I nuovi mostri, come i cinefili ben sanno, è un film del ‘77 a episodi per le regie di Monicelli, Risi e Scola, remake de I mostri, un precedente film di Risi. Entrambi con un sottofondo e un sottotesto di sinistra, se non di estrema sinistra, volto a catechizzare per via anestetica il ceto medio conservatore e consolidare per mezzo di immagini caricaturali l’egemonia culturale del PCI.
Però, se la destra, oggi culturalmente e mediaticamente quasi inesistente, per insipienza e mancanza di coraggio, ma anche per via de l’opprimente Cappa (copyright Marcello Veneziani) dell’ormai totalitaria dittatura culturale della sinistra, avesse le risorse, i talenti e il coraggio di raccontare l’attualità, avrebbe modo di caricaturizzare alcune figure che la fangosa marea dominante progressista ha spiaggiato sulla nostra società, che incrociamo ogni giorno e che sono le protagoniste di quel terribile conformismo che è l’alleato principale della dittatura soft (ma non sempre soft, come il caso delle disposizioni e degli atti liberticidi con l’alibi della pandemia ha dimostrato) che oggi domina le nostre vite e conculca le nostre libertà. Chiamiamoli, questi personaggi attuali, i nuovi mostriciattoli. Proviamo a descriverne alcuni.
La sciuretta in bicicletta. E’ tipicamente milanese ma, mutatis mutandis, alligna anche in altre parti del paese, Roma inclusa, anche se, nella città dei sette colli, l’uso della bicicletta, se non elettrica, è assai più problematico. La sciuretta in bicicletta è ovviamente di ottima famiglia, per origine e/o per matrimonio, vive nella zona centrale, variamente denominata: area C a Milano, ZTL in altre località. Se romana, la sua casa non è priva di una socializzante e festaiola terrazza. Non conosce le periferie, che per lei sono aree hic sunt leones, infrequentabili. Appartiene manifestamente a quella sotto-classe che Tom Wolf definì radical-chic e che in Francia vengono denominati bo-bo, bourgeois-bohème o gauche caviar. E’ quindi naturaliter di sinistra, spesso di estrema sinistra, ovviamente antifascista, antirazzista, femminista, a favore dei cosiddetti “diritti civili”, anche se, interrogata, non sa bene quali siano, a parte l’aborto, di cui è fanatica (e in qualche caso anche interessata) sostenitrice. Frequenta solo persone della sua ideologia. “Quelli di destra” secondo lei meritano solo disprezzo. Talvolta dismette i capi firmati e, travestitasi da tarda-sessantottina, partecipa a qualche corteo di protesta. La sfilata ha su di lei un effetto terapeutico: “mi ringiovanisce”. Se vive a Milano vota e prova un entusiasmo quasi infantile, o pre-senile, per il sindaco Sala: a Roma, per Gualtieri, ovviamente. Ma la caratteristica principale di questo personaggio è l’ecologismo (qualche detrattore direbbe: “da salotto”): la bicicletta è la manifestazione, il simbolo, lo strumento del suo essere green (ovviamente è semi-vegana e mangia bio, lei può permetterselo). Una bicicletta scassata (perché “fa sinistra”), con cestinetto anteriore in cui riporre, in bella vista, la Repubblica. Talvolta un mazzetto di fiori finti e un cartello con la scritta No oil. Non vuol dire assolutamente niente, ma lei è convinta che si tratti di una dichiarazione rivoluzionaria. Naturalmente scorrazza impunita sui marciapiedi, imbocca le strade contromano e passa col rosso. Lo ritiene un suo diritto per censo e poi perché è convinta di appartenere, per via dell’uso del biciclo, ai Eco-Salvatori della Terra. Ovviamente, nel box ha un suv e una seconda auto; “ma le usiamo pochissimo”, si giustifica. Altrimenti come potrebbe andare a “Santa” (per il volgo: Santa Margherita Ligure) o a “Forte” (per il volgo: Forte dei Marmi). Se milanese, ogni volta che l’eco-bolscevico sindaco Sala, che ha in odio la libertà di movimento e i veicoli privati perché privati, introduce nuove disposizioni liberticide contro le auto, lei si sdilinquisce e ha un orgasmo ideologico. Tanto lei i mezzi pubblici non li usa: sulle lunghe distanze urbane usa i taxi o, meglio ancora, l’NCC di fiducia, il “noleggio con conducente” dicendo dell’autista: “è tanto bravo e poi ha una macchina comoda”. D’altronde non si può andare a fare shopping su una bicicletta con un cestinetto di pochi centimetri cubi. Di norma non lavora, al massimo “dà una mano”: “do una mano a mio marito in studio”, oppure: “do una mano a un’amica che fa l’interior designer”. Non s’indaghi su cosa esattamente significa “dare una mano”. Ama svisceratamente gli immigrati, meglio se clandestini, ma ovviamente a distanza. Però ha una “colf” (le sciurette in bicicletta sono le uniche a usare questo termine anni ’80) filippina, di cui dice, sospirando: “è inutile, bisogna dirle proprio tutto. Però è brava, non ruba.”
Il collotorto di parrocchia. Molte parrocchie stanno scomparendo per accorpamento, causa la mancanza di preti, categoria in via di estinzione dopo il concilio, la riforma dei seminari, la “neo chiesa” bergogliona e la loro trasformazione da sacerdoti (non dimentichiamo che un sacerdote è, nella S. Messa Vetus Ordo, l’Alter Christus) in “operatori sociali”, para-sindacalisti e accoglitori/raccoglitori di clandestini. In compenso, nel sessantennio postconciliare, sulla base del dilagare, nella chiesa del modernismo-progressismo, della stramba, prodiana idea di “cattolici adulti” e della sciagurata ideologia del “maggior coinvolgimento dei laici”, si è evoluta la figura del collotorto di parrocchia. Come indica la definizione, lo si trova principalmente nelle parrocchie o in associazioni catto-progressiste come la Caritas e la Sant’Egidio. Vediamo alcune caratteristiche di questa specie. Innanzi il collotorto di parrocchia ha un’adorazione mitico-storica per il Concilio Vaticano II, che ritiene un momento di “liberazione” della Chiesa, anzi, di creazione di una nuova chiesa, anche se non ha mai letto alcuno dei suoi atti. Infatti a ogni minima obiezione anche solo dal vago sapore conservatore verso la neo-chiesa contemporanea sbotta indignato: “ma c’è stato il Concilio!” E’ altrettanto fanatico di Bergoglio, che ritiene il miglior papa possibile. Il collotorto di parrocchia è entusiasta delle variazioni alla messa conciliare come quelle al Gloria o al Padre Nostro e s’indigna quando le vecchiette dicono ancora “e non ci indurre in tentazione” anziché il novatore e teologicamente discutibile “e non ci abbandonare alla tentazione” e volutamente, a questo passo della preghiera, alza la voce. Non ha capito fino in fondo il senso del cambiamento ma il nuovo testo gli sembra “più buono”. Infatti il buonismo è un’altra caratteristica del collotorto di parrocchia: non per nulla è un fanatico immigrazionista e vorrebbe che la parrocchia ospitasse tutti i clandestini possibili. Naturalmente vota per il PD, qualche volta ancora più a sinistra. Il collotorto di parrocchia ama a messa i canti ritmati dai battimani e con tamburelli e sonagli e apre sempre, misticamente ispirato, le braccia al Padre Nostro. Se femmina, le piace leggere le Scritture alla cosiddetta “liturgia della Parola”: la neo-chiesa è infatti dimentica del monito di san Paolo: “Mulier taceat in ecclesia”. Per lui il culmine della messa è il momento dello “scambiatevi un segno di pace”. Lo fa con tutti quelli seduti al suo banco, poi con quelli del banco davanti e con quelli del banco di dietro. Ispirato dal suo afflato buonista, in epoca pre-covid avrebbe stretto la mano a tutto il mondo con mano molliccia e sorriso ebete. Il collotorto di parrocchia prova una torbida passione per la bandiera arcobaleno, simbolo di patologie intellettuali e no. La metterebbe ovunque, in parrocchia, anche in chiesa. Altra sua insana passione è quella per il cretinismo del commercio equo-eco-solidale, i cui prodotti di bassa qualità e di alto costo ma, secondo lui, “etici”, infligge obbligatoriamente al consumo dei suoi poveri familiari e monopolizzano i suoi regali di Natale, schifati silenziosamente da amici e parenti. Legge poco, ma compra regolarmente Avvenire, anche se è più a sinistra de il manifesto, più antifascista de La Stampa e talvolta più anticattolico di la Repubblica. Come tutti i settari, ha un suo lessico distintivo, che poi è un neo-ecclesialese intriso di sociologismi ben descritto in un bel testo di Marco Manfredini, Piccolo dizionario semiserio del linguaggio ecclesialmente corretto. Si riempie la bocca e riempie i giornaletti parrocchiali con parole come “migrante”, “accoglienza”, “integrazione”, “inclusione”, “accompagnamento”, “ascolto”, “percorso” “cammino” (c’è anche una canzonetta da messa tra la marcetta e lo zumpappà: “il tuo poppppolo in cammiiiino…”), “profetico”, ovviamente “dialogo” (per lui bisogna dialogare con tutti, salvo che con i tradizionalisti), “discernimento”, “fragilità”, il buonista “et/et” da contrapporre al cattivista “aut/aut” (dimentico che san Matteo ammoniva: “il vostro parlare sia sì sì no no”), poi espressioni tipicamente di Bergoglio: “logica dello scarto”, “ospedale da campo”, “curare le ferite”, “cristiani ideologici” (saremmo noi) “musi lunghi” (saremmo sempre noi), “sinodalità”, “conversione ecologica”, “inequità” (non è un refuso). Il collotorto di parrocchia odia il latino e la Santa Messa in latino (quella di sempre), ma quando vuole fingersi colto usa qualche termine greco, spesso raccattati negli anfratti del cosiddetto “monastero” di Bose, come “kénosis”, “kérigma” (attenti all’accento), “karìsma” (o forse sarebbe meglio “chàrisma”?), “parresìa”. Talvolta si confonde, e scambia “kèrigma” con “karìsma”, ma tanto non se ne accorge nessuno.
Il semi-intellettuale progressista
Che l’Italia sia affetta da una cruenta egemonia culturale della sinistra in tutte le sue forme l’ha capito persino l’attuale ministro della Cultura, che però ha detto, spegnendo i sogni, comunque impossibili, dei suoi connazionali di destra, che no, lui non vorrebbe sostituire un’egemonia culturale con un’altra egemonia culturale. Vabbè, almeno le pagine di Gramsci sulla conquista della società civile avrebbe potuto leggersele. Comunque il dominio della sinistra, spesso brutale e censorio, di tutti gli spazi della società che possono modellare le idee collettive, il sentire comune, imporre ciò che è decente e accettabile e ciò che non lo è, ha raggiunto un grado di pervasività così granulare che mai si era visto nella storia culturale italiana: la scuola, l’università, le case editrici, i testi scolastici, i premi letterari, le mostre librarie, le fondazioni culturali, la stampa tutta o quasi, l’informazione televisiva, le fiction di ogni genere, il cinema, gli spot pubblicitari, le radio e poi la magistratura, i sindacati, i centri sociali, le associazioni ecologiste-animaliste, le lobby omosessualiste-genderiste, quelle eutanasiche e abortiste. Gli sciamani/gran sacerdoti di questa opprimente egemonia e dei suoi riti sono i componenti della categoria degli intellettuali che rappresentano l’élite del ceto dominante, più importante ancora dei politici progressisti: direttori dei grandi giornali e delle tv di regime, accademici onnipresenti nei salotti televisivi e no, scrittori vincitori a rotazione dei grandi premi letterari, direttori editoriali delle case editrici, grandi registi, persino qualche alto prelato modernista ed ecumenista. Costoro si conoscono tutti, si invitano a vicenda ai convegni, si scambiano le prefazioni dei loro libri e si auto-incensano l’un con l’altro. La loro super-classe si alimenta per cooptazione, ma ovviamente se non sei di sinistra puoi essere bravo quanto vuoi, ma non entri.
Tuttavia questa casta non potrebbe reggere se non avesse come piedistallo uno stuolo, un “ceto vasto” di sotto-intellettuali di complemento, di diaconi e di chierichetti (nella chiesa di oggi però è obbligatorio dire “ministranti”), di supporter, di lettori entusiasti e di piccoli influencer che aiutano i super-intellettuali nell’officiare i loro riti: sono i semi-intellettuali progressisti. Sono insegnanti di scuola media o superiore (la maggioranza), dipendenti e dirigenti pubblici di medio livello adibiti ad attività più o meno intellettuali, bibliotecari pubblici (andate a chiedere loro di acquistare anche libri e giornali non di sinistra), psicologi delle ASL, assistenti sociali (il caso Bibbiano docet), alcuni pubblicitari (che la categoria si stia spostando a sinistra lo si capisce dagli spot sempre più multirazziali e omosessualisti) e altri. Semi-intellettuali anche perché semi-colti, lettori dei quotidiani di sinistra, adoratori degli scrittori sud-americani terzomondisti e guevaristi, piagnucolose prefiche perennemente commosse dinnanzi agli immigrati, anzi ai “migranti”, compulsivi frequentatori delle presentazioni di libri di autori di sinistra (cioè quasi tutte) e delle conferenze “d’area” alle Case della Cultura, immancabili ai cortei del 25 aprile e ai “concertoni” del 1° maggio (anche se prudentemente defilati dalla calca sudaticcia: un po’ di snobismo è disceso su di loro dai loro ammirati intellettuali a tempo pieno). Però sono coloro che inculcano negli studenti le ideologie più pervertenti, che rubano, come a Bibbiano, i bambini alle famiglie per bene per darle alle “famiglie arcobaleno”, anche allargate, dove faranno una brutta fine, che seguono ciecamente le indicazioni dei grandi circhi dei premi letterari, in mano a critici di sinistra, e sostengono le vendite di libri mediocri di autori mediocri, ma progressisti, femministi, antifascisti, antirazzisti. Sono le dirigenti scolastiche (uno dei problemi della nostra scuola è la quasi totale femminilizzazione del corpo docente) che proibiscono di festeggiare il Natale, che sospendono le insegnanti che fanno recitare un’Ave Maria in classe, che cacciano il sacerdote che, timidamente, vorrebbe benedire i locali della scuola e, magari, anche i suoi frequentatori, che proibiscono di festeggiare la Festa del Papà giustificandosi così (testuale): “Dobbiamo renderci conto che viviamo in una società diversa da quella di 50 anni fa. Non esiste più una famiglia modello”. Anche ammesso, ma non concesso, che sia vero, non si capisce cosa ci sia da festeggiare. Per tutti i semi-intellettuali progressisti la realtà è quella rappresentata dalle fiction delle televisioni pubbliche e private, ove per trovare una famiglia normale devi tornare ai tempi di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini se non a quelli di Bernabei e di Carosello. Ça va sans dire, costoro credono ciecamente al riscaldamento climatico di origine antropica, alla distruzione della foresta amazzonica, alla colpevolizzazione di chi va nei boschi e viene aggredito dagli orsi (“i boschi sono degli orsi, sono gli uomini a essere intrusi”), all’innocenza edenica degli eco-terroristi che attaccano e danneggiano impuniti opere d’arte, palazzi e monumenti.
Anche se non sempre è evidente, la sottospecie dei semi-intellettuali progressisti gestisce un grande potere: influenza le coscienze, gestisce quasi in monopolio la scuola, i programmi scolastici, i testi didattici, tiene finanziariamente in piedi la predatoria “macchina da guerra” dell’intellettualità di sinistra (stampa, case editrici, teatri d’avanguardia, cinema eccetera), è il braccio armato dell’egemonia culturale progressista, fornisce supporto e giustificazione ideologica all’antifascismo più militante e violento e all’ecologismo più becero e vandalico, svolge l’opera di “polizia di complemento”, nei vari campi contro i coraggiosi resistenti (ci sono, ci sono, per fortuna) alla totale egemonizzazione della società da parte della sinistra, sia essa liberal, post-comunista o ecologista. Al contempo il pervasivo potere dei semi-intellettuali di sinistra e la dimostrazione dell’efficacia del lavoro di lungo periodo svolto dai comunisti a partire dal dopoguerra: quell’espugnazione progressiva di quella “catena di fortezze e casematte”, come la definiva Gramsci, che è la società civile nelle sue espressioni istituzionali. Ecco perché, a costo di scandalizzare Gennaro Sangiuliano e parafrasando al contrario Joseph de Maistre, a molti di noi un’egemonia culturale uguale e contraria (e non semplicemente il contrario di un’egemonia) non dispiacerebbe affatto, anche se solo fra cent’anni.
Antonio de Felip
One thought on “I NUOVI MOSTRICIATTOLI. Di Antonio de Felip”
Gentmo de Felip
E’ urgente un articolo strutturato come ” una russofobia che viene da lontano” apprezzatissima esposizione e documentazione.
E quindi – Una Serbiofobia che viene da lontano Grazie infinite
Giovanni