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PAPA FRANCESCO E LA GUERRA TRA RUSSI E UCRAINI: «L’ABBAIARE DELLA NATO» E LA DIFFICILE MISSIONE DI PACE. Di Fernando Massimo Adonia

La guerra tra russi e ucraini nel cuore della vecchia Europa ha rimesso in moto la Storia e, in un certo qual modo, permesso di archiviare – non senza preoccupazioni per il futuro – due degli snodi fondamentali del lungo Novecento: l’esito della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, il collasso dell’Unione sovietica, decretato anche simbolicamente quando, la sera del 25 dicembre 1991, la bandiera rossa con falce e martello è stata ammainata dal pennacchio del Cremlino. Quest’ultimo atto ha reso plasticamente visibile la fine della Guerra fredda e la sconfitta su tutta la linea del Socialismo reale, dal versante ideologico al profilo strategico-militare.

Chi, in quel frangente storico, ha ritenuto che i conflitti del secolo precedente fossero stati definitivamente neutralizzati in nome di una pace da garantire e nutrire sulla scorta dei valori neo-liberali era legittimato a farlo. La firma dei Trattati di Maastricht del 1992 e l’inaugurazione del parco EuroDisney a Parigi avevano infatti favorito l’emergere di una narrativa – indicativa dell’epoca appena avviata – pregna di ottimismo. Epoca pur tuttavia segnata da alcuni conflitti, come la guerra nelle regioni della ex Jugoslavia o in Somalia, da considerare però alla stregua di fuochi fatui emessi da corpi politici in decomposizione, non di più. La traiettoria globale, in fondo, era stata segnata sia in termini politici che economici. Entro questa cornice, la guerra al Terrorismo internazionale ingaggiata dagli Usa all’indomani dei tragici attentati dell’11 settembre 2001 per esportare la democrazia all’interno di contesti recalcitranti ai modelli occidentali, aveva una logica implicita, seppur forzata ad usum Delphini.

Le missioni in Iraq e in Afghanistan si sono risolte però in un inutile bagno di sangue dalle conseguenze perlomeno imbarazzanti. Tony Blair, primo ministro del Regno Unito, si è dovuto dimettere davanti all’evidenza che le prove fornite circa il fatto che il regime di Saddam Hussein avesse in dotazione armi di distruzione di massa fossero false (2007). Nell’agosto 2021, il rocambolesco disimpegno degli Stati Uniti dall’Afghanistan, lasciando nelle mani dei talebani quanti avevano collaborato con gli occidentali nei quasi vent’anni di presenza armata, ha offerto l’immagine di un fallimento politico prima ancora che militare.

È dal 2014, dal viaggio pastorale in Corea del Sud, che papa Francesco va predicando che «la terza guerra mondiale a pezzi» sia in atto. Un’immagine tanto forte quanto inquietante che, soltanto dal 24 febbraio 2022, giorno dell’ingresso dei carri armati di Mosca in Ucraina, è divenuta tangibile ai più. E non soltanto perché, dopo un silenzio assordante durato trent’anni, si è tornati a parlare con estrema insistenza e serietà di armi atomiche, sia tattiche che strategiche. Sotto il profilo geopolitico, il conflitto divampato in Europa orientale ha reso evidente un fenomeno latente da tempo: la divaricazione sempre più riottosa e crescente tra il blocco euro-atlantico e i cosiddetti paesi del sud globale, capitanati da Russia e Cina.

Un globo diviso in due, questo è quanto osserva Bergoglio dalla sue visuale privilegiata di leader politico-religioso. Un risiko che il pontefice venuto dall’Argentina – «dalla fine del mondo», come aveva detto la sera della sua elezione – ha chiaro da tempo. Con guerre sempre più frequenti dove a combattersi, anche per interposta persona, sono sempre le stesse potenze (Siria, Libia, etc.). Una frattura post-ideologica davanti alla quale il vescovo di Roma ha deciso che la Chiesa deve rimanere terza, ma non inerme. Una postura che da Occidente è stata più volte criticata, talvolta banalizzata e in parte censurata. Papa Francesco non sta né con il governo russo né con l’Ucraina: sta semmai con gli «innocenti» di tutti e due gli schieramenti. Non è una scelta neutralista e neanche pacifista, ma per la Pace. Una posizione altra – e allo stesso tempo attiva – che scompagina i desiderata delle forze in campo e pone non poche difficoltà di tenuta psicologica, soprattutto quando il conflitto determina la naturale esasperazione degli animi sulla scorta dei morti, delle mutilazioni, della distruzione, dello spavento e dell’odio che ogni guerra scatena inevitabilmente infettando anche le generazioni a venire.

Negli anni della Guerra fredda, la Chiesa di Roma era naturalmente orientata a sostenere le ragioni del mondo occidentale, non fosse altro che il pericolo del comunismo ateo era percepito come minaccioso per l’esistenza stessa del cristianesimo. In tal senso, soprattutto dalla visuale americana, si riteneva che Giovanni Paolo II e il presidente Ronald Reagan (1981-1989) agissero in sinergia. Una lettura vera solo in parte e inadeguata a cogliere tutte le sfumature dell’azione vaticana, comprese le traiettorie della Ostpolitik del cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato di Karol Wojtyla, dal 1978 al 1992.

Le vicende che portano alla prima Guerra nel Golfo (1991) e, soprattutto, alla Seconda (2003) consegnano alla Storia ben altra fotografia circa i rapporti tra la Santa Sede e il governo di Washington: con il papa polacco determinato a evitare a tutti i costi il ricorso alle armi, condannando esplicitamente una campagna militare – la seconda in particolare –che, tra le tante problematiche, avrebbe determinato – come poi è effettivamente avvenuto – la scomparsa di intere comunità cristiane dal Medio Oriente.

Francesco si muove sulla medesima linea dei predecessori. Probabilmente influenzato da quel peronismo di sinistra che per lo storico Loris Zanatta (2020) è uno dei tratti distintivi della politica papale, Bergoglio recepisce quanto dibattuto durante il concilio Vaticano II (1962-63) e ricapitolato nel Catechismo del 1983 e nel Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (2004). E lo mette in pratica. Per la Chiesa cattolica, Pace non è la sola assenza di guerre e neanche un sinonimo di benessere o quieto vivere. È totalmente altro: il segno della presenza divina, il termometro di un progresso spirituale che produce effetti nel tempo presente. Pace è infatti il saluto del Cristo Risorto agli apostoli. Un augurio, ma anche una missione ben precisa al quale il cristiano è chiamato a cooperare: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

Ciò significa che l’iniziativa di ogni pontefice non può essere limitata alla sola condanna dei conflitti, ma va estesa all’impegno per favorire le iniziative di concordia tra governi e popoli, andando oltre – in alcuni casi – al solo raggiungimento di un equilibrio che possa sì evitare l’esplodere dei fuochi mettendo da parte, però, le ragioni della giustizia. Prevenire, innanzitutto.

Per Papa Francesco le tensioni in Ucraina non hanno mai rappresentato – come riteneva invece Barack Obama – una crisi locale, ma un innesco potenzialmente più esteso e dirompente. All’indomani del 24 febbraio 2022, ha utilizzato una forte analogia per definire l’allarme in corso, dicendo che il conflitto che ha investito Kiev sta alla Terza guerra mondiale come la Guerra di Spagna sta alla Seconda. Una similitudine pregna delle tensioni del Novecento, ma proiettata drammaticamente al futuro.

Sul versante religioso, Bergoglio ha compiuto un atto dal forte valore metafisico sul quale, probabilmente, non si è riflettuto abbastanza. Il 25 marzo 2023, ha consacrato Russia e Ucraina al cuore «Immacolato di Maria»: un gesto che richiama i misteri di Fatima e che segna le vicende della cattedra di Pietro da Pio XII fino allo stesso Bergoglio.

Durante il primo anno di guerra, la figura della Vergine è tornata anche in un altro momento, emotivamente più forte e allo stesso tempo indicativo di un impegno in salita. L’8 dicembre 2022, il pontefice è a piazza di Spagna a Roma per il tradizionale atto di venerazione alla statua dell’Immacolata. È in quel momento che, tra le lacrime, denuncia il proprio fallimento.

Eccolo: «Vergine Immacolata, avrei voluto oggi portarti il ringraziamento del popolo ucraino, per la pace che da tempo chiediamo al Signore. Invece devo ancora presentarti la supplica dei bambini, degli anziani, dei padri e delle madri, dei giovani di quella terra martoriata, che soffre tanto». E piange. Il leader mondiale che più di altri si è impegnato per la Pace si presenta sconfitto e chiede perdono. Un pianto carico di umiltà che merita di essere accolto non soltanto con rispetto, ma con studio.

Cerchiamo di ricapitolare – in una sintesi purtroppo non esaustiva – quanto fatto e detto dal papa lungo il primo anno di guerra e le difficoltà affrontate. Un anno nel qual il pontefice non ha lesinato parole di condanna né verso l’iniziativa bellica – definendola, tre le altre parole, «ripugnante e sacrilega» – promossa da Vladimir Putin; né verso la postura adottata dei governi occidentali, che hanno promosso politiche di riarmo accompagnate da più pacchetti di sanzioni, senza attivare – questa è la principale accusa mossa dal pontefice – efficaci iniziative diplomatiche. E persino verso la testardaggine del presidente Zelensky.

Dal punto di vista di Bergoglio, la guerra in Ucraina è arrivata al rallentatore. Dal 2014, quando cioè la Russia ha annesso la Crimea e – quasi in contemporanea – nel Donbass è esplosa la guerra civile sulla scorta dell’auto proclamazione di due entità indipendentiste russofone: le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. I successivi accordi di Minsk (2014; 2015) sono stati il tentativo da parte di Russia, Ucraina, Ocse, Francia e Germania di annacquare il conflitto.

Lungo questa fase, Bergoglio incontrando in Vaticano sia Vladimir Putin (2015; 2019) che i presidenti ucraini Petro Poroshenko (2015) e Volodymyr Zelensky (2020) si è appellato ufficialmente al rispetto degli accordi stipulati nella capitale bielorussa. Persino durante lo storico incontro del 2016 a L’Avana con il patriarca di Mosca, Kirill II, ha firmato una dichiarazione congiunta che prevedeva l’impegno delle due Chiese a favore della pace in Ucraina. Insomma, Bergoglio conosce perfettamente quanto sta covando in Europa dell’Est e quanto la situazione stia divenendo sempre più pericolosa.

A differenza dell’opinione pubblica occidentale, fortemente distratta dalla pandemia da Covid 19, il Pontefice tiene il punto sul dossier ucraino e, ben prima del 24 febbraio, richiama pubblicamente l’attenzione (12 e 25 dicembre 2021) sul rischio che il conflitto possa allargarsi in maniera indefinita. Non ci sarà nulla da fare, purtroppo: la guerra arriverà lo stesso.

Appena appresa la notizia dell’ingresso dei carri armati in Ucraina, Bergoglio manifesta il proprio dissenso contro il governo di Putin presentandosi  – letteralmente – al portone dell’ambasciata della Federazione Russa presso la Santa Sede per consegnare un messaggio perentorio, ma inascoltato: «Fermatevi!». A questo punto, tenta come può di instaurare un dialogo con il patriarca di Mosca. Ma le incomprensioni sono tante, persino teologiche. Sono tanti anche gli attriti con il mondo ucraino, che ritengono inopportuni i tentativi di aprire dei canali di dialogo con i russi e di lanciare dei segnali di pace. Indicativa, in tal senso, è la vicenda della via crucis al Colosseo con il Papa che chiede una riflessione di condanna alla guerra a due donne, una di nazionalità russa e l’altra ucraina. Un gesto sanzionato, immediatamente, dall’ambasciatore di Zelensky presso la Città del Vaticano. Bergoglio, però, non intende fare passi indietro. E insiste.

Due uscite del Pontefice, in particolare, qualificano la postura della Santa Sede nel conflitto. La prima è quando ha stigmatizzato la decisione del governo tedesco di avviare un massiccio piano di riarmo bellico con un più che eloquente «Pazzia!». La seconda – ripetuta più volte – tira in ballo le responsabilità indirette del blocco euro-atlantico nella crisi ucraina evocando l’immagine rumorosa «dell’abbaiare della Nato alle porte della Russia». Un’uscita riferita al progressivo allargamento dell’Alleanza Atlantica ai paesi dell’ex mondo socialista. Le tappe: nel 1999, aderiscono Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca; nel 2004, è la volta di Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia e delle repubbliche ex sovietiche di Lituania, Lettonia ed Estonia; nel 2009, aderiscono Croazia e Albania; il Montenegro entra nel 2017, mentre la Macedonia lo farà nel 2020. Con i moti di Euromaidan e la fine traumatica della presidenza di Viktor Yanukovich, nel 2014, l’Ucraina dice di fatto addio all’area d’influenza russa e si avvicina al blocco occidentale. Gli eventi bellici, con i massicci investimenti in armi, segnano l’adesione di fatto alla Nato; mentre Svezia e Finlandia, paesi storicamente neutrali, sono entrati a farne parte dal 2023 sulla scorta della guerra scatenata da Putin.

Bergoglio riferirà che quell’espressione non sia affatto sua, ma sia stata partorita da un capo di Stato, in privato, nei mesi precedenti il conflitto. Ci sono motivi ragionevoli per ritenere – vedi il Dramma di Caino e Abele. La guerra tra russi e ucraini (Algra, 2023) – che la paternità di quell’immagine possa essere attribuita al presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, già ministro della Difesa (1999-2001) formatosi all’interno della corrente morotea della Democrazia cristiana. Del resto, anche altri esponenti del centrosinistra italiano hanno espresso, negli anni, riserve sul dossier dell’allargamento a Est della Nato. Fra questi, gli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Romano Prodi.

L’immagine dei cani, venuta fuori la prima volta durante l’intervista al «Corriere della sera» del 2 maggio 2022, è servita a fornire una lettura autorevole e alternativa circa le cause del conflitto ucraino. Perché, nei primissimi mesi della guerra scatenata dal Cremlino, soprattutto sugli organi di stampa italiani, le analisi sono rimaste impantanate sui soli eventi del 24 febbraio e le relative atrocità, perdendo di vista però il contesto generale e sanzionando chiunque abbia espresso posizioni non esattamente allineate a quelle del governo in carica. Esemplificativo, in tal senso, è il caso divampato con la pubblicazione, sempre sul giornale di via Solferino, dell’articolo a firma di Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini dal titolo «La rete di Putin in Italia: chi sono influencer e opinionisti che fanno propaganda per Mosca», che segnala i nomi di quanto sono sotto la lente d’ingrandimento dei servizi di sicurezza per le critiche alle politiche pro Ucraina, fra questi giornalisti freelance, economisti e sociologi.

Perché, dunque, le parole del pontefice sono risultate e risultano ancora spiazzanti? Perché denunciano come, nel conflitto in Ucraina, agiscano attivamente altre entità oltre ai governi di Mosca e Kiev. Perché ha chiarito che il conflitto va ben oltre la dialettica degli aggressori e degli aggrediti. Bergoglio è consapevole che gli asset globali siano mutati e che gli equilibri geopolitici mondiali siano entrati da tempo in fibrillazione, anche per l’emergere di nuove potenze globali, come la Cina, che non è più la nazione sostanzialmente povera che aveva vinto la Seconda guerra mondiale non senza affanni e lacerazioni. Il problema vero è comprendere a quale prezzo verrà trovato il nuovo equilibrio.

La guerra fratricida tra russi e ucraini sembra la prima tappa di un resa dei conti che potrebbe rivelarsi drammatica per l’intera umanità. Intanto, sebbene non esista alcun dato ufficiale circa il numero dei morti dal 24 febbraio 2022, gli analisti avanzano la proiezione delle «500.000» vittime tra civili e i militari di entrambi gli eserciti. Una cifra enorme. Giovedì 7 settembre 2023, incontrando i rappresentanti del Parlamento europeo, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha dichiarato: «Nell’autunno del 2021 il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la Nato firmasse l’impegno a non allargarsi più. Naturalmente non lo abbiamo firmato. Era la precondizione per non invadere l’Ucraina. Voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la Nato dall’Europa Centrale e Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Lo abbiamo rifiutato e lui è andato alla guerra, per evitare di avere confini più vicini alla Nato. Ha ottenuto esattamente l’opposto: una maggiore presenza della Nato nella parte orientale dell’Alleanza». Parole che, in traslucido, confermano la posizione di chi ritiene che un ulteriore sforzo diplomatico avrebbe potuto evitare la catastrofe ucraina e salvare tante vite umane. Evidentemente, però, la partita è ben più grossa e la pallina scorre sul piano inclinato della guerra.

Il linguaggio del Pontefice intende insomma puntare alla luna, rinunciando alla tentazione di fermarsi al dito per incassare un consenso di comodo non utile alla sua missione storica. Il presunto fallimento presentato all’Immacolata merita tuttavia di essere letto in una chiave totalmente nuova, a partire da quanto avvenuto nel secondo anno di una guerra non ancora conclusa. Fondamentale è la discesa in campo del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ma anche e soprattutto sacerdote proveniente dalla Comunità di Sant’Egidio, realtà impegnata nella difficile mediazione che nel 1992 portò alla fine, dopo 17 anni sanguinosi, della guerra in Mozambico. Il papa lo ha chiamato a gestire un dossier assai delicato, non quello della pace tra russi e ucraini (impraticabile, per il momento), ma quello relativo alla possibilità di aprire un varco affinché ci possano essere almeno le precondizioni di un dialogo tra le parti facendo leva, innanzitutto, su interventi concreti di carattere umanitario. Una missione che non investe direttamente la diplomazia vaticana, a cui i governi – compreso quello italiano – guardano tuttavia con estremo interesse, anche per tentare di trovare una soluzione a un conflitto che, una volta divampato, è difficile arrestare non senza scatenare conseguenze ingestibili.

Zuppi è stato accolto a Kiev (5-6 giugno), Mosca (28-29 giugno), Washington (17-19 luglio) e Pechino (13-15 settembre). Quattro tappe che mettono in evidenza quello che era chiaro sin dall’inizio: cioè che la crisi in corso sia davvero di caratura globale e che in campo ci sono più cancellerie in attrito e concorrenza tra loro. Il dato che al momento sembra essere certo è che non sarà la Santa Sede a concludere alcun accordo di pace, un esito dettato anche da ragioni ecumeniche e dalle lacerazioni emerse tra le Chiese orientali. Una consapevolezza paradossale che fa sì che la missione di Zuppi possa avere maggiori spazi di manovra, perché libera dall’ansia del risultato e dal sospetto di volerci mettere il cappello.

Dal 7 ottobre 2023, il ritorno della guerra tra israeliani e palestinesi ha messo nuovamente in crisi il contesto globale e mobilitato le cancellerie per evitare l’escalation. «La terza guerra mondiale a pezzi», come suggerisce il gesuita Antonio Spadaro, sta conoscendo delle «saldature» sempre più evidenti e preoccupanti. Il pontefice ha rilanciato il progetto «dei due popoli e due stati» ed è tornato a chiedere il «cessate il fuoco!».

«Come si fa la pace?», ha chiesto il 7 novembre scorso un bambino a papa Francesco. «Si fa con la mano tesa, sempre cercando di coinvolgere le altre persone e di andare assieme», ha risposto Bergoglio. Ecco, insomma, la sintesi di come Francesco intende promuovere la fine dei conflitti: con il dialogo. Ma per dialogare serve volontà e spirito di verità. Senza questi, ogni iniziativa può risultare ambigua. «Si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione», ha scritto nell’enciclica Fratelli tutti (2020) condannando le ipocrisie di tanti governi nel recente passato. Un atto d’accusa che, se calzato ai conflitti in corso, ci dice come il discrimine tra i buoni e cattivi non solo non aiuta a capire come stiano davvero le cose, ma rischia di incendiare ancor di più le trame e confinare ogni dialettica dentro campi dove le mediazioni di pace non hanno alcun diritto di cittadinanza. Ecco la lezione del pontefice. La chiarezza. Un insegnamento che fa il paio con uno strumento tanto caro ai gesuiti: il discernimento.

Fernando Massimo Adonia

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