“Le categorie del Politico” insieme a “Il Nomos della terra”, “Cattolicesimo romano e forma politica” ed a “Terra e Mare”, sono state tra le letture che più hanno formato lo scrivente. Lo dico da giurista quale, per titolo di laurea, sono. Schmitt è di una lucidità filosofico-giuridica impressionante. Un vero e proprio demolitore e disincantatore dell’utopia neutralizzante liberale. Si ritiene che Schmitt, nella fase della sua maturità, sia stato debitore in modo particolare di Thomas Hobbes. Senza negare questo debito, non si può sottacere che, non a caso, tra le sue fonti c’è Juan Donoso Cortés, l’autore del “Saggio sul Cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo” (1851). Ne è prova l’opera che Schmitt dedicò a Cortés, “Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea” (1950), raccolta di quattro saggi che il filosofo di Plettenberg pubblicò tra il 1922 ed il 1924. Il grande cattolico spagnolo antiliberale del XIX secolo – anche Carl Schmitt era cattolico professo e praticante – fu probabilmente il primo a comprendere che il mondo, dopo la Rivoluzione Francese, non poteva più reggersi sulla legittimità tradizionale, quella delle antiche monarchie, e di conseguenza, a fronte dell’avanzare del liberalismo e del socialismo (che l’ispanico conosceva soltanto nella versione di Proudhon), invocò la “dittatura”, nel senso classico romano. Carl Schmitt, ispirandosi al giudizio tagliente di Cortés, avrebbe elaborato, negli anni roventi di Weimar, il “decisionismo” quale fondamento politico e pre-giuridico dell’unità dello Stato contro i suoi nemici interni ed esterni. Si badi che, benché egli parlasse di “fürher-prinzip” e di “Stato totale”, secondo il senso semantico che tali espressioni avevano all’epoca e nella cultura giuridica tedesca, il suo decisionismo nulla ha a che fare con la dittatura hitleriana ed il totalitarismo nazista. Schmitt pensava, negli anni di Weimar, piuttosto alla soluzione presidenzialista per salvare la Repubblica e la Germania.
Donoso Cortés definiva la borghesia una “clasa discutidora”, ossia incapace di decisione, volendo intendere che essa, ponendosi tra il Re ed il popolo, aspirava ad un Sovrano che non governasse ed un popolo che non pretendesse di partecipare al governo. La borghesia liberale, per Donoso Cortés, ambiva ad una monarchia costituzionale e censitaria che era, per l’ispanico, il massimo dell’indecisione tra bene e male. Egli mentre riconosceva al socialismo una potenza “teologica” benché invertita, ossia luciferina, disprezzava il liberalismo proprio perché tiepido e privo di qualsiasi forza spirituale. Carl Schmitt ne riprende in pieno la lezione quando in “Teologia Politica, poi ne “Le categorie del Politico”, afferma: «La borghesia liberale vuole un Dio che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca che però dev’essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza, e tuttavia anche la limitazione del diritto di voto alle classi possidenti, per assicurare all’istruzione e alla ricchezza il necessario influsso sulla legislazione, come se istruzione e ricchezza dessero il diritto di opprimere gli uomini poveri e non istruiti; essa elimina l’aristocrazia del sangue e della famiglia e lascia però sussistere l’impudente signoria dell’aristocrazia del denaro, che è la forma più ordinaria e stupida di aristocrazia; essa non vuole né la sovranità del re né quella del popolo» (pg. 80).
Senza dubbio Carl Schmitt si pone sulla linea dell’antropologia negativa ossia del pessimismo antropologico che risale, quantomeno, a Machiavelli ed a Lutero, prima di Hobbes e Donoso Cortés. Questo comporta una grave contraddizione, che appunto fu già rimproverata al diplomatico spagnolo (tuttavia difeso contro tale accusa da Pio IX), ossia l’inconciliabilità di questa antropologia con il dogma tridentino sul peccato originale. In effetti, per la fede cattolica, contrariamente a quanto sosteneva Lutero, la colpa originaria ha soltanto ferito la natura umana, rendendole più difficile ma non impossibile, con l’aiuto della Grazia (“Gratia naturam supponit, non tollit sed perficit”), fare il bene ed amare il prossimo. Essa, la colpa, non ha distrutto la natura umana come pretendeva Lutero per il quale l’uomo è essenzialmente una cloaca di peccato, ontologicamente malvagio, che può sperare la salvezza soltanto dall’imperscrutabile e, in fondo, arbitraria decisione di Dio, il Quale può anche decidere di salvare un criminale anziché un santo. Proprio perché, diceva l’eresiarca tedesco, la “grazia” non sana la colpa ma semplicemente la copre agli occhi di Dio, sicché l’uomo, benché salvato, rimane peccatore e non può conoscere né sperimentare la Purezza Divina. In questa svalutazione della “carne”, considerata ontologicamente opposta a Dio, quindi malvagia, è innegabile il ritorno in Lutero di un influsso gnostico. Donoso Cortés – e per estensione Carl Schmitt – pur senza giungere a tali eccessi (per questo Papa Mastai-Ferretti lo difese) tuttavia propendeva, di fronte al caos rivoluzionario ed alle presunzioni auto-deificatorie dell’umanità moderna, per una visione pessimistica dell’uomo.
L’essenza del pensiero di Carl Schmitt è nella dicotomia “amico-nemico” sulla quale egli fonda il Politico. Non può comprendersi tale dicotomia senza tener conto dell’antropologia pessimista che la sorregge. Infatti, nella teologia tradizionale del Politico il fondamento del vivere sociale è il “bonum commune”, manifestazione della Giustizia di Dio, che il Sovrano deve garantire e che è costantemente messo in pericolo dal conflitto, sociale, politico, internazionale, economico. Il conflitto, nella teologia politica tradizionale, non è fisiologico alla natura umana ma patologico, in quanto è il risultato di quella colpa originaria che ha ferito, ma non distrutto, l’uomo. Sicché, anche nelle condizioni post-adamitiche, il conflitto, sempre latente e sempre presente, può essere composto, ridotto, attenuato, contenuto, benché mai del tutto eliminabile almeno fino alla fine dei tempi. Se sul piano spirituale, per superare, almeno tendenzialmente, il conflitto, necessita la Grazia, che trasforma il cuore umano aprendolo all’Amore di Dio (quella trasformazione che Lutero invece negava quale effetto della Grazia), sul piano politico alla composizione del conflitto, al mantenimento del “bene comune”, necessita l’Autorità Politica, nelle sue varie forme storiche. Invece, Carl Schmitt ponendo il conflitto come fisiologico, anziché come patologico, al Politico finisce per allinearsi, nonostante il suo cattolicesimo mai rinnegato, all’antropologia negativa e per tale via giunge al contrattualismo sociale nella versione hobbesiana, non in quella lockiana o rousseviana.
È, quella di Schmitt, senza dubbio una posizione di realismo politico che, tuttavia, portata all’eccesso può scadere in un irrealismo laddove non contempla la possibilità di bene che ancora sussiste nell’uomo e nel mondo. Si tratta del rischio che corse anche Donoso Cortés. Un irrealismo che presta poi il fianco, contro le intenzioni iniziali del tedesco e dell’ispanico, all’errore del “conservatorismo ateo” eguale e contrario a quello del “progressismo”, che invece si fonda sulla prospettiva teologica di Pelagio per la quale l’uomo è buono per natura, nonostante il peccato. È la prospettiva del “bon sauvage” che sarebbe ritornata in Rousseau. In un caso e nell’altro l’errore teologico sta nel negare la Grazia, o asserendo che essa non trasforma l’uomo o affermando che essa non è necessaria all’uomo.
In un’ottica tradizionale, il decisionismo di Schmitt ed il normativismo di Kelsen sono, in fondo, le due facce della stessa medaglia moderna. Il normativismo tutto riconduce e rinchiude all’interno della norma astratta e formalmente perfetta, in un sistema graduale che culmina nella “Grundnorm”, la Costituzione, all’interno del quale nulla può essere fuori posto e tutto trova interpretazione e spiegazione. Il decisionismo oppone al vuoto astrattismo del normativismo la concretezza della decisione e del decisore, quale fonte della sovranità (“sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”), ma senza attingere ad una legittimazione superiore, in senso metafisico, che possa giustificare la sovranità. Nell’un caso come nell’altro c’è assenza e negazione della Trascendenza. Sicché la critica schmittiana al “diritto naturale” funziona quando essa prende a riferimento, pur nella loro diversità, il giusnaturalismo dei filosofi contrattualisti moderni, Locke, Hobbes, Rousseau. Altra cosa è il “diritto naturale” come inteso dal pensiero classico e medioevale, da Platone e Aristotele fino a Tommaso d’Aquino ed alla Scuola di Salamanca. In questo caso il diritto naturale non è il risultato di un contratto tra individui che creano lo Stato per regolare i loro affari privati, ma è espressione politico-giuridica della Metafisica e, quindi, di Dio. Del Dio della Rivelazione, il cui deposito è nella Chiesa, e non del “dio” quietista o deista della distorsione protestante. Proprio Carl Schmitt, che richiamava l’assunto di Hobbes per il quale “Auctoritas, non veritas, facit legem” si rese gradualmente conto, mentre la marea nazista dilagava in Germania, dell’inquietante portato “esoterico” che si nasconde dietro la teologia politica hobbesiana, connessa con gli ambienti rosacruciani e l’occultismo magico che imperversava nell’Inghilterra elisabettiana. Bollato come “sospetto”, per via del suo cattolicesimo, dalla rivista delle SS “Das Schwartze Korps”, Schmitt, al pari di altri esponenti della Rivoluzione Conservatrice Tedesca – Ernst Jünger, Martin Heidegger, ed altri – prese la via dell’esilio in patria benché mai passando all’opposizione aperta alla dittatura hitleriana. Ciò non bastò ad evitargli nel 1947 l’arresto e non gli evitò di finire tra gli imputati minori al processo di Norimberga, pur uscendone assolto, dove un incolto pubblico ministero, Robert Kempner, lo accusò di essere stato il teorico del Reich.
Il punto è che prima del Politico c’è il Sacro. Non che Schmitt lo neghi – era, come detto, cattolico praticante – ma, concentrato sui problemi della modernità e della statualità, egli il Sacro lo sottende in favore, nella modernità, del primato del Politico. In questo egli può ritenersi un “panpolitico”. Nella sua ottica anche la religione finisce per rientrare nel Politico, anziché precederlo, soprattutto laddove essa è foriera della distinzione degli uomini tra amici e nemici. In tal senso, proprio in “Le categorie del Politico”, è emblematico il capitolo sugli “ambiti centrali”, e la loro progressione discendente (forse, qui, un influsso tradizionalista, guenoniano?), che presiedono a ciascuna epoca conservandola fino a quando essi garantiscono il mantenimento dell’ordine politico e giuridico e, pertanto, della pace ossia il contenimento, la neutralizzazione, del sempre latente conflitto. Nel medioevo, dice Schmitt, la Teologia era l’ambito centrale dell’epoca ma con la rottura dell’unità spirituale della Cristianità, a seguito della Riforma e delle guerre di religione, si è dovuto trovare un altro ambito centrale ovvero il diritto statuale moderno. Lo Stato moderno, come forma del Politico, non a caso nasce tra XV e XVI secolo ed è il “primo agente della secolarizzazione”. Sul piano internazionale la ramificazione dello Stato fu lo jus publicum europaeum sancito, sul fondamento del “cuius regio eius religio”, con la Pace di Vestfalia (1648). Ma statualità e diritto internazionale inter-statuale saranno a loro volta dissolti, con la prima guerra mondiale, dal diritto umanitario globale, espressione del potere transnazionale degli organismi globalisti dell’Occidente liberale e dell’Oriente comunista – Società delle Nazioni, ONU, Nato, Patto di Varsavia – nonché supporto della economicizzazione e tecnicizzazione del mondo.
In uno scritto giovanile, “Cattolicesimo romano e forma politica”, pubblicato nel 1923 nell’ambito del rinnovamento cattolico del primo dopoguerra, Schmitt aveva già intravisto l’incipiente dominio globale della tecnica mettendone in rilievo la sua incapacità di creare una qualsivoglia forma politica, sicché dopo lo Stato, in via di superamento, egli non vedeva profilarsi alcuna nuova modalità di organizzazione dell’unità della vita associata. In sostanza, per Schmitt, economia e tecnica non avrebbero realizzato una migliore forma di convivenza politica tra gli uomini, né contro le illusioni liberali avrebbero assicurato “pace ed ordine”, essendo la loro essenza inevitabilmente anarchica e predatoria. Con l’egemonia tecnico-economica viene meno ogni carattere teologico che ancora sussisteva, benché in modalità mistificatoria, nello Stato moderno. Infatti, se – come avrebbe affermato in “Teologia Politica” (ora in “Le categorie del Politico”) – “tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati” (il che vale a dire che Dio, nella teologia politica moderna, è surrogato dal “Legislatore” ovvero dal Sovrano hobbesiano e decisore), economia e tecnica, estremo approdo della secolarizzazione, non hanno più neanche tale capacità di imitazione dei principi fondamentali della Teologia. Sono del tutto a-teologici, anzi anti-teologici. E quindi del tutto a-politici, anti-politici. Per questo Schmitt, nell’opera giovanile sopra citata, osservava sarcastico che la Chiesa sarebbe diventata comprensibile al pensiero tecnico soltanto quando tutte le lampade d’altare saranno collegate ad una unica centrale elettrica. Per il pensiero tecnico la Chiesa, con tutto il suo apparato rivelatorio, mistico, teologico, liturgico e misterico, è un assurdo irrazionale, una dimensione di oscurantismo, una egemonia insopportabile da ridurre in schemi comprensibili secondo la massima kantiana della “religione entro i limiti della sola ragione”.
Il dominio planetario di tecnica ed economia in Schmitt fa il paio con la questione dei grandi spazi (Grossraum) e del conflittuale confronto tra il Leviathan ed il Behemoth, due mostri biblici, il primo marino ed il secondo terrestre, che egli prende a simbolo dello scontro tra imperi terranei e talassocrazie marittime. Il tema è trattato in “Terra e mare”, del 1942, e ripreso ne “Il Nomos della terra, del 1950, con molta più ampiezza scientifica laddove nel primo scritto Schmitt ne argomenta con lo stile del narratore di saghe.
Per Carl Schmitt il nomos è l’esito della “divisio primaeva” del territorio occupato da una comunità umana. È la ripartizione sacrale del territorio a creare l’ordnung e l’ortung, il principio di organizzazione della comunità e le modalità del suo radicamento spaziale. Anche nelle religioni abramitiche sulla terra si riflette il Cielo e dunque la volontà ordinante di Dio, benché l’orizzonte ultimo, quello salvifico, è in tale contesto ultraterreno. Il nomos, dunque, non è una convenzione, un contratto, ma è sancito dalla distribuzione dello spazio terrestre. Esiste un intrinseco rapporto tra norma e spazio. Negli ordinamenti premoderni il rapporto tra diritto e terra assumeva carattere religioso. Ma nella modernità questa relazione tra Sacro e Politico, ovvero tra Cielo e Terra, è stata progressivamente rimossa. Il tal modo lo spazio ha perso ogni valenza giuridico-sacrale diventando soltanto una categoria di ripartizione quantitativa. Lo spazio, se continua a perimetrare l’ambito della vigenza del diritto, non ha più alcun significato sacrale. Come mero elemento accidentale, esso non esercita più alcuna influenza sulla validità della norma ed il diritto non solo può farne a meno, diventando astratto e delocalizzato, ossia u-topico nel senso letterale del termine (senza luogo), ma consente così de-concretizzato – qui il normativismo liberale – lo sradicamento cosmopolita ed “umanitario”. Questo ha sancito il trionfo delle talassocrazie liberali e libertarie come il loro elemento caratterizzante – il mare, irriducibile a qualunque ordinamento giuridico che ha bisogno, per darsi, di terra e di confini – e per questo votate non solo al dominio planetario ma soprattutto all’implosione nichilista cui l’egemonia di economia, finanza e tecnica (Schmitt non conosceva la portata ancor più egemonica e predatoria della tecnologia cibernetica) sta conducendo l’Occidente. A differenza dell’impero spagnolo asburgico, con pretese universali ma tradizionali, il quale nonostante la sua estensione oceanica era pur sempre un impero terraneo che governava in un’ottica eurocentrica – e forse proprio per questo alla lunga esso ha perso la guerra con l’Inghilterra potenza corsara e pirata del tutto spregiudicata e senza ordinamento né diritto –, la talassocrazia occidentale, da ultimo rappresentata dagli Stati Uniti d’America, ha sì vinto, economicamente e politicamente, sul tentativo germanico di creazione di un “Nuovo Ordine Europeo” e sulla potenza euroasiatica sovietica ma solo per dissolversi nel vuoto di un nichilismo assoluto. Del quale, noi oggi possiamo dire, le correnti recenti, di importazione statunitense, dell’ideologia “woke” e della “cancel culture” sono soltanto la punta dell’iceberg.
Carl Schmitt, che non ha avuto esperienza delle forme più recenti della deriva nichilista dell’Occidente, alla fine della sua vicenda filosofica ce ne ha indicato le cause e i rimedi allorché, in “Geschpräch über die Macht und den Zugang zum Machtaber” (1954), osservava: «Credo che nell’ultimo secolo l’essenza del potere umano si sia svelata a noi in un significato del tutto particolare. Infatti è strano che la tesi della malvagità del potere si sia diffusa proprio a partire dal XIX secolo. Avevamo pensato di aver risolto o almeno appianato il problema del potere, affermando che il potere non proviene né da Dio né dalla natura, ma piuttosto da un patto che gli uomini stipulano tra loro. Che cosa dovrebbe ancora temere l’uomo, se Dio è morto e il lupo non è altro che uno spauracchio per bambini? Ma proprio dall’epoca in cui questa umanizzazione del potere sembra essersi definitivamente realizzata – e cioè dalla Rivoluzione Francese – dilaga irresistibilmente la convinzione che il potere sia in sé malvagio. Il detto “Dio è morto” e l’altra enunciazione “il potere è in sé malvagio” derivano entrambi dallo stesso periodo storico e dalla stessa situazione, vogliono dire la stessa cosa».
Ovvero, in altri termini, senza Dio non c’è Politico né Bene Comune.
Luigi Copertino