TRAMONTO DELLO STATO DI DI DIRITTO
Dal punto di vista del governo dopo i provvedimenti dei tribunali di Catania, Firenze, Potenza (e magari qualche altro aggiuntosi nel frattempo) la separazione delle carriere fra magistrati requirenti e giudicanti ha perso molto d’importanza e significato mentre resta importante per i cultori del processo accusatorio “puro”, alla Perry Mason, e, soprattutto, per gli avvocati penalisti, che ne fanno una questione di lavoro e dignità professionale.
Intendiamoci. Quella parte del mondo politico che ne è sempre stato promotore non vi rinuncia, e anzi rimprovera al ministro della Giustizia un eccesso di lentezza, ma adesso si tratterebbe soltanto di una scorciatoia, in quanto già assimilata dall’opinione pubblica come una possibilità/probabilità, per giungere alla vera questione: il rapporto fra potere politico e potere giudiziario. Un rapporto fin qui caratterizzato da una indipendenza del secondo rispetto al primo e ritenuto non più conforme alle esigenze dei tempi, ai fenomeni che li caratterizzano e che – si afferma – possono essere affrontati e risolti solo da uno Stato compatto in tutte le sue articolazioni. Una compattezza che esige il riconoscimento del ruolo di guida del potere esecutivo. L’autonomia del potere giudiziario, che può essere accettata e perfino apprezzata quando si tratta di decidere della colpevolezza o dell’innocenza degli imputati di reati comuni o dei rapporti fra privati, viene considerata non più tollerabile quando si tratta delle linee direttrici della politica dello Stato.
Il fenomeno dell’esecutivo che tende ad usurpare le prerogative e le competenze degli altri poteri è comune a tutte le democrazie europee e, probabilmente grazie all’esempio dell’Unione Europea, dove lo spazio concesso ai principi di Montesquieu non è grande, ha avuto quasi ovunque successo nei rapporti col legislativo attraverso l’affermarsi di un non costituzionalmente previsto “potere politico”, che, mescolando, senza eccessivi strappi costituzionali, attraverso la democrazia dei partiti esecutivo e legislativo, assicura inevitabilmente la prevalenza al primo, più agile e rapido non solo nell’eseguire, ma anche nel decidere. Almeno in Italia il certame è più duro col potere giudiziario, la cui autonomia dagli altri poteri è stata garantita con particolare attenzione dai Costituenti e che trae forza, per quanto strano possa a prima vista sembrare, dalla sua natura di potere diffuso, che, pur senza rinunciare all’aspirazione dell’uniforme interpretazione della legge, rende non solo di fatto inevitabile, ma perfettamente legittimo. che si abbiano soluzioni diverse per situazioni (apparentemente) uguali quanto meno durante il normale iter processuale della fase di merito e fino al dictum finale della Cassazione, cui spetta il compito di realizzare (tendenzialmente) l’unità del diritto oggettivo nazionale.
Le difficoltà non sembrano avere scoraggiato il Governo, che persegue il fine della uniformitizzazione e centralizzazione anche della giurisdizione in forme sia soft, per così dire sotto traccia, sia hard. Le prime sono affidate, più che direttamente al Ministro della Giustizia, ai suoi collaboratori, che, formalmente muovendosi nell’ambito dell’art. 110 Cost., colgono, attraverso circolari, modelli, schede, le opportunità offerte dall’adeguamento al processo telematico e alle riforme processuali, in primis la “Cartabia”. A quest’ultima fanno riferimento tre circolari del 2022, che il Ministro ha giustificato appunto con l’intento di “accompagnare gli uffici giudiziari nell’avvio dell’attuazione concreta della riforma predisponendo un corredo di circolari tematiche che, con uno stile espositivo volutamente sintetico e graficamente orientato sui punti fondamentali possano costituire una sorta di “manuale d’uso” delle novità della riforma”. Si dà per scontata – osserva il processualista Giuliano Scarselli nel suo “Brevi note sul dimenticato art. 110 Cost.” – la necessità di una maggiore efficacia nell’amministrazione della giustizia e da questa si fa discendere “la necessità, a cascata, di una maggiore uniformità che tende inevitabilmente a valorizzare il ruolo del Ministro della Giustizia” con la conseguenza che “la giurisdizione è così sempre meno un potere diffuso, il pluralismo rischia di porsi in contrasto con il PNRR, e una certa gerarchizzazione della magistratura è vissuta oggi non tanto come un ritorno al passato, bensì come qualcosa che ci chiede l’Europa per ridurre l’arretrato”.
Come si è detto forme soft di intervento, che sembrano però giustificare l’opinione di Scareselli che, dopo averle descritte più analiticamente di quanto si sia fatto, con estrema sommarietà, qui, ritiene di poterne dedurre che si sia intrapreso “un percorso verso una trasformazione del nostro quadro costituzionale della giustizia”. Un percorso che, come avviene per ogni mutamento nelle democrazie, procede passo passo, ma che lascia comunque intravedere come “vi siano in atto dei passi per immaginare dei nuovi giudici, più uniformi, più gerarchizzati, e meglio diretti dal Ministro della Giustizia”.
Se poi sussiste qualche dubbio, a dissolverli provvedono le forme hard, in particolare attraverso insistenti e violente campagne mediatiche, che fino ad oggi hanno riguardato soprattutto la magistratura requirente (casi Craxi e Berlusconi), ma che proprio adesso, investendo l’intera magistratura e in prima linea quella giudicante, rivelano l’intento di normalizzarla col rivedere funditus il sistema di ripartizione dei poteri dello Stato. Al riguardo in un interessante scritto (“Fortezze Italia e Usa alla prova della democrazia”) Elisabetta Grande, professoressa di diritto comparato, scrive che “di fronte a un esodo massiccio di esseri umani in cerca di sopravvivenza che mette in crisi New York come Lampedusa, è in particolare il principio della separazione dei poteri che – tanto negli Stati Uniti quanto in Italia – oggi si scioglie come neve al sole. In entrambi i casi un esecutivo eccedente usurpa o tenta di usurpare le prerogative altrui, pur di arrestare il flusso di chi cerca aiuto oltrepassando i confini nazionali.(…). Si tratta della pretesa di sovranità assoluta da parte del governo in carica, che sconfina allegramente sulle attribuzioni altrui – rispettivamente, nei due casi, ai danni del potere legislativo e del potere giudiziario- pur di imporre la sua volontà”. Si tratterebbe, quindi, non solo dell’Europa, ma dell’intero Occidente.
In ogni caso almeno in Italia, la pretesa in questione è molto più risalente nel tempo e il fenomeno migratorio rappresenta solo l’occasione per la fase hard di un progetto già in essere. Una fase hard estremamente rivelatrice del fine cui si mira (diciamo i “pieni poteri” dell’esecutivo). Difatti, indipendentemente dall’esattezza giuridica dei provvedimenti contestati in ordine al “trattenimento” di alcune categorie di richiedenti la protezione internazionale (anche chi scrive ha qualche dubbio al riguardo, ma esiste il rimedio del ricorso per Cassazione), l’accusa rivolta ai giudici che li hanno adottati è di non avere fatto fronte comune con il governo nella difesa, se non della patria (termine fuori moda), del popolo italiano, addirittura di essere “nemici degli italiani”. Non è eccessivo dire che il governo si è comportato come se il cosiddetto “Decreto Cutro” (D.L n. 20/2023, “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione i contrasto all’immigrazione irregolare”) non sia un normale testo normativo, in quanto tale soggetto, su richiesta degli interessati, alla normale attività interpretativa dei giudici, ma un ordine superiore, che il pubblico dipendente, giudice e burocrate, è tenuto semplicemente (e rispettosamente) ad eseguire.
Francesco Mario Agnoli