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“IS OLOF PALME THE WAVE OF THE FUTURE?”. Di Angelo M. Codevilla

Si pubblica parte dell’articolo del politologo Angelo M. Codevilla apparso nel 1990 sulla rivista dei conservatori Commentary col titolo “Is Olof Palme the Wave of the Future?”

Le maggiori opere di Codevilla sono state tradotte in italiano: Il carattere delle nazioni, Guida alle relazioni internazionali, La Francia di De Gaulle e si trovano al link https://www.amazon.it/Libri-Angelo-Codevilla/s?rh=n%3A411663031%2Cp_27%3AAngelo+Codevilla

 A cura di Andrea Bianchi

La sconfitta del comunismo nell’Europa dell’Est e la sua apparente perdita di forza nell’Unione Sovietica lasciano presagire la fine delle forme non-totalitarie di socialismo in tutto il mondo, oppure significano, come ha recentemente proclamato il consigliere di Mikhail Gorbaciov per gli affari tedeschi, Nikolai Portugalov, che “l’albero del socialismo è più verde che mai”?

Due giudizi diametralmente opposti hanno percorso i media di tutto il mondo. Uno è che il comunismo è un fallimento così evidente che la gente, ovunque, eviterà come la peste tutto ciò che è associato ad esso, in qualsiasi modo. L’altro è che, poiché il totalitarismo è accessorio al socialismo, ed è stato in realtà solo un’aggiunta che lo ha rovinato e deformato, un socialismo senza il suo bagaglio totalitario ora conquisterà il mondo. Secondo questa visione, il modello per il futuro è la Svezia libera, prospera e socialista (ben simboleggiata, forse, dal nome del suo defunto Primo Ministro Olof Palme).

In alcuni settori dell’Europa occidentale, le reazioni agli eventi dell’Est sono state più complicate di così. Il presidente socialista francese, François Mitterrand, vede nel crollo del comunismo dell’Europa orientale l’inizio della fine di una frattura secolare nella compagine socialista. Spera che questo renda “il prodotto” meno sospetto. Ma si preoccupa anche ad alta voce che i popoli dell’Europa orientale, nella loro corsa verso la libertà, si allontanino dal “meglio che il socialismo ha dato loro”.

In effetti, non c’è quasi un solo socialista in Europa occidentale che non sia preoccupato per le orde di orientali che arrivano in Occidente con un carico di storie dell’orrore sul socialismo. La soddisfazione che i laburisti britannici, i socialisti italiani e i socialdemocratici tedeschi possono trarre dal sentire i partiti comunisti dell’Est (compreso quello dell’Unione Sovietica) insistere sul fatto che anche loro sono ormai dei semplici socialisti, si mescola al timore che gli elettori possano pensare che la sinistra dell’Europa occidentale non sia in fondo diversa dai comunisti. Gran parte della sinistra europea occidentale sta quindi invertendo due decenni di avvicinamento ai partiti di governo dell’Est.

La strategia della leadership comunista di fronte ai nuovi sviluppi è ovvia. Primo, eliminare il più possibile il vecchio bagaglio. Per separare sia l’attuale leadership che il socialismo stesso dal passato, cambiare il nome del partito. Espellere, perseguire e punire i leader cui tutti gli apparati di partito hanno leccato i piedi fino a ieri. Ripudiare sia la violenza con cui il partito ha detenuto il potere, sia la pratica universale di distribuire la ricchezza della società ai favoriti politici. Tutto questo, ovviamente, è una procedura operativa standard per i comunisti. Invero ogni nuovo dittatore comunista ha iniziato il suo regno “scoprendo” e ripudiando gli abusi dei suoi predecessori.

Secondo: fare una sorta di accordo con tutte le “altre forze” che potrebbero essere disposte a lavorare per il socialismo. L’obiettivo è, come ha dichiarato Hans Modrow, “un’economia socialista orientata al mercato”. Modrow spiega che non può permettere la possibilità di disoccupazione o la perdita di “benefici sociali”. Si può mettere in dubbio la sincerità della garbata preoccupazione di Modrow, ma non si può negare che anche questo stratagemma sia ben noto. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, i partiti comunisti dell’Europa orientale hanno cercato di legittimare il loro governo coalizzandosi con “tutti i gruppi democratici e amanti della pace”, riservandosi il diritto di stabilire quali rientrassero e quali no in questa categoria.

Terzo: poiché non si possono evitare le “libere elezioni,” organizzarle in modo da ridurre al minimo l’entrata nel sistema politico di nuove persone che vogliono cancellare l’intero sistema di gestione statale dell’economia e della cultura. Il potere di porre una domanda piuttosto che un’altra, e di formulare tale domanda, pregiudica la risposta. La rappresentanza proporzionale, ad esempio, garantisce virtualmente l’esistenza di molti piccoli partiti rendendo improbabile che essi si accordino su una linea d’azione decisa. Inoltre, se l’elettore può votare solo per le liste dei partiti, il potere spetta a coloro che redigono dette liste. Tutto ciò aumenta le possibilità che i comunisti riescano a comprare, fare prepotenza o intermediare il potere a livello locale.

Quarto: dato che una certa privatizzazione sembra inevitabile, approfittarne. I comunisti polacchi, ad esempio, hanno iniziato a convertire i posti dirigenziali all’interno delle imprese statali in azioni. Questo, insieme all’esercizio dell’autorità creditizia nelle banche, dovrebbe consentire alla nomenklatura di esercitare il potere economico secondo modalità tipiche del Terzo Mondo e della Cina.

L’aspetto più notevole di questa strategia è la sua spudoratezza. Con quale diritto persone che hanno impoverito e brutalizzato le loro nazioni pretendono di avervi un ruolo in futuro? I funzionari comunisti della regione hanno pensato che in un’elezione aperta avrebbero raccolto “forse il 5%” dei voti. A giudicare dalle elezioni semi-libere in Unione Sovietica, dove la maggioranza ha cancellato i nomi dei candidati comunisti anche senza opposizione, il 5% potrebbe essere un buon termine di riferimento. Che cosa ha il socialismo di buono oltre ai diritti degli abusivi e alla diminuzione del fattore paura?

Il più grande vantaggio immediato del socialismo è che la maggior parte delle persone che sono diventate importanti dopo l’inizio del fermento nell’Europa dell’Est vorrebbero trasformare i loro Paesi in qualcosa di simile alla Svezia. Il programma del Nuovo Forum della Germania Est è molto socialista in questo: la proprietà sarebbe condizionata a tal punto da essere a malapena privata e la maggior parte dei membri del Nuovo Forum sembra desiderosa di lavorare con i comunisti per perpetuare la DDR come laboratorio in cui elaborare la sua visione sociale. In Cecoslovacchia, Vaclav Havel, l’uomo la cui opposizione alla dittatura comunista gli è valsa prima il carcere e ora la presidenza del Paese, è evidentemente un liberale nel senso americano contemporaneo. Havel e il Forum Civico, di cui è il leader principale, si sono concentrati sulla spinta allo smantellamento dell’apparato comunista, ma hanno anche accolto come partner comunisti “liberali” quali Alexander Dubcek. In Ungheria, la figura di spicco nella spinta alla liberalizzazione è Imre Pozsgay, anch’egli comunista. In Polonia, il movimento Solidarność è un’ampia coalizione di sindacalisti, sognatori socialisti e pensatori sociali cattolici. Anche se questa coalizione è principalmente unita dall’anticomunismo, nel 1988 Solidarność decise di far blocco coi comunisti in una tavola rotonda e successivamente di unirsi a loro nel governo.

Quali saranno dunque le politiche economiche dei nuovi governi? Le economie ufficiali rischiano più che altro di crollare e non è affatto chiaro se le medicine che si stanno applicando aiuteranno piuttosto che danneggiare il sistema.

Il governo polacco di Solidarność sta mettendo alla prova l’austera “religione di una volta” richiesta dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) come condizione per un prestito di 725 milioni di dollari: congelare i salari, de-controllare i prezzi e vendere o ristrutturare gradualmente le imprese statali in bancarotta; nel frattempo, mantenere alte le tasse per fornire una rete di sicurezza sociale, non da ultimo per la burocrazia improduttiva. Questa è stata la ricetta del FMI per il Messico. Se funziona, la Polonia potrebbe riuscire a fare altrettanto bene del Messico: prospettiva non certo rosea.

L’Ungheria, nel migliore stile argentino, ha cercato di gestire le imprese statali secondo i principi del libero mercato e con prestiti esteri che ammontano a 1.760 dollari per ogni uomo, donna e bambino. A questo si affianca un settore privato di piccole imprese che rappresenta il 25% dell’economia. Ma anche se il settore privato di per sé va bene, il grosso dell’economia non è destinato a cambiare.

In Jugoslavia, la prospera Repubblica slovena sembra aver completato la transizione verso la proprietà delle grandi industrie da parte dei loro manager e sta liberando le piccole imprese. I croati si stanno affrettando a recuperare il ritardo, mentre i serbi, bloccati nell’era buia del socialismo, trovano nella crescente disparità di ricchezza un motivo in più di risentimento etnico.

L’economia della Germania Est ha alcune imprese statali che vanno bene e altre che non vanno bene. Lo stesso vale per la Cecoslovacchia. In entrambi i paesi ci sono appelli alla privatizzazione (in Cecoslovacchia da parte di un economista comunista di lunga data), ma non esistono piani.

Se c’è un consenso sulle questioni economiche che si sta sviluppando nell’Europa dell’Est, è questo: la libertà e la prosperità economica sono la stessa cosa, e le mezze misure in direzione della libertà economica garantiscono (quasi) solo il fallimento. Pochi hanno una comprensione così chiara dei fondamenti come Ludwig Erhard, ministro dell’Economia di Konrad Adenauer nel 1947, che trasformò la Germania occidentale da un’economia di sigarette in un miracolo economico attraverso la semplice deregolamentazione. Oggi, però, economisti americani del libero mercato come Paul Craig Roberts e Richard Rahn della Camera di Commercio sono accolti meglio in Europa orientale e persino in Unione Sovietica rispetto ai liberali americani.

Per quanto riguarda l’economia, quindi, il futuro dell’Europa orientale sarà probabilmente caotico. Può essere prospera o povera. Ma nella misura in cui i locali sanno cosa stanno facendo e riescono a liberarsi dall’incubo della coercizione, il futuro non sarà socialista.

Di fatto, un certo tipo di idealismo ha perso colpi. Quanto il pendolo oscillerà nella direzione morale opposta è ancora da vedere. Basti pensare che la figura più ammirata nella Polonia di oggi è il Papa, che la principale forza democratica in Croazia mette in cima al suo programma l’opposizione all’aborto, mentre in Ungheria nessuno ha attirato folle più entusiaste del conservatore Otto von Hapsburg.

I popoli dell’Est non sono una grande famiglia felice. È inimmaginabile che, usciti da generazioni di sfruttamento da parte dei loro capi, affidino ora a un altro gruppo di leader la maggior parte dei frutti del loro lavoro. Sarebbe così anche se i Paesi dell’Est non fossero carichi di differenze etniche e religiose. Ma allo stato attuale delle cose, è ben dubbio che in Oriente esista sufficiente fiducia per portare a termine le operazioni di base del capitalismo. Dopo generazioni di frodi, gli affari da milioni di zloty o di rubli potranno chiudersi con un dito alzato su una piattaforma commerciale o con una telefonata? La fiducia svedese in un governo imparziale è del tutto fuori discussione.

È interessante notare che mezzo secolo di socialismo ha avuto il suo peso anche sulla società svedese. Gli svedesi parlano del loro Paese come fosse governato dalla “Reale Invidia Svedese”: il sentimento vigile di ogni cittadino che non permette al suo vicino di prendere dal piatto pubblico il benché minimo centesimo in più di quello che gli è dovuto, o di trattenere anche solo un centesimo di quello che deve, o di violare una qualsiasi delle innumerevoli norme su tutto, dal portare a spasso i cani al crescere i bambini. Questo spionaggio reciproco non è diverso da quello che caratterizza la vita in Oriente. Le persone sono semplicemente incoraggiate a denunciare i difetti degli altri. In effetti, la Svezia ha il tasso più alto al mondo di bambini tolti dalla custodia dei genitori perché lo Stato li ha ritenuti inadatti.

Non sorprende che, con il venir meno dello spirito di generosità svedese, i servizi pubblici si siano deteriorati. Le scuole sono in rovina e le file d’attesa negli ospedali si allungano. Il progressivo deterioramento dell’ambiente socio-economico in Svezia è stato misurato dall’emigrazione di circa 20.000 dei più energici e talentuosi professionisti del Paese ogni anno – ancora una volta, sfumature tipiche dell’Est – e ha recentemente permesso al Ministro delle Finanze Kjell Otto Feldt, un socialdemocratico di destra, di convincere il governo a ridurre l’aliquota fiscale marginale massima al 55%. Ma essa è solo una parte del clima che molti considerano troppo soffocante.

L’aspetto non economico del socialismo svedese si basa anche sull’omogeneità della società e, ancor più, della leadership. Tutti i principali interessi privati sono invitati a partecipare al processo di governo e hanno il potere di attuare le decisioni raggiunte per consenso. Poiché nessun gruppo di interesse teme di essere sfruttato troppo, nessuno accusa l’altro. Ad esempio, quella che gli stranieri chiamano laicità del Paese esiste con la piena partecipazione della Chiesa luterana. (Chiesa e Stato sono intrecciati in Svezia in una maniera che violerebbe il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti). Inoltre, pur ritenendosi egualitaria, la Svezia mantiene la più grande aristocrazia ereditaria d’Europa e da nessuna parte, tranne forse nell’Unione Sovietica, si vedono così tante medaglie sui petti. Analogamente, il Paese si vanta per il suo ambientalismo ma, come ha detto un diplomatico, “Gli svedesi sanno essere meravigliosamente pragmatici in materia.”

In un’atmosfera in cui mettere in discussione la competenza o le motivazioni di figure di alto livello è la definizione stessa di tradimento, ottenere delle A per le prestazioni è considerato un diritto naturale. Così, gli esperimenti sociali svedesi sono tutti dichiarati di successo, anche quando falliscono. Le politiche sociali possono cambiare, e in effetti in campo economico stanno cambiando rapidamente in direzione del socialismo. Ma nessuno che abbia un ruolo importante farà una campagna anti-establishment.

L’unica lezione che la Svezia può impartire ai Paesi pluralisti con tradizioni politiche approssimative è questa: non pensateci nemmeno. La Svezia non è il futuro per nessuno, forse nemmeno per se stessa.

Le probabilità sembrano contro di lei. Questo non significa, tuttavia, che la tirannia sia un ricordo del passato. Al contrario, quando la persuasione fallisce, chi detiene il potere militare è sempre più tentato di governare con la forza. Così a gennaio le truppe sovietiche hanno invaso l’Azerbaigian per salvare il partito comunista, che il fronte popolare anticomunista aveva ridotto all’irrilevanza politica. Analogamente, la Cina di oggi è tirannica come sempre, anche se molto meno percorsa dal pensiero socialista. E così lo spettro di Deng Xiaoping potrebbe perseguitare il mondo più di quello di Olof Palme.

Angelo M. Codevilla

 

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