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SOLO COL KINTSUGI SI SALVA IL SUDAN. Di Nikolett Andrea Somogyi

Il costante aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, 30 anni di condizioni di vita dure e le conseguenti manifestazioni su larga scala, hanno condotto ad un’escalation costante che ha reso il Sudan quello che conosciamo oggi.

Il tasso di crescita del PIL è rimasto fermo allo 0,5% nel 2021, dato anche piuttosto positivo rispetto al -3,6% degli anni precedenti, data anche l’arretratezza del sistema economico basata quasi esclusivamente sull’agricoltura e sull’industria mineraria. L’inflazione, già fuori controllo, è più che raddoppiata: dal 163,3% nel 2020 è passata al 358,9% nel 2021 a causa della svalutazione e della rimozione dei sussidi per il carburante. Ci si aspettava una ripresa per il biennio 2022-2023, derivata dagli ambiziosi progetti di stabilizzazione politica ed economica del paese, qualcosa di utopico rispetto le condizioni odierne. A livello internazionale, negli ultimi decenni il Sudan si era ritrovato isolato: tra sanzioni ed embarghi posti dall’ONU e dagli Stati Uniti, Khartoum non aveva alcuna libertà di manovra. Questo contesto lo ha spinto verso l’unico partner internazionale che si fosse offerto di aiutarlo, o che comunque fosse capace di farlo, cioè Mosca, il cui rapporto bilaterale era già basato su una proficua collaborazione nell’ambito degli equipaggiamenti militare. Il Sudan è il terzo produttore nel proprio continente, ma le forniture russe sembravano lo stesso interessanti per Karthoum.

Al-Bashir, precedente presidente del Sudan per 30 anni (spaccati) nel Sudan, è stato esautorato con un colpo di Stato da parte dei militari nel 2019. Durante il suo “mandato”, ha sempre avuto una visione netta su Washington, irremovibile anche di fronte ad offerte americane succulenti: «L’America è riuscita a dividere il Sudan in due paesi e ora sta cercando di dividerlo ulteriormente. Crediamo che quanto accaduto nel nostro paese sia il risultato della politica americana». Il Sudan si è stato l’alleato che la Russia non si sarebbe mai aspettato, ma nel tempo si è rivelato addirittura parecchio proficuo: «Ciò che sta accadendo nel Mar Rosso ci preoccupa e crediamo che anche l’intervento americano in quella regione sia un problema che vogliamo discutere dal punto di vista dell’uso delle basi militari nel Mar Rosso». Nel 2017 al-Bashir ha incontrato Putin a Sochi, in Russia, per chiedergli protezione da quella che lui definì “aggressione statunitense”, aiuto che il Presidente russo non gli ha negato. In cambio, l’allora presidente sudanese gli ha promesso concessioni minerarie, in particolare di oro, e una posizione strategica nel Mar Rosso, più precisamente a Port Sudan, uno dei punti più strategici e rilevanti sulle coste sudanesi. Mosca negli anni successivi ha investito nella modernizzazione e nello sviluppo dell’energia nel paese: grazie alla firma sono stati avviati le mappature mineraria nazionali e la costruzione di un centrale nucleare con la consulenza dei tecnici russi. Col tempo, la collaborazione si è espansa anche in altri settori, come in quello industriale, dei beni agricoli, in quello militare (già con una buona base di partenza), ma soprattutto in quello diplomatico. Mosca ha supportato il Sudan nella sua battaglia internazionale contro le sanzioni economiche subite e nella cancellazione di suoi debiti esteri. Dati questi ottimi rapporti tra al-Bashir e Putin, fu un tasto dolente per quest’ultimo la ribellione che si creò a Karthoum, con la conseguente dimissione del capo di stato sudanese: nonostante ciò, le ingerenze nella politica interna dell’ex presidente non finirono in quel momento, in quanto al-Bashir ebbe un ruolo rilevante, anche se indiretto, nei disordini del 2023.

Gli Stati Uniti sottovalutarono l’importanza che tale regione potesse rappresentare, soprattutto dall’amministrazione Trump; Biden ha nominato Jeffrey Feltman come “inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa”, ma l’approccio degli altri soggetti internazionali si è dimostrato molto più diretto ed efficace. Dalla destituzione di al-Bashir, le autorità di Karthoum si sono svuotate della loro componente militare lasciando spazio a quella civile, imponendo nel processo una visione più vicina a quella occidentale. Tale posizione internazionale non era inaspettata, ma anzi quasi scontata, data la sua condizione per la rimozione delle sanzioni statunitensi e la riduzione del debito, obiettivo tanto desiderato dal Sudan. Tale cambiamento ha portato anche alla rivalutazione dell’accordo militare riguardante Port Sudan, cosa che ha raffreddato i rapporti con Mosca. L’approccio dell’Occidente fa sì che ci sia una netta separazione tra la componente militare e quella civile, ma facendo così si sono peggiorate le fratture già esistenti, peggiorando il contesto interno, senza che gli strumenti fossero poi adeguati: con gli ultimi sviluppi, l’Occidente ha cercato di mirare le sanzioni “solo alla componente militare”, criminalizzando e colpevolizzando solo questa, ma l’azione è però complessa e, di fatto, quasi impossibile. La creazione di un capro espiatorio a cui addossare tutta la colpa fa perdere di vista l’obiettivo finale della ricerca della pace e della stabilità nazionale: un obiettivo che ormai sembra illusorio. In stati come il Sudan, gli apparati civili esistono grazie ai militari, e i militari esistono solamente con il sostegno degli apparati civili: è una relazione imprescindibile che una volta eliminata porterebbe alla pura anarchia. Bisogna osservare da più lontano tale contesto per averne un quadro chiaro: l’Occidente interpreta ogni azione russa come personale… peccato però che il pendolo sia partito dalle interferenze di Washington, che spaventarono Karthoum fino a spingerla da Mosca, la quale intervenne in Sudan; fu questo che risvegliò le passioni degli occidentali e causò il riavvicinamento, il cui prezzo però è l’espulsione della Russia dal territorio sudanese. Sceneggiatura meritevole delle peggiori Soap Opera americane.

Il Dopo al-Bashir, tra due litiganti il terzo bombarda

Nell’aprile del 2019, una volta destituito il Governo Nazionale di al-Bashir, ed imposto lo stato d’emergenza, il generale Ahmed Awad Ibn Auf, si autoproclama Capo di Stato, infuocando ancora di più le tensioni in Sudan, nonostante il Consiglio Militare fosse formalmente transitorio. La sua amministrazione ebbe vita breve: poco meno di 24 ore. A causa delle manifestazioni che divennero incontrollabili, soprattutto dopo la sua dichiarazione di rifiuto nel consegnare l’ex presidente al-Bashir alla Corte penale internazionale. Nel suo ruolo venne poi sostituito dal generale Abdel Fattah al-Burhan, il quale rimase presente nella politica sudanese fino ai giorni nostri. Nell’agosto del 2019 inizia l’effimera esperienza del Consiglio Sovrano del Sudan, durata fino al colpo di Stato dell’ottobre 2021. Tale istituzione fu un organo collettivo tra i militari del Consiglio Militare di Transizione (TMC) e i civili della Forza dell’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento (FFC), con Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione al-Burhan, con a suo fianco Mohamed Hamdan Dagalo (meglio conosciuto come Hemedti) come Vicepresidente. Nel novembre del 2021, al-Burhan, mise in atto un colpo di Stato arrestando la componente civile, includendovi il primo ministro Abdalla Hamdok, successivamente rilasciato ma sotto stretta sorveglianza.

Una volta interrotto il governo di transizione ed imposto lo stato d’emergenza, il gruppo FFC, insieme alla Sudanese Professionals Association (SPA), chiamò la popolazione alla resistenza e alla disobbedienza civile. Tale blocco nazionale portò alla negoziazione dello status quo ante golpe tra il presidente al-Burhan e il primo ministro reintegrato, Hamdok, che includeva come obiettivo anche la restaurazione del Consiglio Sovrano del Sudan e il ritorno agli steps previsti dal “processo di democratizzazione”. Ormai, tale soluzione non andava più bene alla componente civile rappresentata soprattutto dal FFC e dal SPA. Fu così che avvenne la completa rottura tra il fronte dei militari e quello dei civili, quest’ultimo spaccato ulteriormente, dato che una grossa maggioranza respinge perfino un qualsiasi tipo accordo o negoziazione con l’esercito. Le proteste continuano tutt’oggi, mediamente con cadenza settimanale, subendo però una certa frammentazione e indebolimento nel tempo, dato che al-Burhan si è detto favorevole nel luglio 2022 a cedere il passo a un governo civile, ma ormai anche i manifestanti, divisi, non riuscirono a darne una risposta concreta e comune.

Nell’aprile del 2023 la situazione è esacerbata, fino a quando le Forze rapide di Supporto (RFS), forze paramilitari sudanesi de facto parallele a quelli nazionali, guidate dal ex Vicepresidente del Consiglio Sovrano di Transizione Hemedti, sono intervenute. La parte significativa di questa parentesi aperta dalle forze del RSF, è che questi rappresentano una forma ristrutturata dei janjāwīd, i miliziani filogovernativi dall’epoca della guerra civile del Darfur. Nel 2003, l’attacco del Sudan Libeartion Army (SLA) e del Justice and Equality Movement (JEM), e la distruzione di una base aerea sudanese, e la morte di 70 soldati, ha fatto sì che il governo ne rispondesse con il reclutamento dei janjāwīd (letteralmente “pistolero a cavallo”, anche se preferiscono essere chiamati mujāhidīn, “quelli impegnati nel jihād”). Nei primi tre anni di conflitto, migliaia di villaggi sono state distrutte, dislocando circa 2.3 milioni di persone e causando la morte di 280 mila cittadini (una parte delle morti avvenne per cause ambientali, come per fame o malattie, ma pur sempre legate alla guerra civile). Il ricordo del popolo sudanese dei janjāwīd rimase un tasto dolente anche dopo un decennio, eppure, dalle loro dichiarazioni, sembrano partecipare alle proteste in sostegno della parte civile: il loro obiettivo in questo contesto sembra quello di cercare di cancellare, o almeno migliorare, la loro vecchia reputazione di “brutali mercenari del governo”. Finora le proteste popolari cercarono di rimanere, almeno formalmente, di stampo “pacifico”, ma l’intervento delle RSF sì rivelerà la spinta necessaria affinché i civili ottengano ciò che vogliono, o creeranno solo più disordini di quelli che la popolazione era già obbligata a subire? Oggi, le relazioni tra civili, l’esercito nazionale e le RSF possono essere rappresentati dal detto storpiato che “tra i due litiganti, il terzo sgancia le bombe”: forse il detto originale non era così, ma questa versione sembra più adeguata al Sudan di oggi. Attualmente, la situazione intorno Karthoum è sfociata in uno stallo semi-anarchico, poiché nemmeno le informazioni riguardanti i siti chiave occupati riescono a trapelare o non derivano da fonti sicure: ad oggi, l’informazione più attendibile riguarda l’occupazione, da parte delle forze RSF, dell’aeroporto della città.

La narrazione della crisi in Occidente

Attualmente, gli Stati occidentali hanno iniziato a richiamare i propri cittadini dati i disordini della capitale. Forse, è a causa dell’“effetto Kyiv” che le nazioni si sentono in dovere di reagire frettolosamente, temendo un bombardamento sulla città più greve? Tra l’altro, tali azioni precauzionali saltano all’occhio data la loro incoerenza rispetto ai precedenti storici. Considerando soltanto gli ultimi anni, la guerra civile con il Sud Sudan si è protratta dal 2013 fino al 2020: se è vero che i combattimenti erano sulla linea del confine statale, bisogna considerare che Khartoum è solamente a poco più di 350km dal confine sud-sudanese, quasi a 6 ore di macchina. In quell’occasione solamente alcune e le più rilevanti ambasciate vennero evacuate, e si riteneva più gestibile la situazione rispetto ad oggi. In caso di un contrattacco efficace di Juba, l’esercito sud-sudanese avrebbe potuto occupare la capitale in nemmeno un giorno, eppure, tra le due situazioni, quella del 2023 sembra più a rischio di un conflitto totale. Probabilmente, l’intervento delle RSF era inaspettato, e sapendo dei loro precedenti, viene percepita come una forza armata poco flessibile, poco tendente alla negoziazione, ma dal 2021 in poi, il senso d’emergenza delle nazioni è diventato più sostanziale, quasi per paura di “non aver previsto il peggio”. Un dettaglio però passa poco sotto i riflettori, che forse spiega le reazioni aggravate dei diplomatici: il Laboratorio nazionale di sanità pubblica del Sudan è stato conquistato dalle forze del RSF. L’Organizzazione mondiale della sanità ha già emesso un allarme data la presenza di virus isolati ed attivi. Beh, se prima si parlava di “effetto Kyiv”, sicuramente l’allarmismo dell’“effetto Covid” non poteva mancare. Non si può dire che le probabilità di una nuova pandemia non ci siano, ma sembrano eccessivamente allarmanti le reazioni dei soggetti internazionali rispetto alle questioni interne.

Il Sudan e la Cina

Molte analisi parlano di un possibile avvicinarsi tra Beijing e Washington in merito all’impedire ulteriori deterioramenti nel Sudan: diciamo che a nessuno delle due superpotenze converrebbe una guerra totale in un paese petrolifero vicino alle coste del Mar Rosso. Rispetto alla guerra civile precedente, la Cina poteva avere meno possibilità di manovra dato che con Juba ha stabilito subito buone relazioni economiche, e l’’approccio di Beijing non è nulla di nuovo rispetto al suo standard: il metodo bilaterale “cinese”, basato su investimenti per materie prime, sempre condizionati dal principio di “non intervento” e della “non interferenza”.  Ma in una situazione di anarchia come quella di questi giorni, c’è solo uno Stato con cui confrontarsi e nessuna nazione fra cui scegliere. Analizzando il modus operandi della Cina, probabilmente questa stringerà accordi con chiunque riuscirà a prendere posto a Karthoum, finché è disposto al dialogo (commerciale, per non confonderci). Nell’attesa di stringere la mano al nuovo Capo di Stato sudanese, la Cina freme dall’ansia nel non vedere la fine del tunnel di instabilità nazionale.

Poche, o addirittura inesistenti, sono i progetti che sembrano efficaci come soluzioni alle questioni del Sudan: la speranza, come sempre, è che si possa assistere ad un processo di ricomposizione nazionale, che, come la pratica giapponese del Kintsugi, saldi assieme i vari pezzi frammentati di un oggetto che si è rotto. Purtroppo, non abbiamo avuto casi simili che avessero un decorso positivo e pacifico, non negli ultimi 20 anni, e sicuramente non in Africa. Il divorzio tra civili e militari si è rivelato irrimediabile nel breve periodo, e purtroppo la comunità internazionale può fare ben poco per migliorare, soprattutto se non si fa chiarezza sui reali interessi: anzi, possiamo sicuramente dire che le interferenze esterne, in quel pendolo tra Russia e USA hanno distrutto il delicato equilibrio delle forze, che è culminato con il No assoluto a qualsiasi dialogo. Le nazioni parlano di cessate il fuoco e di dialogo, ma è ancora una scienza incerta e misteriosa quella della mediazione tra divorziati.

N.A. Somogyi

Bibliografia

 

 

Le immagini sono state realizzate da Somogyi Nikolett Andrea

 

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