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L’ASCESA DEL POLITICAMENTE CORRETTO. GUERRE CULTURALI SULLE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO. Di Angelo M. Codevilla

“Compagno, la tua osservazione è fattualmente incorretta.”
“Sì, è così. Ma è politicamente corretta.”

La nozione di politicamente corretto è entrata in uso tra i comunisti negli anni ‘30 come promemoria quasi umoristico del fatto che l’interesse del Partito è quello di essere trattato come una realtà che si colloca al di sopra della realtà stessa. Poiché tutti i progressisti, comunisti inclusi, sostengono di voler creare nuove realtà umane, essi sono perennemente in guerra contro le leggi e i limiti della natura. Ma poiché la realtà non cede, essi finiscono per fingere di incarnare queste nuove realtà. Di conseguenza, l’obiettivo dichiarato di qualsiasi movimento progressista finisce per essere subordinato all’urgente e importantissima questione del potere del movimento stesso. Poiché tale potere è insicuro finché gli altri sono in grado di mettere in dubbio la verità di ciò che i progressisti dicono di se stessi e del mondo, i movimenti progressisti finiscono per lottare non tanto per creare le nuove realtà tanto promesse, quanto per costringere le persone a parlare e ad agire come se queste fossero reali: come se ciò che è corretto dal punto di vista politico –  cioè i pensieri che servono agli interessi del partito – lo fosse anche fattualmente. …

Soprattutto dopo l’implosione dell’impero sovietico, gli esponenti della sinistra hanno sostenuto che il comunismo non è riuscito a creare l’utopia non per mancanza di potere militare o economico, ma piuttosto perché non è riuscito a superare questo divario. La lezione per i progressisti di oggi è quindi quella di spingere il P.C. ancora di più, di imporre pene ancora più dure ai dissidenti? Molti dei progressisti europei e americani più avveduti di oggi, ai vertici del governo e della società, sapendo di non poter esercitare una repressione di tipo sovietico e tuttavia intenzionati ad abbattere la crescente resistenza popolare ai loro progetti, cercano un altro approccio per schiacciare la resistenza culturale. Sempre più spesso citano il nome di Antonio Gramsci (1891-1937), brillante teorico comunista per il quale l’“egemonia culturale” è lo scopo stesso della lotta e il suo strumento principale. I suoi scritti delineano un totalitarismo che elimina la possibilità stessa di resistenza culturale al progressismo. Ma, attenti più a Machiavelli che a Marx o a Lenin, essi sono più che complessi per quanto riguarda i mezzi e sono tesi a tutt’altro che allo stesso al tipo di potere bruto esercitato sulla cultura quale fu messo in atto dall’Impero sovietico o, se è per questo, com’è diffuso tra noi oggi.

Il mio scopo è spiegare come i progressisti hanno inteso e condotto la loro guerra culturale fin dai tempi di Lenin e come gli scritti ambigui dello stesso Gramsci illustrino le scelte che si trovano ad affrontare nel condurre quella guerra nel nostro tempo e nelle nostre circostanze, soprattutto per quanto riguarda il politicamente corretto al centro della guerra culturale del giorno d’oggi. …

Ovunque i progressisti abbiano conquistato il potere, ogni sorta di contraddizione è rimasta al suo posto e ne sono sorte di nuove. I movimenti progressisti hanno reagito a questo fallimento facendo di se stessi la loro ragion d’essere. In teoria, la rivoluzione concerne il potere e la necessità di forgiare di nuovo l’umanità. In pratica, per quasi tutti i movimenti progressisti si tratta di conquistare il potere per i rivoluzionari e di fare la guerra a chi li ostacola. Ad esempio, il superamento della proprietà privata, della divisione del lavoro e dell’oppressione politica non è mai stato il tema conduttore del marxismo-leninismo, così come i proletari operai e contadini non sono mai stati i suoi protagonisti principali. In realtà, il comunismo è un’ideologia fatta da, di e per gli ideologi, che finisce per potenziare e celebrare. Questo vale sia per le altre branche del progressismo che per il marxismo.

Il contributo fondamentale di Lenin fu riconoscere esplicitamente il primato del partito rivoluzionario e di trasformare il potere e il prestigio del partito da mezzo per la rivoluzione a mero fine della rivoluzione. Gli scritti di Lenin, come quelli di Marx, non contengono nessuna descrizione precisa dei futuri assetti economici. L’economia sovietica, pur con tutte le sue inefficienze, funzionava con precisione svizzera come sorgente di privilegi per alcuni e di privazioni letali per altri. Il Partito Comunista aveva trasceso il comunismo. La chiave per capire cosa fanno i partiti progressisti al potere sta nell’intuizione, enfatizzata dai “teorici delle élite” come Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, che gli obiettivi pratici di qualsiasi organizzazione si rivelano essere ciò che serve agli interessi e alle inclinazioni dei suoi leader.

Gli interessi dei rivoluzionari progressisti non sono in discussione. Benché ogni ramo del progressismo differisca nel modo in cui definisce i difetti “strutturali” della società, nel nome che dà alla realtà umana che cerca di superare e nei mezzi con cui raggiungere i suoi fini, i progressisti dal XIX secolo ai nostri giorni sono quasi del tutto identici nelle loro predilezioni personali: cosa e chi odiano ancor più di ciò che amano. Vedono la cultura di quella che i marxisti chiamano “morale borghese” come la negazione della loro identità e autorità. Questa identità, la loro identità, deve essere promossa senza sosta attraverso una guerra infinita contro quella cultura. Ecco perché le campagne culturali di progressisti altrimenti dissimili tra loro sono state praticamente uguali tra loro. La Russia leninista, così come diverse democrazie occidentali, ha cercato di sradicare la religione, di rendere difficile l’esistenza di uomini, donne e bambini come famiglie e di chiedere ai loro sudditi di unirsi a loro per celebrare il nuovo ordine che riflette la loro identità. Si noti bene: l’obiettivo vero della guerra culturale è meno importante della definizione dell’identità chi la combatte. Questo spiega l’animosità con cui i progressisti hanno condotto le loro guerre culturali. …

I regimi progressisti esigono che le persone che si esprimono in pubblico (e in privato) affermino tutto ciò che riguarda l’identità del regime per evitare di perdere l’accesso a posti di lavoro o privilegi e di essere esposti all’isolamento o alle ire dei sostenitori del regime, quando non trattati come criminali. Ma anche i regimi totalitari possono premiare o punire solo poche persone alla volta. La collaborazione tacita di milioni di persone che si mordono le labbra è ancora più utile del servizio a voce alta di migliaia di persone in cerca di favori. Quindi, per stimolare una cooperazione almeno passiva, il partito si sforza di dare l’impressione che “tutti” siano già dalla sua parte.

Ma perché allora il Partito Comunista ha sempre risparmiato alcune chiese? Perché riferire le critiche rivolte a se stesso dall’estero? Perché, di tanto in tanto, il partito pubblicizzava i dissidenti tra i suoi ranghi? Ogni volta che il partito organizzava una campagna a favore di una delle sue cause politico-culturali, designava alcune persone che personificavano l’opposizione e indirizzava tutti gli organi e i portavoce socialmente accettabili a scaricare su di loro il peggio. Perché, dall’Unione Sovietica alla Cina a Cuba, il partito istruisce i suoi giovani quadri portandoli a osservare e a deridere le funzioni religiose frequentate da poveri, vecchi, emarginati socialmente ripugnanti? In parte, perché ogni diffamazione dei nemici culturali rafforzava l’identità dei quadri. Li faceva sentire meglio con se stessi e più potenti. Se non ci fossero stati quei resti della vecchia società o quei dissidenti, il partito avrebbe potuto fabbricarseli. …

Gramsci ha definito il fenomeno del “blocco storico” che aggrega i vari settori della società sotto la direzione del partito-stato. Gli intellettuali, secondo Gramsci, sono l’elemento di punta del blocco. In ogni epoca essi saldano operai, contadini, chiesa e altri gruppi in un’unità in cui il popolo vive, si muove e ha il suo essere, ed entro cui è difficile se non impossibile immaginare alternative. Il potere, usato con giudizio, agisce sulle persone come il sole sui girasoli. All’interno di questo blocco, le idee possono mantenere il loro nome pur cambiando nella sostanza, mentre un nuovo linguaggio cresce organicamente. Come ha notato Gramsci, Machiavelli aveva sostenuto che il linguaggio è la chiave per la padronanza della coscienza, una padronanza più sicura di quella che la forza da sola può raggiungere. Ma si noti che le metafore di Machiavelli sulla guerra linguistica fanno tutte riferimento alla violenza. Quanta forza è necessaria per far coagulare questo blocco storico e per tenervi dentro i recalcitranti? Il silenzio di Gramsci sembra dire: “Tutto quello che serve”. Dopo tutto, Mussolini ne ha usata tanta di forza quanta ne riteneva necessaria. …

La visione gramsciana dell’egemonia culturale non è una panacea. In pratica, gli intellettuali progressisti di oggi si trovano nella stessa situazione di Marx, Lenin o Mussolini: le forze socioeconomiche della società non stanno buttando giù le porte per unirsi a un “blocco storico” gramsciano, così come gli “operai” non si erano affrettati a farsi l’ariete della rivoluzione marxista. Gli intellettuali progressisti di oggi, profondamente impegnati nella guerra culturale, si trovano di fronte alle stesse scelte di Lenin o Mussolini: saldare insieme differenti settori culturali della società in modo autorevole e giudizioso, oppure distruggerli. La scelta è fondamentalmente tra la seduzione mussoliniana e lo stupro leninista.

Questa differenza di preferenze è, grosso modo, ciò che divide i gramsciani dell’Europa continentale da quelli angloamericani. …

Gli intellettuali progressisti americani si considerano l’anima del Partito Democratico, che è a capo della classe dirigente americana. Non avendo ancora sperimentato quel genere di rifiuto che hanno subito le loro controparti europee, si rallegrano del loro successo nell’aver cambiato cambiare la cultura americana nel corso dell’ultimo mezzo secolo e guardano alle nozioni gramsciane di egemonia culturale come conferma della loro prassi di imporre la loro identità culturale all’America. Gli elettori del Partito Democratico approvano già l’obiettivo degli intellettuali di non convincere il resto della società, ma di sottometterla. Per loro, questa è la Rivoluzione. Hanno scelto l’alternativa leninista piuttosto che quella mussoliniana.

Essi ritengono che l’ordine socio-politico americano sia fondato sul razzismo, sul patriarcato, sull’imperialismo genocida e sullo sfruttamento economico. Il “blocco storico” di Gramsci può realizzarsi attraverso il perseguimento congiunto della giustizia razziale, della giustizia di genere, della giustizia economica e dell’antimperialismo. La Rivoluzione consiste nell’unire le classi oppresse per infliggere agli oppressori la punizione che si desidera. Questa comunità di svariati soggetti comprende i diversi gruppi la cui identità nega un pezzo della cultura americana – religiosa, razziale, sessuale, economica. Insieme, essi negano tutto.

A prescindere da ciò che Gramsci ha scritto o inteso circa l’uso del potere da parte del partito-stato sulle istituzioni culturali per sovvertire e trasformare il resto della società, per la sinistra americana l’egemonia culturale significa usare questo potere per soffocare la civiltà giudaico-cristiana fin dalle sue origini; ammettere nel discorso pubblico solo i pensieri che servono all’identità dei gruppi costituenti del partito; e denigrare, delegittimare e possibilmente mettere fuori legge tutti gli altri. In breve, il politicamente corretto come lo conosciamo.

Per la maggior parte degli americani che hanno sentito parlare del concetto di egemonia culturale di Gramsci, esso indica lo scopo soffocante della P.C.. Ma poiché la P.C. consiste proprio in ciò che Gramsci condannava come il combattere con il senso comune di persone che non può controllare completamente, la comprensione dell’egemonia culturale da parte della sinistra americana suggerisce che la sua guerra culturale non finirà come intende…

Non più delle sue controparti europee, la classe dirigente progressista americana offre una visione di verità, bontà, bellezza o vantaggio per attirare a sé il resto della società. Come i suoi parenti europei, tutto ciò che il progressismo americano offre è l’obbedienza alla classe dominante, imposta dalla correttezza politica. Non c’è nemmeno un punto di arrivo a ciò che è politicamente corretto, così come non c’è mai stato per il comunismo. Qui e ora, come sempre e ovunque, si tratta di glorificare il partito e umiliare il resto.

Se l’egemonia culturale significasse semplicemente ottenere il quasi monopolio delle istituzioni culturali americane da parte della classe dirigente progressista, il conflitto sarebbe finito una generazione fa: i dominatori avrebbero vinto. Ma poiché la classe dirigente agisce come se i resti recalcitranti della vecchia cultura meritassero sforzi sempre più intensi per schiacciarli, l’egemonia culturale del P.C. significa un ciclo infinito di insulti e risentimenti, che garantisce la permanenza del conflitto. Al contrario, il concetto di egemonia culturale di Gramsci (sulla scia di Machiavelli), mira a una vittoria definitiva: la trasformazione e la sintesi dei diversi ceppi culturali della società in qualcosa che li trascende a tal punto che nessuno potrebbe mai guardare indietro – ad esempio, come il cristianesimo ha eliminato gli dei di Roma e dei barbari. Soprattutto, Machiavelli, seguito da Gramsci, cercava il sigillo dell’egemonia culturale sul potere come mezzo per un fine più grande: per Machiavelli, ciò significava una grandezza politica come quella di Roma (o forse della Spagna rinascimentale). Per Gramsci, significava raggiungere l’utopia marxista…

Questo desiderio vicario del potere dei vincitori nella guerra civile, tuttavia, non ha nulla a che vedere con Gramsci, né tantomeno con Machiavelli, che pensava in termini di sovversione dei nemici che non si uccidono, piuttosto che di gioia nel rompere il loro spirito infliggendo loro indegnità. Le persone, scriveva, “vanno accarezzate o spente”. Insultare le persone che non sono permanentemente esautorate è divertente, ma del tipo costoso e pericoloso, perché genera almeno altrettanta scontrosità e rivolta che sottomissione…

Consideriamo il nemico principale: la religione. Le principali denominazioni protestanti americane hanno da tempo consegnato i loro greggi (in diminuzione) alle priorità progressiste della classe dirigente. Papa Francesco pubblicizza il suo rifiuto di giudicare gli attacchi alla civiltà occidentale, compreso l’omicidio di sacerdoti. Il suo impegno della Chiesa cattolica per la costruzione di “una nuova umanità”, come ha detto alla Giornata Mondiale della Gioventù di luglio a Cracovia, apre la Chiesa cattolica a ridefinire il cristianesimo per missioni progressiste in termini progressisti, una missione già compiuta alla Georgetown University, a Notre Dame e ad altri ex bastioni del cattolicesimo americano ora trasformati in bastioni del progressismo americano. I leader evangelici sembrano desiderosi di non rimanere indietro. Gramsci avrebbe consigliato che arruolare le istituzioni religiose americane al servizio delle grandi priorità della classe dirigente non sarebbe costato quanto Mussolini nel 1929. Sarebbe stato sufficiente astenersi dalle sfide frontali all’essenziale.

Invece, i progressisti americani aggiungono l’insulto al danno imponendo il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’omosessualità, il “riscaldamento globale” e altre mode, perché in realtà non hanno altre priorità oltre a se stessi. I governanti progressisti americani, come quelli francesi, non agiscono tanto come politici che raccolgono consensi quanto come conquistatori che si divertono a punire i prigionieri senza preoccuparsi che la situazione possa cambiare.

Ma come la svolta contro l’egemonia culturale progressista è arrivata in altri Paesi, sembra che stia arrivando anche in America. Gramsci aveva scritto del principe di Machiavelli e del suo “nuovo principe” che il suo regno sarebbe stato quello in cui tutti i buoni cittadini avrebbero potuto sentirsi al sicuro dall’arbitrio. Ma l’arbitrio è proprio quello che i nostri padroni del P.C. hanno appiccicato al sistema politico americano…

È sorprendente che, nel 2015-16, la nostra classe dirigente sia stata sorpresa da Donald Trump. Sebbene egli sia rimasto obbediente alla maggior parte delle richieste specifiche del P.C. e sia rimasto in gran parte un democratico liberale, gli è bastato disprezzare il P.C. in generale e insultare i suoi sostenitori per diventare il Nemico Pubblico Numero Uno del liberalismo.

Il signor Trump ha dimostrato che ci sbagliavamo, tutti. La sua critica al politicamente corretto ha distrutto molti tabù e ha dato ai suoi seguaci la licenza di dire quel che pensano veramente. Le convinzioni che avevamo deriso ora [2016] sono maggioritarie in uno dei partiti politici più antichi del mondo e talvolta all’interno dell’elettorato in generale.

Il punto non è Trump, ma il fatto che la classe dirigente, pur avendo messo da parte la civiltà occidentale, non l’ha sostituita con un’egemonia culturale in senso gramsciano-machiavellico. Piuttosto, spingendo avanti le cose a quel modo il P.C., che si definiva come il dissacratore degli indegni, i progressisti hanno distrutto la legittimità di qualsiasi autorità, in primis la loro.

Nel mio articolo del 2010 per l’American Spectator, “The Ruling Class and the Perils of Revolution” (La classe dirigente e i pericoli della rivoluzione), sostenevo che “circa due terzi degli americani – pochi elettori democratici, la maggior parte di quelli repubblicani e tutti gli indipendenti – non hanno un veicolo nella politica elettorale”. Il risentimento per il palese disprezzo della Costituzione e degli statuti con cui la classe dirigente ha permeato la vita americana, insieme alla sua guerra culturale attuata dal P.C., significava che “prima o poi, nel bene o nel male, la domanda di rappresentanza di quella maggioranza sarà soddisfatta”. Aggiungevo: “Purtroppo, è più facile per chi non gradisce un atto illegale di un tribunale o di un funzionario contrastarlo con un altro atto illegale che riportare tutte le parti al fondamento della verità”.

Cosa fare di un sistema politico cui nessuno crede più? È una domanda rivoluzionaria, perché la classe dirigente americana ha distrutto largamente, insieme alla sua credibilità, il rispetto per la verità e la cultura della moderazione che avevano reso il popolo americano quell’amministratore unico della libertà e della prosperità. E le masse alienate dalla civiltà si rivolgono, per volontà propria e in modo fin troppo comprensibile, ai leader naturali delle rivoluzioni.

Articolo apparso originariamente nell’autunno del 2016 sulla Claremont Review of Books. Definita dal New York Times “il sistema nervoso centrale della destra americana,” la rivista raccoglie molti testi del politologo Angelo M. Codevilla (1943-2021). Qui egli ha ritratto in medaglioni tematici le figure di Quincy Adams, Wilson, De Gaulle, Kennan e Ariel Sharon; ha spaziato dalla russofobia del 2019 (giudizi poi rivisti) alla carenza strategica americana (Kagan) nel fronteggiare il Medio Oriente nel “decennio perduto” e “mentre si assembrano le nuvole di tempesta”.

Le maggiori opere di Codevilla sono state recentemente tradotte in italiano: Il carattere delle nazioni, Guida alle relazioni internazionali, La Francia di De Gaulle. I testi son disponibili su Amazon: https://www.amazon.it/Libri-Angelo-Codevilla/s?rh=n%3A411663031%2Cp_27%3AAngelo+Codevilla

 

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