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PEGGIO LA CORTE COSTITUZIONALE O L’EX-MINISTRO SPERANZA? Di Francesco Mario Agnoli

 

Le tre sentenze della Corte  n.ri 14,15, 16 del 9 febbraio 2023, riguardanti alcuni  fondamentali aspetti della legislazione anti.covid (in particolare, vaccinazione obbligatoria, sospensione dal lavoro e dalla retribuzione dei non vaccinati, non corresponsione dell’assegno alimentare), hanno sollevato un numero davvero insolito di recriminazioni e contestazioni  (anche – pare – per alcune modalità di formazione del collegio giudicante e di conduzione dell’udienza ad opera della presidente)  sia di operatori del diritto sia  dei mezzi di comunicazione sociale (stampa e web).  Per non eccedere in lunghezza  le osservazioni che seguono, destinate a una rivista non scientifica, riguardano soprattutto i punti che più hanno suscitato l’attenzione dei media con rinvio (eventuale) ad altro scritto di ulteriori approfondimenti. Intanto si può ridurre il campo, accantonando senza ulteriori commenti, la sentenza n. 16, che ha solo dichiarato l’inammissibilità, per carenza di giurisdizione, del dubbio proposto dal giudice remittente, TAR Lombardia. La Corte in sostanza si è limitata a ricordare che le  Sezioni Unite della Cassazione con l’ordinanza n. 28629 del 29/9/2022 hanno attribuito alla giurisdizione ordinaria i ricorsi proposti da liberi-professionisti (nel caso una psicologa) contro  provvedimenti del loro Ordine.

La sentenza n. 14 si  occupa della questione sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, che dubitava principalmente della legittimità costituzionale   delle norme riguardanti la sospensione dall’esercizio dell’attività degli operatori sanitari non vaccinati per contrasto con gli artt, 3, 4, 32, 33, 34 e 97 Cost. Al riguardo la Corte ha premesso di  prendere in esame solo l’asserito contrasto con l’art. 32  carenza di motivazione del giudice remittente sul coinvolgimento degli altri articoli citati.  Quanto all’ art. 32 la Corte ha ricordato la propria precedente giurisprudenza che nel “contemperamento tra le due declinazioni, individuale e collettiva, del diritto alla salute, l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio trova giustificazione in quel principio di solidarietà che rappresenta «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente»(sentenza n. 75 del 1992)” in base al quale principio “della solidarietà verso gli altri, ciascuno può essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico» (ancora sentenza n. 307 del 1990, richiamata anche dalla sentenza n. 107 del 2012)”.

L’applicazione di tali principi al caso specifico è stata effettuata  con totale adeguamento a quanto ritenuto dalla scienza medica ufficiale, più esattamente degli enti istituzionali, europei ed italiani, del  settore (EMA, ISS, AIFA). In ordine ai  criteri da porre a base del giudizio di compatibilità dell’obbligo vaccinale con le due declinazioni del diritto alla salute,  la Corte ha riproposto l’elencazione di cui alla sentenza n. 258/1994, per la quale si ha  compatibilità: “a) se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale (cfr. sentenza 1990 n. 307); b) se vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili (ivi); c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr. sentenza 307 cit. e v. ora legge n. 210/1992)”.  Dalla loro “lettura complessiva  si evince che il rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, non rende di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un obbligo vaccinale, costituendo una tale evenienza titolo per l’indennizzabilità”.

I critici hanno opposto la carenza nella legislazione Covid del criterio sub b) per non essere né temporanei né di scarsa entità alcuni degli eventi avversi, a cominciare da quelli mortali, la cui sussistenza, sia pure in un limitato numero di casi, non può più essere negata. In realtà la Corte parla di “lettura complessiva” con la conseguenza che il criterio sub b) va letto assieme al sub c), che condiziona la costituzionalità dell’obbligo vaccinale con la possibilità di eventi avversi anche gravi alla previsione della loro indennizzabilità con richiamo alla sentenza n. 307/1990, che proprio per la mancanza dell’indennizzo dichiarò incostituzionale l’obbligatorietà della vaccinazione antipolio. Resta il fatto che anche in questa sentenza si parla sì di gravi malattie, ma non, quanto meno espressamente, di eventi fatali e che difficilmente la morte può essere considerata evento tollerabile, se non dal punto di vista della società, da quello del diretto interessato (il vaccinato), che  sembra  l’unico preso in considerazione dal criterio di cui alla lettera b) pur se letto in connessione col c). Ugualmente  la sentenza n. 118/1996 (riguardante un caso di invalidità permanente da vaccinazione antipolio), pur definendo “scelte tragiche del diritto” quelle assunte dalla società in vista di un bene che comporta anche un male,  si ferma un passo prima della morte, alla “infezione che, seppur rarissimamente, colpisce qualcuno dei suoi componenti” con conseguente irreversibile inabilità.

Il punto è che non solo le sentenze, ma anche la legge  n. 210/1992 (“Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicazioni di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e  somministrazione di emomoderati”) indica fra  gli eventi  avversi resi  “tollerabili” dalla previsione di un indennizzo, unicamente “lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una diminuzione permanente della integrità psico.fisica”, ma non il decesso. Ne consegue, a meno di non volere attribuire l’omissione alla ritrosia del legislatore (e dei giudici) ad usare la temibile parola “morte”, la legittimità di una lettura  che escluda questo evento da quelli  “tollerabili” per indennizzo. Non, ovviamente, nel senso che qualora si verifichi un decesso questo non vada indennizzato, ma nel senso che quando sussista la pur remota possibilità di pur radi esiti mortali, tale eventualità sia di per sé sufficiente ad escludere ogni ipotesi di obbligatorietà.

Una lettura interpretativa  trascurata dalla Corte, come accade anche nella sentenza n. 15, che ha dichiarato l’infondatezza dei dubbi di incostituzionalità sollevati dai giudici del lavoro  di Brescia (ben 7 provvedimenti), Catania e Padova, che mettono in gioco, oltre al 32, gli articoli 2,3,4 e 35 della Costituzione. Sentenza che trascura, o troppo semplicisticamente risolve, problematiche che avrebbero potuto  portare ad una dichiarazione di almeno parziale illegittimità:  in particolare delle disposizioni che, partendo dagli operatori sanitari, nel caso di rifiuto della vaccinazione hanno privato non solo della retribuzione, ma addirittura dell’assegno alimentare  varie e vaste categorie di lavoratori. E’  su quest’ultimo punto  che si sono concentrate molte critiche ad una sentenza che giustifica la mancata corresponsione non solo della  retribuzione, ma anche dell’assegno col venir meno del sinallagma funzionale del contratto di lavoro a causa della mancata  prestazione lavorativa del dipendente che sceglie di non vaccinarsi. In questo modo la Corte, da un lato, fa dell’effettiva prestazione di lavoro il presupposto necessario anche dell’assegno alimentare, dall’altro nega la possibilità di equiparare la posizione del lavoratore che rifiuta la vaccinazione a quella di chi non può effettuare la prestazione lavorativa perché sottoposto a procedimento penale o disciplinare. In questo caso, difatti, “la scelta del legislatore di equiparare quei determinati periodi di inattività lavorativa alla prestazione effettiva trova giustificazione nella esigenza sociale di sostegno temporaneo del lavoratore per il tempo occorrente alla definizione dei  relativi giudizi e alla verifica della sua effettiva responsabilità, ancora non accertata”. Ben diverso il caso del lavoratore che, non adempiendo all’obbligo vaccinale,  “decide di sottrarsi unilateralmente  alle  condizioni di sicurezza che rendono la sua prestazione lavorativa, nei termini anzidetti, legittimamente esercitabile”.

In realtà i giudici del lavoro remittenti avevano attribuito all’assegno alimentare natura non retributiva, ma assistenziale, non rappresentando il corrispettivo di un’attività lavorativa, ma trovando fondamento nell’assicurazione delle esigenze di vita di chi risulta comunque dipendente e della sua famiglia. La Corte riconosce trattarsi di una diffusa interpretazione giurisprudenziale, che fa dell’assegno “un diritto soggettivo di automatica applicazione, nonostante la temporanea interruzione del termine sinallagmatico dello svolgimento della prestazione da parte del lavoratore”, ma replica che  “tale interpretazione non comporta comunque quale soluzione costituzionalmente obbligata l’accollo al datore di lavoro della erogazione solidaristica in favore del lavoratore che non abbia inteso vaccinarsi e che sia perciò solo temporaneamente inidoneo allo svolgimento della propria attività lavorativa, di una provvidenza di natura assistenziale esulante dai diritti di lavoro, atta a garantire la soddisfazione delle esigenze di vita del dipendente e della sua famiglia”. Per concludere che, rappresentando l’erogazione dell’assegno alimentare un costo senza corrispettivo per il datore di lavoro, “non è irragionevole che il legislatore ne faccia a lui carico quando l’evento impeditivo della prestazione lavorativa abbia carattere oggettivo e non anche quando l’evento stesso rifletta invece una scelta pur legittima del prestatore d’opera”.

Si tratta, come si vede, di affermazioni pressoché apodittiche sulla ragionevolezza di una scelta che nel bilanciamento dei valori in gioco fa prevalere l’interesse del datore di lavoro ad  un minore esborso di denaro in costanza del rapporto di lavoro  sulla dignità della persona e le esigenze esistenziali proprie e della famiglia in conseguenza del rifiuto della vaccinazione pur definito “legittimo” dalla stessa Corte. Corte che, per altro, ha anche omesso di chiedersi se, una volta esonerato il datore di lavoro, di fronte a una situazione di grave disagio morale e materiale, comunque determinata da un scelta legislativa in contrasto, sia pure giustificato dalla eccezionalità  pandemica, con fondamentali norme costituzionali, il legislatore, invece di disporre, con chiaro intento dissuasorio/punitivo, che al lavoratore non vaccinato non spettano durante il periodo di sospensione “la retribuzione né altro compenso o emolumento comunque denominati”  non avrebbe dovuto, con più puntuale applicazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità,   prevedere quanto meno  la corresponsione dell’assegno alimentare a carico dello stato.

Francesco Mario Agnoli

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