismo della “scuola francese” dei Foucault nonché quella di Francoforte dei Marcuse e degli Adorno, ha sempre avuto in odio le fiabe e, dal loro punto di vista, per buoni motivi. Significativo è il fatto che l’anticultura woke, dominante in USA nelle università, nell’editoria, nella produzione cinematografica dell’entertainment (come il caso il caso della Disney ormai in preda a pervertente furore ideologico femminista, trans-omosessualista e antirazzista), ha prodotto aberrazioni come una Sirenetta e una Biancaneve di colore e il “riadattamento” di alcune fiabe in funzione della propaganda gender e di decostruzione della famiglia. E’ persino capitato, in Italia, di proporre la lettura ai bambini di “fiabe inclusive”, come le definiscono, da parte di personaggi queer, durante le intollerabili lezioni gender in alcune scuole. Ennesimo esempio di una cancel culture che vuole sporcare, infangare, insozzare, calunniare tutto ciò che è retaggio della nostra civiltà e dell’ordine naturale.
Eppure le fiabe sono certamente una delle espressioni più alte della cultura europea (ma non solo, la fiaba ci presenta degli archetipi universali), da Esopo a Fedro, da Perrault ai fratelli Grimm. Le fiabe non sono solo “letteratura per bambini”, ma parlano a tutti noi, ci portano in una foresta di simboli, ci trasmettono insegnamenti ancestrali. Le fiabe educano. Le fiabe evocano. Le fiabe ci aprono l’anima. Le fiabe ci indicano la strada.
Esemplare è l’attività di ricerca, salvataggio della memoria e di sistematizzazione del patrimonio letterario delle fiabe compiuto dai fratelli Grimm. Giuristi, linguisti, filologi, letterati, anticipatori della grande germanistica (e indoeuropeistica) tedesca dell’800, la loro ricerca e trascrizione delle fiabe tratte dal folklore germanico (ma in realtà anche europeo, in particolare francese), i fratelli Grimm non erano motivati solo da interesse letterario, ma anche politico, o almeno metapolitico. Nella Germania occupata dalla soldataglia napoleonica, sottomessa o annessa come la Renania, gli occupanti francesi fecero di tutto per distruggere un tessuto sociale e giuridico che garantiva stabilità e organicità alla società e che risaliva al Medio Evo. Aboliti antichi diritti, espropriate proprietà, imposto il codice civile francese e persino il divorzio, mentre le popolazioni erano sottomesse a pseudo-valori illuministi e giacobini estranei alla loro storia e alla loro cultura, mentre la Prussia veniva umiliata territorialmente e culturalmente, ecco che sorse la reazione del Romanticismo tedesco, la riscoperta e la rivendicazione orgogliosa di una grande cultura e una grande tradizione al contempo popolare e universale, quella delle fiabe, che rimandava alle radici ancestrali di un popolo. Non per nulla in un noto programma di storia della Rai, ancora purtroppo martirizzata dall’egemonia culturale della sinistra, una sedicente storica ha accusato i fratelli Grimm di “etnonazionalismo”. Non solo il Romanticismo, ma la stessa identità germanica deve infatti molto ai fratelli Grimm e ad autori come Clemens Brantano, altro intellettuale romantico tedesco, di origine italiana, “raccoglitore” di fiabe, soprattutto renane.
Veniamo più vicino a noi. Chi ben comprese il valore, anche spirituale, delle fiabe fu “il nostro” J.R.R. Tolkien col suo godibilissimo saggio Sulle fiabe. Non solo con questo testo Tolkien ci ha rivelato l’intima essenza mitica e sacrale del mondo di Feeria, ma ci ha anche detto molto sui fondamentali e sull’origine del suo Mondo di Mezzo raccontato (“sub-creato” per usare un suo espressivo neologismo) nelle sue opere narrative: Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit, il Silmarillion, i suoi vari racconti.
Nel suo saggio Tolkien ci conduce nel Regno Incantato: “Il reame della fiaba è ampio, profondo ed eminente, pieno di molte cose, vi si possono reperire animali terrestri e alati di ogni specie, vi sono mari sconfinati e miriadi di stelle, una bellezza che incanta e pericoli sempre in agguato; e la gioia e il dolore vi sono affilati come spade.” “Bellezza”, “pericoli”, “gioia” e “dolore” sono le parole che ci forniscono una chiave, che non è solo letteraria, per comprendere la valenza esistenziale delle fiabe e, soprattutto, la loro educatrice funzione di iniziazione all’umanità, se non all’Essere. Infatti per Tolkien le fiabe hanno tre facce: “la mistica volta al Soprannaturale, la Magica volta alla Natura; e lo specchio dello scherno e della pietà, volta all’uomo.” Quelle fiabe che Tolkien considera un “lontano barlume o un’eco dell’evangelium nel mondo reale”.
Ancora più vicino a noi è Attilio Mordini, intellettuale fiorentino, germanista, cattolico tradizionalista e ghibellino, già aderente alla Repubblica Sociale Italiana (per questa adesione i “liberatori” gli inflissero una durissima carcerazione, i cui postumi lo portarono a una morte precoce) e che, nonostante la distanza geografica e culturale da Tolkien, condivide con lo studioso di Oxford un intero universo di valori: entrambi cattolici integrali, entrambi studiosi del Mito, entrambi fieramente avversari del mondo moderno e delle sue ideologiche sozzure materialiste, entrambi raccontatori di una metastoria che necessita anche di una metafisica, e che la implica.
Assai acutamente Carlo Fabrizio Carli, curatore del volume Il cattolico ghibellino lo definisce “Maestro segreto”. E Maestro lo fu davvero, coi suoi cenacoli nella sua casa a Firenze o con le sue corrispondenze, di intellettuali quali Adolfo Oxilia, Giovanni Cantoni, Domenico Fisichella, Franco Cardini, Primo Siena, Fausto Belfiori, Giano Accame, Alfredo Cattabiani.
In alcuni saggi del suo libro Dal mito al materialismo Mordini ci parla della Fiaba, anzi di fiabe, come, tra le altre, Cappuccetto Rosso, La Bella Addormentata nel bosco, Puccettino, Cenerentola, Il Gatto con gli stivali. Lo studioso fiorentino colloca le fiabe in un orizzonte ancestrale e mitico, ci svela il loro linguaggio simbolico (“Il linguaggio è di per se stesso simbolo”), ci mostra in trasparenza il segreto cristiano delle fiabe. E infatti, assai opportunamente, l’editore il Cerchio ha proprio titolato Il segreto cristiano delle fiabe la ripubblicazione di questi saggi (il Cerchio ha anche rieditato altre opere importanti di Mordini, come Il Tempio del Cristianesimo. Per una retorica della storia). Lo stesso editore, Adolfo Morganti, nella sua prefazione, coglie lo spirito di Mordini ricordandoci come: “nella fiaba e nel racconto vi sia qualcosa di più della semplice cultura del buon senso e dell’armonia con la natura, ma una vera “Sapienza dei popoli”, ricca di riferimenti simbolici e spirituali”.
Cantrice delle Fiabe fu anche un’altra Maestra segreta, Cristina Campo. Autrice raffinata ma proprio per questo assai parca di scritti (di se stessa diceva: “ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno”) assistita da una cultura vasta e organica, fu anche lei, come Tolkien e Mordini, cattolica tradizionalista (sarà un caso?) e profonda conoscitrice della patristica orientale. Si batté contro la riforma liturgica postconciliare che impose la sostituzione del rito tridentino (in realtà risalente ai primi secoli della Chiesa), in latino, con la messa modernista, in volgare. Fu tra i fondatori di Una Voce, Associazione per la salvaguardia della liturgia latino-gregoriana. Fu anche la redattrice del testo in italiano del Breve esame critico del Novus ordo Missae, indirizzato a Paolo VI e firmato dai cardinali Alfredo Ottaviani (Prefetto del Sant’Uffizio) e Antonio Bacci nel quale si definiva la messa “riformata”, con un’espressione rimasta famosa: “un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa”.
Nella sua raccolta Gli imperdonabili, edito da Adelphi, Cristina Campo titola un intero saggio Della fiaba. Come sempre, la sua prosa è curatissima, evocativa, di un nitore che colpisce e incanta. E, similmente a Tolkien e a Mordini, anche Cristina Campo, con il suo pensiero profondo e al contempo leggero, sottolinea il valore esistenziale e religioso delle fiabe: “Come i vangeli, la fiaba è un ago d’oro […] Offre di volta in volta la scelta – ma è una scelta velata da veli sempre diversi – tra semplicità e sapienza, durezza e soavità, memoria e oblio salutare.”
Tra i vari valori, meglio sarebbe dire Virtù, di cui profumano le fiabe, Cristina Campo cita: “La bellezza, innanzi tutto, nella sua immisurabile portata.” E poi la speranza: “Il cammino della fiaba s’inizia senza speranza terrena”. L’eroe delle fiabe è spesso un folle per il mondo”, incredulo riguardo a “l’onnipotenza del visibile”. Infatti: “A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile. […] Vince nella fiaba il folle che ragiona a rovescio, capovolge le maschere, discerne nella trama il filo segreto”. Come non vedere ad esempio – perché nel regno di Feerie tous se tiens e le fiabe sono foreste di archetipi – nel “folle senza speranza” di Cristina Campo il Frodo del Signore degli Anelli?
Quindi, non scandalizziamoci più di tanto se qualche guitto (il sostantivo non ha il femminile), s’industria di far ridere con battute sciocche sulle fiabe. La loro diamantina bellezza, carica di arcana sapienziali, non ne può essere scalfita. Perché la loro realtà profonda (possiamo osare a definirla “metafisica”?) è ben più vera delle neo-realistiche brutture contemporanee e delle sue tristi espressioni di vario tipo. Ce lo conferma lo stesso Tolkien: “Il più pazzo castello che mai sia uscito dalla sacca di un gigante in uno sfrenato racconto gaelico, non soltanto è assai meno brutto di una fabbrica-robot, ma è anche ben più reale di essa.”
Antonio de Felip
One thought on “IN DIFESA DELLE FIABE. Di Antonio de Felip”
Mi pare che l’Autore abbia dimenticato di citare Italo Calvino, che ha meritevolmente raccolto le fiabe popolari italiane, vale a dire regionali, e le nobilitate anche agli occhi della cultura accademica.