Nel 1949, la Cina di Mao Zedong ritiene come suoi obiettivi primari per la sicurezza nazionale il controllo diretto della Mongolia, dello Xinjiang e del Tibet. Nel novembre del 1949, l’anno stesso in cui il Partito Comunista Cinese consolida la sua vittoria sul Kuomintang di Chiang Kaishek, le FFAA penetrano nel Tibet settentrionale. Una delegazione del Tibet, nel maggio 1951 (1), si reca a Pechino per siglare un trattato di pace e di autonomia per il territorio tibetano, 17 punti che i cinesi non onorano. Con le dimostrazioni del 1959, che vengono represse dalle FFAA cinesi in un bagno di sangue, si arriva ad una accettazione di fatto, da parte delle amministrazioni USA, della sovranità cinese sul territorio tibetano con una correlata richiesta di maggiore attenzione ai diritti umani della maggioranza-minoranza tibetana da parte delle autorità di Pechino. Una quadratura del cerchio.
Ma la logica della presenza cinese in Tibet riguarda concetto strategico e geopolitica di Grande Cina, che diviene un criterio comune nel dibattito tra i Decisori del PCC. Per “Grande Cina”, come si evince in una carta geografica edita dagli USA nel 1944, si intende l’area tradizionale dell’impero di Mezzo con l’aggiunta della Mongolia Esterna, della Manciuria, dello Xinjiang e del Tibet, appunto (2). Una nota del governo cinese nel maggio 1950 identifica i confini montuosi della “Grande Cina” con la catena dell’Himalaya, le montagne del Tianshan e la catena dei monti Shikote Akin. Dagli anni ’70 in poi, la Grande Cina è un concetto che riguarda, per i Decisori cinesi, una stretta comunione di intenti soprattutto economici, tra Hong Kong, Taiwan e la madre patria. Ma, per la classe dirigente cinese l’economia è l’antefatto della geopolitica.
Per alcuni teorici cinesi contemporanei, la Grande Cina è il raggiungimento della massa critica territoriale che permette la massima elasticità e il migliore sviluppo dell’economia di Pechino, e altri ritengono che la Grande Cina debba divenire, con l’entrata di Singapore In questo network, l’asse di un mercato comune cinese che elimina barriere tariffarie e permette la libera mobilità della forza-lavoro e del capitale all’interno di questo nuovo asse asse strategico e geoeconomico. E il Tibet è essenziale a questo processo, oltre ad essere il punto di snodo strategico del controllo da parte della Cina della penisola indiana e dell’area centroasiatica dello SCO, Shangal Cooperation Organization. D’altro canto, l’integrazione del Tibet e degli altri territori-cuscinetto nella «Grande Cina» permette una operazione culturale e identitaria della attuale dirigenza di Pechino: la costruzione di uno spazio «di comune civiltà cinese» caratterizzato da una cultura “pan-cinese”, un modello di soft power molto simile alle tentazioni panturaniche turche dell’Asia Centrale, fino appunto allo Xinkiang (3)
Ma che cosa percepisce come minaccia, oggi, l’élite cinese? È questo quello che dobbiamo definire per capire cosa sta accadendo e soprattutto cosa accadrà in futuro in Tibet. Per alcuni dirigenti cinesi, la sicurezza strategica di Pechino riguarda «aree vicine al confine cinese, e non ci sono al momento pericoli credibili di invasione del territorio nazionale, ma le altre potenze globali hanno situazioni ai confini maggiormente sicure, mentre Pechino analizza situazioni di instabilità nel Kashmir, in Afghanistan, nella penisola coreana e nel Mar Cinese meridionale, oltre che negli Stretti di Taiwan, e tutte queste zone di instabilità fortemente influiscono sulla percezione della sicurezza strategica del PCC (4). Quindi il Tibet è essenziale per Pechino: da esso si controllano le evoluzioni (o le criticità) dell’Afghanistan e si gestisce la continuità di controllo strategico verso il Kashmir e l’area himalayana della «Grande Cina».
L’India, per la Cina contemporanea, è un problema. Nel 1954 lo scambio commerciale tra due paesi fu sospeso a causa delle tensioni confinarie, che anche allora riguardavano il Tibet. L’India, percepita dal PCC come “inferiore” nel processo di sviluppo e globalizzazione successivo alla guerra fredda, potrebbe divenire il referente strategico del Tibet autonomo, ed è questo che turba i sonni dell’elite comunista di Pechino. Fra l’altro, negli anni più recenti l’India si è rivelata un forte competitore della Cina per il petrolio e il gas naturale in Angola, in Sudan, in Ecuador, in Nigeria e nel Kazakhistan. Ma la collaborazione in questo settore ha portato, nel 2005, all’acquisizione dei campi petroliferi siriani detenuti da PetroCanada, ma l’aumento dei prezzi degli idrocarburi e la possibilità per la Cina di essere messa fuori da alcuni mercati petroliferi da parte dell’India è un punto critico per la prosecuzione dello sviluppo economico impetuoso di Pechino in questi anni. La competizione tra Cina e India perviene inoltre alla suddivisione attuale delle due aree di influenza: la Cina proietta la sua global strategy nell’Asia Meridionale, mentre l’India sta programmando una sua penetrazione stabile nell’Asia Orientale (5). Con la strategia della collana di perle che la Cina intende sviluppare intorno a sé, dall’isola di Hainan a Wooly Island da Chittagong a Sitwe, nel Myanmar, da Gwadar nel Pakistan agli stretti di Malacca fino al Golfo Persico,essa sta costruendo la securizzazione delle sue linee di comunicazione militari-civili e commerciali che hanno assoluto bisogno di essere del tutto coperte sul piano terrestre, e il Tibet e l’asse del passaggio di queste linee di securizzazione terrestre della “Grande Cina” (6)
Ed è nel Tibet che si incontrano, fin dalle prime fasi della Cina maoista, tutte le vie terrestri di controllo e gestione della proiezione cinese di potenza sulla massa eurasiatica maggiore. Dalla firma del trattato sino-indiano del 1954, iniziarono i lavori che portarono alla costruzione (terminata nel 1975) (7) di due strade che collegavano Lhasa alla Cina interna: la Sechuan-Tibet, che va dalla capitale del Chinai Chengtu, passa in tutte le aree orientali del Tibet prima di arrivare a Lhasa. La seconda Strada Militare cinese, che da Sining arriva anch’essa fino a Lhasa, è stata completata da tempo la strada Yunnan-Tibet, e a Shigatse, in connessione/contrasto strategico con la equivalente base aerea indiana nel Ladakh, opera un comando interarma dell’Armata Popolare Cinese che gestisce tutta la rete avanzata di basi e di sensori cinesi nel sud e nel sudest dell’Himalaya, controllando quindi i confini del Bhutan, del Sikkim, del Nepal e del ladakh (8).
Vi sono poi notizie, mai confermate pubblicamente, secondo le quali la Cina, fin dai tempi degli scontri sull’Ussuri con l’URSS nel 1969, avrebbe trasferito le sue strutture nucleari dal poligono di Lop Nor, considerato troppo vicino all’URSS, verso località segrete del Tibet, il che sarebbe peraltro giustificato nel quadro della suaccennata strategia della “collana di perle” (9). Vi sono comunque stazioni radar evolute cinesi a Chuang Teng Tze (Mongolia interna) Nangheng Tagyori e Phutak Zolling (in Tibet) e una stazione di identificazione dei missili avversari nel Tibet occidentale (10). Quindi, per parafrasare la vecchia formula della geopolitica di Mackinder, “chi controlla il Tibet domina il territorio alla base della catena dell’Himalaya, chi domina la costa dell Himalaya minaccia il subcontinente indiano, e chi minaccia il subcontinente indiano può facilmente avere sotto controllo tutta l’Asia meridionale, e quindi tutta l’Asia” (11)
Le FFAA cinesi in Tibet hanno sostanzialmente due funzioni: difendere i confini della Madrepatria e sopprimere ogni fermento indipendentista tibetano, che potrebbe richiamare interventi esterni e rendere porosa la sicurezza terrestre della Cina, producendo cosi la debolezza strutturale della proiezione di potenza cinese verso i mari regionali orientali e, di converso, una debolezza strutturale di Pechino verso il Giappone rendendo conseguentemente difficile la futura riunione di Taiwan alla madrepatria. E inoltre, la Cina intende competere, fin dai tempi di Mao Zedong, con l’India per gestire relazioni preferenziali con gli stati himalayani. E, di conseguenza, la Cina ha sempre favorito regimi nazionalisti autonomi nella buffer zone tra Tibet e India: le rivolte nel Sikkim, nel Kashmir, nel Nagaland, e nel supporto di Pechino al nazionalismo anti indiano negli stati himalayani. In una situazione del genere, in cui l’India attuale si proietta nel mari meridionali verso occidente e evita di utilizzare come mezzo di propaganda il suo modello induista-pluralista, il maggior obiettivo delle numerose forze armate cinesi di stanza in Tibet è quello di sostenere lo sforzo diplomatico di Pechino nella regione dell’Himalaya, per isolare |India e allargare la sicurezza della «Grande Cina». Quindi, pensare che la Cina rilasci la presa in Tibet, è del tutto irragionevole. Certamente, il danno di imma-gine per Pechino della persistenza e della radicalità della rivolta nazionalista tibetana è rilevante, qualunque sia il periodo di durata della repressione violenta dei moti tibetani. Ma Pechino non mollerà tanto facilmente, e le pressioni dell’Occidente scivoleranno via come un tè verde dello Yunnan.
Gli scenari successivi alla «pacificazione» tacitiana della rivolta in Tibet potranno essere, per la Cina, i seguenti: a) una nuova riedizione della «strategia del sorriso», preceduta da una stretta nei rapporti commerciali bilaterali con Paesi che maggiormente hanno sostenuto la rivolta tibetana, b) una nuova selezione, da parte di Pechino, degli “amici” e dei “nemici” che comunque avrà per epicentro il controllo delle reti commerciali indiane, che probabilmente saranno penetrate da un capitale cine se, «grigio» o «bianco, particolarmente aggressivo, e tale da creare un rallentamento della crescita economica del subcontinente indiano. Una guerra commerciale coperta tra India e Cina, senza esclusione di colpi e che avrà come obiettivo i mercati euroamericani nei quali India e Cina perseguono strategia di penetrazione simili. Una terza opzione c) riguarda la possibilità da parte dell’élite cinese, dopo la crisi tibetana, di aprire un nuovo meccanismo di rapporto tra centro e periferia della “Grande Cina” , seguendo l’esempio del processo di liberalizzazione economica e di crescita eccezionale del Pll che riuscì a riassorbire la rivolta di Tienanmen del 1989.
Una alternativa ulteriore è invece quella di una forte «rieducazione» al nazionalismo da parte del PCC verso la sua opinione pubblica e un conseguente depopolamento forzato, con le buone o le cattive, del Tibet come di altre aree particolarmente riottose della campagne, quelle che secondo Lin Biao dovevano «accerchiare le città del mondo». In ogni caso, la situazione tibetana ha dimostrato che l’ingenua equazione crescita economica-maggiore democratizzazione è una sciocchezza. Tanto maggiore sarà la crescita economica cinese nei prossimi anni, invece, tanto maggiore sarà la propaganda nazionalista, identitaria, di orgogliosa forza militare che Pechino mostrerà in futuro.
Il «supplemento d’anima» per l’impetuoso sviluppo economico cinese non è la democrazia di massa, ma sarà certamente il ritorno dell’etica gerarchica e orgogliosamente han (e razzista) che ha caratterizzato il confucianesimo e che infatti viene diffusa in forti dosi attraverso tutti i mass-media cinesi. E il correlato oggettivo del confucianesimo di Partito sarà il ritrovato orgoglio militare e nazionalistico. Se il Tibet sarà «risolto» da Pechino in tempo utile, certamente la durata di Taiwan come stato indipendente diminuisce.
Soluzioni? Nessuna credibile. Sia l’UE che gli USA sono legati a filo doppio all’economia e alla finanza cinesi, e in una situazione come quella attuale, di recessione globale, nessuno si metterà contro Pechino. Per convincere la Cina, casomai, occorrerebbe una posizione avanzata NATO verso i confini terrestri di Pechino, con alleanze stabili e affidabili con i Paesi confinanti himalayani e non. Ma anche questa via è chiusa la Shangai Cooperation Organization è ormai funzionante, dopo gli esercizi militari comuni dell’Estate 2007 (12) e gli stati interstiziali tra Cina e India sono difficilmente gestibili da un potere esterno a quel quadrante strategico, nel quale la Cina riattiverebbe in un attimo le attuali “guerriglie maoiste” come in Nepal o ne Kashmir. Ma il fallimento dell’umanitarismo democratico, che non salverà una sola vita tibetana, deve far pensare all’Europa e agli USA che, come affermava Machiavelli, i profeti disarmati “ruinorno”, mentre quelli armati “vinsono”.
Marco Giaconi
Note
1. Guangqiu Xu, The United States and the Tibet Issue, «Asian Survey», Vol. 37, n. 11, November 1997
2. U.S. Office for Strategic Service, Greater China, Washington DC, da FOIA CIA
3. David Yerho Wu, The construction of Chinese and Non-Chinese identities, in “Dedalus”, vol. 120, n. 2, 1991
4. Dong Fanxiao, Knowing and seeking chan ge. in Xiandai Guoji Guangxi “Contemporary International Relations” n. 4 aprile 2003
5. Susan L Craig, Chinese Perceptions of traditional and nontraditional security threats, Strategic Studies Institute, Carlisle Barracks, March 2007
6. Intellibriefs, China’s «String of pearls» Strategy, 1 April 2007, www.intellibriefs/blogspot.com
7. Radio Lhasa, 9 September 1975
8. Dawa Norbu, Strategic development in Tibet, implications for its neighbours. «Asian Survey», vol. 19, n. 3 Marzo 1979
9. Le uniche voci sull’argomento furono raccolte dalla Tibetan Review, nel numero di Agosto-Settembre del 1969, pp.5-6
10. Per il report completo delle reti militari cinesi (dell epoca) in Tibet, v. la Tibetan Review Marzo 1974, pp-4-5.
11. George Ginsborg e Michael Matho Communist China and Tibet: The first dozen years, The hague, Nijoff 1964
12 The Rising Dragon SCO Peace Mission 2007 Jamestown Foundation, Washington D.C. 19 October 2007
da: Ircocervo, anno 2, numero 1, primavera / estate 2008
Per la “strategia del sorriso” rimandiamo all’articolo di Giaconi per alleo sul memorandum Italia Cina del 2019: https://www.alleo.it/2019/03/25/memorandum-italia-cina/